Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 14843 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 14843 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 07/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Fano il 27/04/1951 avverso la sentenza del 12/04/2024 della Corte di appello di Ancona visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; lette le conclusioni scritte dell’Avv. NOME COGNOME difensore della parte civile NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; lette le conclusioni scritte degli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME, difensori di NOME COGNOME che hanno concluso per l’annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento in epigrafe indicato, la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Pesaro in data 27 aprile 2021, ha dichiarato la responsabilità ai soli effetti civili di NOME COGNOME condannandolo al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede in favore della parte civile NOME COGNOME per il reato di falsa testimonianza, confermando
nel resto agli effetti penali, in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero, la sentenza di assoluzione emessa in primo grado per il reato di falsa testimonianza di cui all’art. 372 cod. pen. (capo A), commesso il 24 febbraio 2014.
Con la sentenza di primo grado l’imputato era stato assolto in applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 2, cod. pen. in relazione all’art. 197-bis, comma 4, cod. proc. pen., che la Corte di appello, decidendo ai soli effetti civili, ha invece ritenuto insussistente.
Nel processo collegato celebrato a carico di COGNOME e COGNOME per i reati di violazione di domicilio ed interferenze illecite nella vita privata, i predetti eran stati assolti con sentenza irrevocabile che aveva attestato la falsità della deposizione testimoniale di NOME COGNOME assunta in quel processo, per avere confermato le dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni testimoniali con le quali aveva riferito di aver visto i predetti entrare nella proprietà di NOME COGNOME per filmare e scattare delle fotografie.
Tramite il proprio difensore di fiducia, NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i motivi di seguito sintetizzati.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione alla mancata dichiarazione di inammissibilità dell’appello proposto dalla parte civile in difetto di mandato speciale per violazione degli artt. 100 e 122 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 576 e 577 cod. proc. pen.
Secondo il ricorrente, l’appello è stato proposto da difensore privo di procura alle liti atteso che il potere di impugnazione richiede uno specifico mandato e rilevato che nell’atto di costituzione di parte civile il COGNOME aveva conferit all’avvocato procura speciale per la costituzione di parte civile e per la rappresentanza nel procedimento con nomina dello stesso difensore per ogni grado e stato del procedimento giudiziale.
2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in merito all’omessa dichiarazione di inammissibilità dell’appello proposto dalla parte civile in violazione dell’art. 576 cod. proc. pen. ed in relazione all’art. 581 comma 1, lett. b), stesso codice.
Nell’atto di appello i capi impugnati non sarebbero quelli civili ma quelli penali, riservati all’impugnazione del Pubblico Ministero, attesa la genericità dei motivi di appello che non investivano i profili relativi all’accertamento del danno risarcibile.
2.3. Con il terzo motivo deduce vizio della motivazione e violazione di legge ex art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., in relazione alla dedotta inammissibilità dell’appello perché depositato da soggetto non legittimato ex art. 582 cod.proc.pen., ovvero da un soggetto incaricato da parte del difensore nominato privo di delega espressa.
2.4. Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla nullità della sentenza che ha riconosciuto la responsabilità civile dell’imputato pur in presenza della intervenuta prescrizione del reato. Si osserva che il reato si è prescritto in data 24 agosto 2021, prima della proposizione dell’appello in data 11 ottobre 2021, sicchè trattandosi di reato prescritto la Corte di appello avrebbe dovuto verificare unicamente la sussistenza dell’illecito aquiliano ex art. 2043 cod. civ. in applicazione dei principi affermati dalla sentenza della Corte Cost. n. 182/2021 in relazione alla presunzione di innocenza.
2.5. Con il quinto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione perché il reato di falsa testimonianza non era configurabile essendo assorbito in quello di calunnia commesso dall’imputato in concorso con Galasso in data 22 febbraio 2011 e, quindi, già prescritto al momento della pronuncia della sentenza di primo grado, con conseguente violazione dell’art. 576 cod. proc. pen. nella parte in cui, una volta dichiarato estinto il reato in primo grado, la parte civile no avrebbe potuto proporre appello.
