Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 23449 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 23449 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 28/05/2025
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Dinami il 30/01/1960 avverso la sentenza emessa in data 23/10/2024 dalla Corte di Appello di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Presidente COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; letta la memoria del difensore del ricorrente avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 23/10/2024, la Corte di Appello di Catanzaro ha riformato la sentenza assolutoria emessa dal Tribunale di Vibo Valentia in data 08/01/2024, condannando CONDINO Francesco alla pena di giustizia in relazione al reato di cui all’art. 7, comma 2, d.l. n. 4 del 2019 (conv. dalla I. n. 26 del 2019), a lui ascri con riferimento alla omessa comunicazione di non aver risieduto continuativamente, in Italia, negli ultimi due anni a far data dalla presentazione della richiesta del c.d. reddito di cittadinanza.
Ricorre per cassazione il COGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata rinnovazione dell’istruttoria in appello, necessaria in caso di integrale riforma di una sentenza assolutoria.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di penale responsabilità, con particolare riferimento alla violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Si deduce l’insufficienza di quanto accertato dai giudici di merito in ordine all’iscrizione del CONDINO all’AIRE, e si richiama la recente sentenza della Corte di Giustizia che esclude la possibilità di sanzionare penalmente una falsa dichiarazione riguardante il requisito della residenza.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale. Si censura la sentenza, sulla base di precedenti giurisprudenziali, per non avere applicato d’ufficio il beneficio in questione, ricorrendone le condizioni, e comunque per non aver motivato la mancata concessione.
n 2.4. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata applicazione delle sanzioni sostitutive. Si lamenta la mancanza di motivazione al riguardo, sottolineando che la decisione è stata impugnata congiuntamente alla sentenza, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità.
Con requisitoria ritualmente trasmessa, il Procuratore Generale sollecita il rigetto del ricorso, per l’infondatezza delle questioni proposte.
Con memoria ritualmente trasmessa, il difensore sviluppa il terzo motivo di ricorso ed insiste per l’accoglimento dell’impugnazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato limitatamente al motivo concernente le sanzioni sostitutive.
Evidenti ragioni di logicità e coerenza espositiva impongono di prendere le mosse dal secondo motivo di ricorso, per l’incidenza delle questioni proposte sulla configurabilità, già in astratto, della fattispecie incriminatrice contestata COGNOME
Va infatti immediatamente chiarito che le disposizioni in tema di “reddito di cittadinanza” – con particolare riferimento al requisito, che il richiedente doveva aver maturato al momento della domanda, della residenza nel territorio dello Stato per dieci anni, di cui due continuativi: cfr. art. 2, comma 1, d.l. n. 4 del 201 conv. dalla I. n. 26 del 2019 – sono state recentemente oggetto di due importanti decisioni, emesse rispettivamente dalla Corte di Giustizia (Grande Sezione, sent.
29 luglio 2024, cause riunite C-112 e C-223) e della Corte costituzionale (sent. n. 31 del 20 marzo 2025).
2.1. Con la prima decisione, cui ha fatto cenno anche il ricorrente, la Corte di Giustizia ha così risposto al quesito proposto dal giudice di rinvio (Tribunale di Napoli), concernente la compatibilità delle disposizioni che qui rilevano con il diritto dell’Unione: «l’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro che subordina l’accesso dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo a una misura riguardante le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di aver risieduto in detto Stato membro per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, e che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
Una completa disamina della sentenza della CGUE è ovviamente incompatibile con la presente trattazione. Ci si limiterà pertanto ad evidenziare, qui di seguito, i due aspetti che più direttamente rilevano ai fini della decisione odierna.
È opportuno peraltro sottolineare – anche in vista di quanto si dirà a proposito della sentenza della Corte costituzionale (cfr. infra, § 2.2) che il requisito del previa residenza decennale è stato censurato, dalla Corte di Giustizia, anche perché l’art. 4 della già citata direttiva individua in cinque anni il periodo soggiorno, legale ed ininterrotto, del cittadino di un Paese terzo in uno Stato membro dell’Unione: requisito idoneo a comprovare un adeguato radicamento in quello Stato, e quindi ad attribuire al cittadino del Paese terzo lo status d soggiornante di lungo periodo, come tale avente «diritto alla parità di trattamento con i cittadini di detto Stato membro, in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale, conformemente all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), di detta direttiva» (cfr. il § 57 della motivazione). Pertanto, la Corte di Giustizia ha osservato che «uno Stato membro non può prorogare unilateralmente il periodo di soggiorno richiesto affinché tale soggiornante di lungo periodo possa godere del diritto garantito dall’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, senza violare quest’ultima disposizione» (§ 58).
