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Falsa dichiarazione residenza: reato per la Cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23449/2025, ha confermato che la falsa dichiarazione residenza per ottenere il reddito di cittadinanza costituisce reato. Nonostante una pronuncia della Corte di Giustizia UE, i giudici supremi hanno aderito all’interpretazione della Corte Costituzionale, che pur riducendo il requisito di residenza da 10 a 5 anni, ne ha mantenuto la rilevanza penale. La sentenza impugnata è stata tuttavia annullata con rinvio perché la Corte d’Appello, nel condannare l’imputato dopo un’assoluzione in primo grado, non ha valutato l’applicazione di pene sostitutive.

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Pubblicato il 24 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Falsa Dichiarazione Residenza: Ancora Reato per la Cassazione

La falsa dichiarazione residenza per ottenere il reddito di cittadinanza continua a essere un reato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con una recente sentenza, la n. 23449 del 2025, che ha fatto chiarezza dopo un complesso dialogo tra le corti nazionali e quelle europee. Sebbene il requisito della residenza pregressa sia stato ridotto, mentire su di esso comporta ancora conseguenze penali. Tuttavia, la Corte ha introdotto un importante principio procedurale a tutela del condannato in appello.

Il Caso in Esame

Il caso riguarda un cittadino condannato dalla Corte di Appello per il reato previsto dalla normativa sul reddito di cittadinanza. L’accusa era di aver omesso di comunicare di non aver risieduto in Italia in modo continuativo nei due anni precedenti la richiesta del beneficio. Questo verdetto di condanna aveva ‘ribaltato’ una precedente sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di primo grado. L’imputato ha quindi presentato ricorso in Cassazione, sollevando diverse questioni, tra cui la presunta irrilevanza penale della condotta alla luce di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE).

Il Contesto Normativo e la Falsa Dichiarazione Residenza

Il cuore della questione legale risiede nel conflitto interpretativo tra la normativa italiana e il diritto dell’Unione Europea.

La Posizione della Corte di Giustizia UE

La CGUE, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità del requisito di residenza decennale (di cui due anni continuativi) con il diritto europeo, aveva stabilito che tale norma ostacolava il diritto alla parità di trattamento. Secondo i giudici europei, il reddito di cittadinanza andava qualificato come una prestazione di assistenza sociale, e una condizione di residenza così lunga era discriminatoria, concludendo che non si potesse punire penalmente la falsa dichiarazione relativa a tale requisito.

L’Intervento della Corte Costituzionale

Successivamente, la Corte Costituzionale italiana è intervenuta sulla stessa norma. Pur prendendo atto della decisione della CGUE, la Consulta ha adottato un approccio diverso. Ha chiarito che il reddito di cittadinanza non è una mera misura assistenziale, ma uno strumento complesso volto all’inclusione sociale e lavorativa. Su questa base, ha ritenuto legittimo un requisito di radicamento territoriale, ma ha giudicato sproporzionato il termine di dieci anni, riducendolo a cinque. Di conseguenza, ha mantenuto la rilevanza penale della falsa dichiarazione residenza relativa a questo requisito, seppur rimodulato.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione, nel dirimere la questione, ha deciso di aderire all’interpretazione della Corte Costituzionale. I giudici hanno sottolineato che la valutazione sulla natura del reddito di cittadinanza spetta all’ordinamento nazionale. Poiché la Consulta ha definito la misura come uno strumento complesso di politica attiva del lavoro, e non semplice assistenza, il requisito di un pregresso e stabile radicamento sul territorio (ora di cinque anni) rimane legittimo e la sua violazione, tramite false dichiarazioni, penalmente sanzionabile.
Di conseguenza, il motivo di ricorso volto a negare la rilevanza penale del fatto è stato respinto. La condotta dell’imputato, che aveva falsamente attestato un requisito di residenza che non possedeva, è stata ritenuta ancora configurabile come reato.

Tuttavia, la Corte ha accolto un altro motivo di ricorso. La difesa aveva lamentato la mancata applicazione delle pene sostitutive alla detenzione, come previsto dalla Riforma Cartabia. La Cassazione ha chiarito un punto cruciale della procedura penale: quando un giudice d’appello riforma una sentenza di assoluzione e condanna per la prima volta l’imputato a una pena detentiva, ha l’obbligo di valutare d’ufficio la possibilità di sostituire la pena detentiva con sanzioni alternative, anche se non vi è una richiesta esplicita della difesa. Nel caso di specie, la Corte d’Appello non aveva fornito alcuna motivazione sul punto, omettendo di considerare tale possibilità.

Le Conclusioni

In conclusione, la sentenza della Cassazione stabilisce due principi di fondamentale importanza:

1. Conferma del Reato: La falsa dichiarazione residenza per l’accesso a benefici come il reddito di cittadinanza resta un illecito penale. L’interpretazione della Corte Costituzionale prevale, legittimando un requisito di residenza (ridotto a 5 anni) e la sanzione per chi lo dichiara falsamente.

2. Obbligo di Valutazione delle Pene Sostitutive: In caso di ‘ribaltamento’ di una sentenza assolutoria, il giudice d’appello deve sempre motivare l’eventuale mancata concessione delle pene sostitutive. Questa omissione costituisce un vizio della sentenza.

Per questo motivo, la Corte ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla questione delle pene sostitutive, rinviando il caso a un’altra sezione della Corte d’Appello per una nuova valutazione su questo specifico punto.

Fare una falsa dichiarazione sulla residenza per ottenere il reddito di cittadinanza è ancora reato dopo le sentenze della Corte di Giustizia UE e della Corte Costituzionale?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, che aderisce all’interpretazione della Corte Costituzionale italiana, il fatto costituisce ancora reato. La Corte Costituzionale ha ritenuto legittimo il requisito di residenza (pur riducendolo da dieci a cinque anni) e, di conseguenza, la rilevanza penale delle false dichiarazioni in merito.

Perché la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza d’appello pur confermando la responsabilità penale?
La sentenza è stata annullata con rinvio non per la questione della colpevolezza, ma perché la Corte d’Appello, nel condannare l’imputato dopo che era stato assolto in primo grado, ha omesso di valutare e motivare la possibile applicazione di pene sostitutive alla detenzione, come richiesto dalla legge.

In caso di condanna in appello dopo un’assoluzione in primo grado, il giudice deve considerare d’ufficio le pene sostitutive?
Sì. La sentenza chiarisce che, nell’ipotesi in cui la sentenza d’appello riformi integralmente una sentenza assolutoria di primo grado, il giudice ha l’obbligo di valutare d’ufficio la sostituzione della pena detentiva, se ne ricorrono i presupposti, e di motivare la sua decisione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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