2.6. Con il sesto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione perché l’appello doveva essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse attuale e concreto della parte civile, in ragione dell’assenza di un effetto preclusivo della sentenza di assoluzione pronunciata con formula diversa da quella del fatto non sussiste o del non avere commesso il fatto. Al riguardo si osserva che la parte civile ha proseguito la propria azione in sede civile con conseguente rischio di duplicazione di giudicati in sede penale e civile.
2.7. Con il settimo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 384 cod.pen.
Si osserva al riguardo che l’imputato era già indagato per calunnia al momento in cui ha reso la propria deposizione testimoniale e che, pertanto, ove avesse detto la verità si sarebbe esposto alla condanna per il reato di calunnia.
Pertanto, essendosi limitato a ribadire la versione resa in sede di informazioni testimoniali per le quali era già stato denunciato per calunnia, in applicazione del principio “nemo tenetur se detegere” l’imputato, sebbene avvisato della facoltà di non rispondere ai sensi dell’art. 197-bis, comma 4, cod. proc. pen., doveva ritenersi non punibile per effetto della esimente di cui all’art. 384 cod. pen.
2.8. Con l’ottavo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla valutazione della ritenuta falsità della deposizione resa da COGNOME, risultata coerente a quella resa da COGNOME, a fronte delle censure mosse sulla conformità del contenuto della pennetta usb agli originali delle quattro cassette DVD che avrebbero attestato la falsità della denunciata intrusione nella proprietà privata del COGNOME.
Non essendo state prodotte le cassette contenenti i video originali, anche le consulenze di ufficio e di parte sarebbero viziate da tale carenza documentale.
Vengono, infine, mosse ulteriori censure alla rilevanza attribuita alle consulenze che hanno supportato la circostanza del mancato accesso nella proprietà del Galasso, basate sui rilievi critici del proprio consulente di parte che non sarebbero stati adeguatamente valorizzati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il settimo motivo di ricorso è fondato e comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con la conseguente revoca delle statuizioni civili e l’assorbimento delle altre questioni dedotte di cui risulta superfluo l’esame.
Per una migliore comprensione della questione dedotta appare utile ripercorrere per sommi capi la vicenda processuale in esame, atteso che la valutazione dell’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 384 cod. pen. dipende strettamente dal corretto inquadramento processuale della veste assunta dal COGNOME al momento della sua deposizione testimoniale.
In estrema sintesi, si evince dagli atti che in data 22 febbraio 2011 NOME COGNOME sporgeva denuncia nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME per violazione di domicilio ed interferenza nella vita privata, e indicava come testimone NOME COGNOME il quale, in sede di sommarie informazioni testimoniali rese nello stesso giorno, confermava le accuse di COGNOME.
Quindi, nel dibattimento penale svoltosi a carico di COGNOME e COGNOME, il COGNOME, chiamato a testimoniare all’udienza del 24 febbraio 2014, confermava la versione dei fatti resa nelle sommarie informazioni testimoniali del 22 febbraio 2021 dopo essere stato avvisato della facoltà di non rispondere perché già indagato per il delitto di calunnia in riferimento a quanto dichiarato nelle medesime sommarie informazioni testimoniali, a seguito della controdenuncia sporta da NOME COGNOME il 10 settembre 2013 contro COGNOME e COGNOME.
Il processo a carico di COGNOME e COGNOME si concludeva con la sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto, divenuta irrevocabile, con la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero per il reato di falsa testimonianza nei confronti di NOME COGNOME e il conseguente esercizio dell’azione penale da cui scaturiva il procedimento penale a carico dell’odierno ricorrente, oggetto del presente giudizio di legittimità.
Ciò premesso, deve innanzitutto rilevarsi l’errore processuale in cui è incorso il Tribunale durante l’esame testimoniale di NOME COGNOME essendogli stata attribuita impropriamente la qualifica di indagato/imputato di reato collegato
probatoriamente ex art. 371, comma 2, lett. b) cod. proc. pen. con la conseguente assunzione delle sue dichiarazioni nelle forme della testimonianza assistita, preceduta dall’avviso della facoltà di non rispondere e dagli avvisi previsti dall’art. 64, comma 3, lettera c), secondo quanto disposto dall’art. 210, comma 6, cod. proc. pen.