2.1.1. Deve in primo luogo osservarsi che non può essere del tutto condivisa, sul punto, la pur pregevole requisitoria del Procuratore Generale, secondo cui i principi esposti nella sentenza della CGUE riguarderebbero solo i cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo.
Raccogliendo un rilievo del giudice del rinvio – il quale aveva osservato che il requisito della residenza di dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo andava ad incidere anche sugli interessi dei cittadini italiani che ritornano in Itali dopo un periodo di residenza in un altro Stato membro – la Corte di Giustizia ha inteso precisare che «è indifferente che la misura di cui trattasi nel procedimento principale sfavorisca, eventualmente, tanto i cittadini nazionali che non possano rispettare un siffatto requisito quanto i cittadini di paesi terzi soggiornanti di lun periodo. Infatti, una misura può essere considerata una discriminazione indiretta senza che sia necessario che essa abbia l’effetto di favorire tutti i cittadini nazionali o di non sfavorire soltanto i cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo ad esclusione dei cittadini nazionali» (§ 51 della motivazione).
È dunque evidente, in tale prospettiva, che, se è vero che il principio è stato affermato dalla CGUE con riferimento ad una fattispecie concreta (richiesta di r.d.c. in assenza del requisito della residenza decennale) del tutto diversa da quella riguardante il CONDINO (tratto a giudizio per aver formulato la richiesta del beneficio senza comunicare di essere rientrato in Italia da meno di due anni prima della richiesta medesima), altrettanto vero è che anche tale ultimo requisito, e la relativa sanzione penale, sono stati ricondotti – non diversamente dalle dichiarazioni non rispondenti al vero circa la durata infradecennale della pregressa residenza, e dalle sanzioni penali ad esse correlate – nell’alveo della contrarietà alla direttiva, ricadendo nel divieto di discriminazioni, anche indirette, posto a fondamento della decisione.
2.1.2. Risulta con assoluta chiarezza, anche dal dispositivo e dai passaggi argomentativi testualmente riportati in precedenza, che la CGUE ha affrontato e deciso le questioni sollevate dal Tribunale di Napoli sul presupposto della riconduzione del c.d. reddito di cittadinanza tra le misure riguardanti «le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale».
Come meglio si vedrà esaminando la successiva sentenza della Corte costituzionale, tale inquadramento assume un rilievo centrale ai fini della odierna decisione, non solo perché fermamente contrastato dal Governo italiano nel corso del giudizio dinanzi alla Grande Sezione, ma anche – ed anzi soprattutto – per la peculiare posizione assunta da quest’ultima.
La sentenza della CGUE, infatti, ha richiamato le posizioni di marcato dissenso espresse dal Governo italiano, secondo il quale «il ‘reddito di cittadinanza’ di cui trattasi nei procedimenti principali non sarebbe una misura di protezione sociale o di assistenza sociale il cui scopo sia semplicemente quello di garantire agli interessati un certo livello di reddito, ma costituirebbe una misura complessa volta soprattutto a favorire l’inclusione sociale e la reintegrazione degli interessati ne mercato del lavoro» (cfr. il § 25).
Prendendo atto di tale posizione del Governo italiano, la Grande Sezione ha tuttavia ritenuto che la stessa non le impedisse di trattare le questioni pregiudiziali sollevate, e soprattutto ha affermato la necessità di attenersi alla prospettazione offerta dal giudice del rinvio pregiudiziale, come detto imperniata sulla riconduzione del reddito di cittadinanza tra le misure riguardanti le prestazioni sociali, di assistenza sociale e di protezione sociale.
