Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 16992 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 16992 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 28/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato 1’11/11/1941 a Cecina
avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze del 27/05/2024;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Con la sentenza impugnata, accogliendo l’appello del Pubblico ministero avverso la sentenza assolutoria di primo grado per insussistenza del fatto, la Corte di appello di Firenze ha condannato NOME COGNOME per il delitto di falsa testimonianza.
n GLYPH ti 1.1. Secondo l’accusa, deponendo quale imputato in procedimento connesso, a norma dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., nel processo contro sua suocera NOME COGNOME, imputata di reati tributari, egli ha falsamente dichiarato di non aver ricevuto la somma in contanti di oltre trecentomila euro, rinvenuta nella cassetta
di sicurezza di tale sua congiunta ed in realtà consegnatagli, all’interno di alcune buste, da NOME COGNOME persona di sua fiducia in quanto sua dipendente da quarant’anni.
1.2. In primo grado, il giudice non aveva ritenuto raggiunta la prova della consapevolezza, da parte del COGNOME, del contenuto delle buste consegnategli dalla COGNOME.
1.3. La Corte d’appello, invece, ha concluso diversamente, ritenendo raggiunta la prova logica di tale consapevolezza, e quindi della mendace dichiarazione contraria resa dal COGNOME nel corso della sua testimonianza nel processo contro sua suocera, in quanto:
la COGNOME s’è detta certa della conoscenza, da parte di costui, del contenuto delle buste da lei consegnategli;
ella era a lui legata da un rapporto di particolare fiducia, lavorando alle sue dipendenze da quarant’anni;
è dunque illogico ritenere che ella potesse avergliele consegnate senza informarlo di quanto vi fosse all’interno, in tal modo altresì commettendo una «grossolana imprudenza», poiché COGNOME, se ignaro del prezioso contenuto, avrebbe potuto non custodirle con la necessaria attenzione;
COGNOME aveva nella sua disponibilità una chiave di apertura della cassetta di sicurezza;
rendendo interrogatorio in qualità d’indagato nel presente procedimento, egli ha comunque dichiarato di aver «intuito che contenessero del denaro», negando soltanto di avere la certezza della provenienza di esso.
Il ricorso censura l’illogicità di un tale percorso argomentativo, citando giurisprudenza per cui il contrasto tra le dichiarazioni rese dal medesimo soggetto in fase d’indagini ed in dibattimento non è di per sé sufficiente per ritenere integrato il reato di falsa testimonianza; deducendo, inoltre, che il rapporto fiduciario dell’imputato con la COGNOME derivava da rapporti economici e non affettivi, non potendo perciò dedursi che ella avrebbe dovuto necessariamente informarlo del contenuto delle buste consegnategli; e, infine, rilevando che l’intuizione avuta dall’imputato – riguardo al reale contenuto delle buste – non equivale a consapevolezza.
Ha depositato la propria requisitoria il Procuratore generale, concludendo per il rigetto del ricorso.
Il motivo di ricorso è inammissibile, anzitutto per l’aspecificità delle doglianze, che si risolvono in semplici opinioni dissenzienti dal percorso
argomentativo della sentenza impugnata, in realtà indiscutibilmente stringente dal punto di vista logico.
Né è pertinente il richiamo alla giurisprudenza per cui la semplice discrasia delle dichiarazioni rassegnate dal testimone in dibattimento rispetto a quelle dal
medesimo rese in una precedente fase del procedimento non possa essere sufficiente, di per sé sola, a configurare il delitto di falsa testimonianza. Il caso
esame, infatti, è del tutto diverso: perché, in primo luogo, si tratta d testimonianza resa prima delle dichiarazioni con essa contrastanti, intervenute sì
nel corso della fase investigativa, ma nell’àmbito di un diverso procedimento e per un fatto di reato diverso; perché, inoltre, l’una e le altre sono state rese dal
medesimo soggetto, ma non nella medesima veste di persona informata sui fatti- testimone; e, da ultimo, ma soprattutto, perché il giudizio della Corte d’appello
non si è fondato semplicemente sulla divergenza delle due dichiarazioni.
5. L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art.
616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 28 marzo 2025.