Per effetto di tale impropria qualificazione il COGNOME ha reso perciò le sue dichiarazioni, ritenute nel corso del giudizio false, nonostante e dopo l’avviso irrituale della facoltà di non rispondere.
Per effetto di tale errore, non adeguatamente soppesato nei due gradi di giudizio, sono seguiti ulteriori errori processuali, compiuti sia dal giudice di primo grado che da quello di appello.
Il Giudice di primo grado ha, infatti, ritenuto ugualmente applicabile la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 2, cod. pen., affermando che il teste anche se avvisato, in quanto indagato per calunnia, non aveva l’obbligo di deporre sui fatti perché concernenti la propria responsabilità in base al disposto del comma 4 dell’art. 197-bis cod. proc. pen., secondo periodo, in base al quale “Nel caso previsto dal comma 2 il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti”.
La Corte di appello, all’opposto, valorizzando la circostanza che il teste avesse mentito dopo essere stato avvisato della facoltà di non rispondere, ha escluso la possibilità di applicare la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 2, cod. pen., in quanto sebbene non obbligato a deporre sui fatti che concernono la propria responsabilità, avendo scelto di non avvalersi della facoltà di non rispondere, sarebbe rimasto vincolato all’obbligo di testimoniare e di dire la verità, con le conseguenze penali previste per il caso di falsa testimonianza.
Le decisioni adottate nei due gradi di merito sono entrambe censurabili perché muovono da un medesimo errore di fondo che è quello di avere riconosciuto alla persona chiamata a testimoniare nel processo a carico degli autori del reato ai danni del denunciante, la veste di testimone assistito, e più in generale la facoltà, anziché l’obbligo, di rispondere sui fatti oggetto della denuncia per violazione di domicilio per effetto della controdenuncia per calunnia sporta nei suoi confronti da parte del denunciato.
A tale proposito deve essere qui richiamato l’orientamento di legittimità oramai consolidato che si è formato con riferimento ai procedimenti per i reati di violenza sessuale e che è stato poi ribadito anche in altri procedimenti per reati la cui prova dipende essenzialmente dalle dichiarazioni della persona offesa che sia
stata a sua volta contestualmente denunciata per calunnia dall’autore del reato commesso ai suoi danni.
E’ ampiamente consolidata, nella giurisprudenza di questa Corte, l’affermazione che l’incompatibilità a testimoniare, in capo a coloro che ricoprono contestualmente la veste di imputati e persone offese di reati reciproci, non sussiste in relazione a quei reati che, seppur formalmente tali – nel senso, cioè, di essere stati commessi “da più persone in danno reciproco le une delle altre”, così come recita l’art. 371, co. 2, lett. b) cod. proc. pen. – siano tuttavia stati consumat in contesti spaziali e temporali del tutto distinti ed estranei e perciò non riconducibili alla previsione della disposizione codicistica testé citata (in tal senso vedi Sez. 6, n. 6938 del 22/01/2019, COGNOME, Rv. 275081, con riferimento alla persona offesa del reato di concussione)
È stato correttamente spiegato che la diversa opzione interpretativa lascerebbe spazio alla possibilità di denunce strumentalmente finalizzate a creare situazioni di incompatibilità a testimoniare, così venendo inammissibilmente ad incidere sul corretto esercizio della giurisdizione penale, anche per le correlate conseguenze in tema di necessità dei riscontri estrinseci nella valutazione dell’attendibilità del dichiarante.