Si è quindi affermato, conclusivamente sul punto, che «è vero che il governo italiano contesta questa constatazione del giudice del rinvio. Tuttavia occorre ricordare che, secondo costante giurisprudenza, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i giudici dell’Unione e i giudici nazionali la Corte è tenuta a prendere in considerazione il contesto materiale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali così come definito dalla decisione di rinvio. Pertanto, indipendentemente dalle critiche espresse dal governo di uno Stato membro nei confronti dell’interpretazione del diritto nazionale adottata dal giudice del rinvio, l’esame delle questioni pregiudiziali dev’essere effettuato sulla base di tale interpretazione e non spetta alla Corte verificarne l’esattezza» (§ 40 della motivazione).
2.2. Come già accennato, dopo la proposizione del ricorso del CONDINO, è intervenuta la sentenza n. 31 della Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 2 d.l. n. 4 del 2019 (con dalla I. n. 26 del 2019) «nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia ‘per almeno 10 anni’, anziché prevedere ‘per almeno 5 anni’».
Anche con riferimento a tale decisione, è necessario limitarsi, in questa sede, ad illustrare i passaggi argomentativi di maggior rilievo ai fini dell’odiern decisione (la questione di legittimità costituzionale del requisito di residenza per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi, era stata sollevata dalla Corte d’Appello di Milano – Sez. Lavoro, nell’ambito di un procedimento avviato da due richiedenti il reddito di cittadinanza e l’INPS).
Quel che interessa sin da subito evidenziare è il fatto che la Corte costituzionale ha preso in esplicita considerazione la sentenza della Grande Sezione della CGUE, ma ne ha preso le distanze, altrettanto esplicitamente, quanto all’inquadramento del r.d.c. tra le misure di assistenza sociale.
2.2.1. La Consulta ha invero ribadito, sulla scorta di alcune proprie decisioni precedenti, «la peculiarità strutturale e funzionale di questa misura, dove la componente di integrazione al reddito è strettamente condizionata al conseguimento di obiettivi di inserimento nel mondo del lavoro e comunque di inclusione sociale, che richiedono il coinvolgimento attivo del beneficiario».
In questa prospettiva, la sentenza ha passato in rassegna le disposizioni in tema di necessaria dichiarazione di disponibilità al lavoro da parte dei beneficiari maggiorenni, di percorsi di accompagnamento di costoro all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, di obblighi ricerca attiva del lavoro e di accettazione d proposte congrue, ecc. All’esito di tale disamina, la Corte costituzionale ha in sintesi osservato che «gli strumenti apprestati non consistono in meri sussidi per rispondere alla situazione di povertà, dal momento che il beneficio economico erogato è inscindibile da una più complessa e qualificante componente di inclusione attiva, diretta a incentivare la persona nell’assunzione di una responsabilità sociale, che si realizza attraverso la risposta positiva agli impegni contenuti in un percorso appositamente predisposto e che dovrebbe condurre, per questa via, all’uscita dalla condizione di povertà». In tale prospettiva, la sentenza n.. 31 ha intesto sottolineare che le precedenti decisioni sul tema avevano riconosciuto non irragionevole non solo l’interruzione dell’erogazione del beneficio in caso di mancato rispetto degli impegni, ma anche le ulteriori condizionalità e preclusioni previste dalla normativa (mancata sottoposizione a misure cautelari e condanne per determinati reati nel decennio precedente, divieto di utilizzo dell’erogazione per giochi con vincite in danaro), oltre alla stessa temporaneità della misura.
Su tali basi, si è conclusivamente ritenuto «evidente che una simile struttura, fondata sulla temporaneità, precisi obblighi e soprattutto rigide condizionalità persino in grado, se disattese, di determinare il venir meno del diritto alla prestazione, risulterebbe del tutto inconciliabile con il carattere meramente assistenziale e quindi con le caratteristiche tipiche delle vere e proprie prestazioni di assistenza sociale, dove invece prevale l’esigenza, sostanzialmente incondizionata, di rispondere ai bisogni primari, «indifferenziabili e indilazionabili» (sentenza n. 166 del 2018), cui sono relative (ex plurimis, sentenza n. 42 del 2024 e ordinanza n. 29 del 2024)».
2.2.2. La Consulta ha quindi riaffermato, con assoluta chiarezza, la necessità di tener ferma la lettura costituzionalmente orientata, già esposta in precedenti pronunce, delle disposizioni in tema di r.d.c., «senza che a ciò possa ritenersi d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D.».