Al contrario la negazione della piena capacità di testimoniare deve ritenersi costituzionalmente legittima unicamente se il presupposto dell’incompatibilità sia ancorato ad un elemento oggettivo, come tale non soggettivamente determinabile a piacimento: dunque, soltanto se i reati siano stati commessi reciprocamente nel medesimo contesto causale, di spazio e tempo, dovendosi per l’effetto escludere, nel solco di una interpretazione costituzionalmente orientata, le ipotesi il cui il vincolo della reciprocità sia determinato dal comportamento di uno dei soggetti coinvolti (si vedano in tal senso Sez. 2, n. 26819 del 10/04/2008, Rv. 240947; Sez. 3, n. 26409 dell’08/05/2013, Rv. 255578; Sez. 2, n. 4128 del 09/01/2015, Rv. 262369).
Lo stesso ordine di considerazioni devono ribadirsi anche con riferimento all’ipotesi del collegamento probatorio, contemplata dal già citato art. 371, co. 2 lett. b), cod. proc. pen. posto che essa si ricollega all’evenienza che “un unico elemento di fatto proietti la sua efficacia probatoria in relazione ad una molteplicità di illeciti penali e non quando semplicemente la prova dei reati connessi discenda dalla medesima fonte” (cfr. Sez. 5. n. 10445 del 14.12.2011 – dep. 2012, Rv. 252006), e quindi richiede pur sempre che tra i reati vi sia una connessione probatoria che nasca dalla oggettiva storica correlazione delle condotte materiali e non anche, come nel caso di specie, in cui il tutto si risolve semplicemente nella valutazione dell’attendibilità dei dichiaranti.
La conferma della correttezza di tale impostazione si ritrova nella sentenza n. 33583 del 26 marzo 2015 delle Sezioni Unite Rv. 264481, Lo Presti che nell’occuparsi del diverso tema delle dichiarazioni “indizianti” di cui all’art. 63 comma primo, cod. proc. pen. ha chiarito che tali sono solo quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, non invece quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato quale il favoreggiamento personale, la calunnia o la falsa testimonianza, in quanto la predetta norma di garanzia è ispirata al principio “nemo tenetur se detegere”, che salvaguarda la persona che abbia commesso un reato, e non quella che debba ancora commetterlo. In motivazione, è stato altresì affermato che se il dichiarante non è chiamato a rispondere di fatti diversi da quelli che integrano il tessuto delle sue dichiarazioni, egli rimane compatibile con l’ufficio di testimone, ponendosi solo un problema di attendibilità della deposizione, che dovrà essere valutata secondo gli ordinari criteri.
Escluso, pertanto, che al teste COGNOME chiamato a riferire su un fatto storico diverso da quello del reato per cui si procedeva nei suoi confronti – perché attinente solo al tessuto delle sue stesse dichiarazioni – andasse riconosciuta la qualifica di testimone assistito e il relativo statuto, risulta evidente l’erronei dell’attribuzione della facoltà di non rispondere, essendo al contrario, sussistenti l’obbligo ed il dovere di dire la verità rispetto ai fatti che sono stati oggetto del denuncia di violazione di domicilio e di illecita interferenza nella vita privata, con la conseguente inapplicabilità anche del disposto del comma 4 dell’art. 197-bis cod. proc. pen., secondo periodo, in base al quale “Nel caso previsto dal comma 2 il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti”.
Tale disposizione non si applica per le stesse ragioni nei confronti del teste che sia stato accusato di calunnia per le dichiarazioni precedentemente rese e che costituiscono il contenuto della sua deposizione e che restano soggette unicamente al vaglio di attendibilità secondo gli ordinari criteri di valutazione.
Ciò posto, risultano evidenti gli errori processuali implicati dalle decisioni assunte nei due gradi di merito, non potendo nel caso in esame trovare applicazione la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 2, cod. pen. come erroneamente sostenuto dal Giudice di primo grado, dato che questa si riferisce esclusivamente ai casi in cui il dichiarante non ha l’obbligo di rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di non rendere testimonianza.
Ma per ragioni diverse è anche errata la decisione della Corte di appello che ha escluso l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen. sulla base del riferimento alla decisione delle Sez. U, n. 7208 del 29/11/2007, dep. 2008, COGNOME, Rv. 238383, secondo cui in tema di falsa testimonianza, la causa di esclusione della punibilità prevista per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore non opera nell’ipotesi in cui il testimone abbia deposto il falso pur essendo stato avvertito della facoltà di astenersi.
Si tratta, infatti, di un caso radicalmente diverso da quello considerato nella decisione appena richiamata che si riferisce a quello del testimone assistito o del teste che avendo riconosciuta per legge la facoltà di non deporre, proprio al fine di non incorrere nel reato di falsa testimonianza (per gli stretti congiunti dell’imputato ex art. 199 cod. proc. pen.), decida di non avvalersene.
Nel caso di specie si tratta, invece, di un testimone “puro” che aveva l’obbligo di deporre, essendogli stata riconosciuta solo per errore la facoltà di non rispondere, con la conseguenza che è del tutto irrilevante che il teste abbia deciso di non avvalersene, essendo per legge tenuto a testimoniare, senza quella commistione rispetto all’applicazione del comma 1 dell’art. 384 ai casi previsti dal comma 2 della stessa disposizione che le Sezioni Unite hanno escluso con la citata sentenza Genovese.
È stato affermato, in particolare, che il primo e il secondo comma 384 cod. pen. regolano situazioni diverse.
Il primo comma, per quanto riguarda la testimonianza, si riferisce chiaramente ai casi in cui il dichiarante non ha facoltà di astenersi e che sarebbe altrimenti costretto ad autoaccusarsi.
Mentre il secondo comma si riferisce ai casi del testimone prossimo congiunto dell’imputato o più in generale di coloro che non avrebbero dovuto essere assunti come testimoni o che avendo la facoltà di non rispondere non siano stati avvertiti di detta facoltà prima di rispondere.
Pertanto, è solo rispetto al dichiarante che avendo per legge la facoltà di non rispondere e che abbia dichiarato il falso dopo esserne stato avvertito, che non può trovare applicazione il comma 1 dell’art. 384 cod. pen. perché – come osservato nella citata sentenza delle Sezioni Unite – altrimenti si darebbe luogo ad una figura di testimone con facoltà di mentire incompatibile con il sistema processuale.
Per questa ragione è stato affermato che le due diverse sfere di applicazione del primo e del secondo comma dell’art. 384 cod. pen. sono alternative e non si possono combinare.
Conseguentemente quando ci si trova nella situazione regolata dal secondo comma il testimone che non si è astenuto e ha dichiarato il falso non può avvalersi della causa di non punibilità del primo comma sostenendo di essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o il prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
6. Tanto ciò chiarito, una volta esclusa l’applicazione del secondo comma dell’art. 384 cod. pen. per ragioni opposte a quelle indicate nella sentenza di appello, ovvero per il corretto inquadramento del dichiarante nella qualifica di teste “puro”, senza facoltà di non rispondere, rimane da valutare se possa trovare applicazione la causa di non punibilità di cui al comma primo della medesima disposizione.
Per rispondere al quesito occorre necessariamente prendere posizione in ordine alle ben note divergenze ermeneutiche, sia in dottrina che negli indirizzi giurisprudenziali, circa la valenza da attribuire, ai fini dell’applicabil dell’esimente dell’art. 384 cod. pen. al requisito della non volontaria causazione della situazione di pericolo, contrapponendosi alla lettura della norma in chiave (soggettiva) di inesigibilità, e quindi alla configurazione della esimente come causa di esclusione della colpevolezza, l’interpretazione della stessa in termini oggettivi, quale ipotesi speciale dello stato di necessità, come tale riconducibile alla categoria delle cause di esclusione dell’antigiuridicità del fatto.
Si deve rilevare che l’orientamento (Sez. 6, n. 10654 del 20/02/2009, COGNOME, Rv. 243076; Sez. 6, n. 7823 del 15/12/1998, COGNOME, Rv. 214756) che escludeva l’applicazione della causa di non punibilità in esame nei casi in cui la situazione di pericolo fosse imputabile allo stesso soggetto autore del reato di falsa testimonianza è più risalente nel tempo e risulta oramai abbandonato, essendosi dato maggiore rilievo all’assenza di colpevolezza basata sul principio di inesigibilità di contegni giuridici autolesivi.
La scriminante è, quindi, applicabile anche quando la situazione di pericolo per la libertà e l’onore, suoi o di un suo congiunto, sia stata da lui volontariamente prodotta in virtù del principio immanente al sistema “nemo tenetur se detegere” (Sez. 6, n. 15327 del 14/02/2019, COGNOME, Rv. 275320; Sez. 6, n. 37398 del 16/06/2011, COGNOME, Rv. 250878; Sez. 3, n. 8699 del 09/07/1996, COGNOME, Rv. 206679).
Essendosi affermato che l’interesse di libertà che egli persegue si immedesima, senza soluzione di continuità temporale e ideativa, nell’esercizio dell’inviolabile diritto di difesa: diritto e valore di rango costituzionale al par quello incarnato dalla non fuorviata e “giusta” amministrazione della giustizia” (Sez. 6, n. 37398 del 16/06/2011, COGNOME, Rv. 250878).
È stato perciò affermato che non è punibile per i reati di falsa testimonianza, calunnia e autocalunnia, ai sensi dell’art. 384 cod. pen., il testimone che ribadisca nel processo le dichiarazioni autoaccusatorie e accusatorie precedentemente rese, per sottrarsi al pericolo di essere incriminato per il reato di calunnia (o autocalunnia) precedentemente commesso, specificando che, per quanto riguarda la calunnia, essa sola costituisce un “post factum” irrilevante, rispetto al reato già commesso (Sez. 6, n. 30830 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 256749).
Il Collegio ritiene di dare seguito a tale orientamento, con la sola precisazione che il reato di falsa testimonianza commesso per sottrarsi alla responsabilità per il reato di calunnia precedentemente commesso non costituisce evidentemente un “post factum” irrilevante, ma un reato perfettamente integrato nei suoi elementi costitutivi che rimane esente da pena solo per l’applicazione della predetta causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen.
Una siffatta interpretazione non comporta alcuna deviazione rispetto all’obbligo di verità imposto al teste dalla norma processuale, con il pericolo di una deresponsabilizzazione del dichiarante, a scapito dell’interesse alla corretta amministrazione della giustizia, atteso che la punibilità è esclusa per il solo reato di falsa testimonianza, rimanendo ovviamente ferma la responsabilità per il delitto di calunnia e per il delitto di cui all’art. 371-bis cod. pen. (false informazioni pubblico ministero) precedentemente commessi.
In conclusione, dovendosi riconoscere all’imputato la causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen. la sentenza impugnata deve essere annullata con revoca delle statuizioni civili fermo restando la pronuncia di assoluzione agli effetti penali, non oggetto di impugnazione da parte del Pubblico Ministero e senza pregiudizio per le pretese risarcitorie che potranno essere azionate autonomamente in sede civile.
La previsione di cui all’art. 652 cod. proc. pen. – per la quale la sentenza di assoluzione ha efficacia di giudicato nell’ambito del giudizio civile di danni relativamente all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una legittima facoltà – non è applicabile nel caso in cui la sentenza di assoluzione sia pronunciata per il riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, cod. pen., la quale, escludendo la punibilità del reato di falsa testimonianza, non ne esclude la natura di illecito civile e l’esistenza dell’obbligazione risarcitoria, ove ne sia derivato un danno, che può essere fatta valere innanzi al giudice civile.
D’altra parte a tale proposito si deve ritenere che la causa di non punibilità
prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen. ha rilevanza solo in sede penale perché
è volta a tutelare la persona che rende le dichiarazioni false per scongiurare il pericolo di subire un grave nocumento alla libertà o all’onore proprio o di un
prossimo congiunto, ma non esclude che tale condotta sia idonea ad arrecare al tempo stesso un danno ingiusto alla persona che già falsamente accusata subisca
un processo penale con ulteriore aggravio della propria posizione per effetto della falsa testlmonianza resa per confermare le false accuse oggetto della denuncia
precedentemente sporta.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e revoca le statuizioni civili.
Così deciso in Roma il 7 marzo 2025
Esleiisuie
Il Presidente