Al riguardo, la Corte costituzionale ha richiamato i passaggi della sentenza della CGUE nei quali, come si è visto (cfr. supra, § 2.1), la Grande Sezione ha ritenuto di doversi attenere alla prospettazione del giudice del rinvio pregiudiziale, il quale aveva ricondotto il r.d.c. tra le misure di assistenza sociale, precisando di non sentirsi gravata dall’onere di verificarne l’esattezza. Sul punto, la Consulta evidenzia che è «solo sulla scorta di tale premessa – che espressamente riconosce
come tale interpretazione sia suscettibile di verifica da parte degli organi a cui invece istituzionalmente spetta, secondo l’ordinamento nazionale, proprio verificarne l’esattezza – la sentenza è giunta a ritenere che ‘il reddito d cittadinanza di cui trattasi nei procedimenti principali costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), del direttiva 2003/109, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta’».
Le conclusioni della Corte costituzionale non potrebbero essere più chiare, laddove si afferma che: «in definitiva, la sentenza della Corte di giustizia non ha verificato l’esattezza dell’interpretazione proposta dal giudice del rinvio, ovvero dal Tribunale di Napoli, in ordine alla natura del Rdc, ma ha correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno. Del resto, se è indiscutibile che al Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e del diritto derivato, al di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte, così come la funzione di nomofilachia del diritto nazionale lo è alla Corte di cassazione, essendo orientate ad assicurare anche la certezza del diritto».
2.2.3. Così ricostruito il sistema, la Corte costituzionale ha comunque ritenuto fondata la questione, sollevata (in subordine) con riferimento all’art. 3 Cost., del requisito della residenza per almeno dieci anni richiesto ai cittadini di Paesi terzi un requisito che è stato ritenuto privo di proporzionalità e di ragionevole giustificazione, specie se accostato a quello della residenza per cinque anni richiesto per l’ottenimento, da parte di tale categoria di cittadini, del permesso di lungo soggiorno.
Quel che interessa sottolineare, in questa sede, è che la Consulta ha ulteriormente precisato che «non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile», ed ha aggiunto che «un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata».
A tale ultimo proposito, la Corte costituzionale ha sottolineato che «la recente raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva, consente chiaramente agli Stati membri, per l’accesso a prestazioni aventi struttura e funzioni analoghe a quelle del Rdc, il ricorso al criterio selettivo basato sulla residenza protratta, anche i
considerazione dell’esigenza di salvaguardare ‘la sostenibilità delle finanze pubbliche’, purché ‘la durata del soggiorno legale sia proporzionata’».
In tale quadro complessivo, la sentenza n. 31 ha ritenuto di ridurre a cinque anni il requisito della previa residenza, evidenziando che proprio la durata decennale aveva determinato l’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia, definita dopo l’introduzione della misura del “reddito di inclusion ancorato, appunto, ad una previa residenza quinquennale. Il termine di cinque anni, del resto, era già stata definito «non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost. da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la ‘relativa stabilità della presenza sul territorio’; non è poi di certo irrilevante che esso s anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che «testimoni il ‘radicamento del richiedente nel paese in questione’».
La sentenza n. 31 ha conclusivamente osservato che il proprio intervento “sostitutivo” ha avuto l’effetto di ricomporre «armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terzi, viene espun con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinamento dell’Unione europea» (cfr. sul punto supra, § 2.1).
2.3. Alla luce dell’esposizione che precede, pur inevitabilmente sommaria, emerge con assoluta evidenza la diversità di impostazione che caratterizza le due pronunce.
Da un lato la CGUE, muovendo dal presupposto che il r.d.c. costituisca una misura di assistenza sociale, ha concluso per la contrarietà, al diritto dell’Unione, sia delle disposizioni che introducano il requisito della previa residenza per dieci anni di cui gli ultimi due continuativi, sia di quelle che puniscano «con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
D’altro lato, la Corte costituzionale ha ribadito la propria lettur costituzionalmente orientata delle disposizioni in tema di r.d.c., evidenziando la non riconducibilità dell’istituto alle misure di assistenza sociale, per le peculia connotazioni della sua disciplina (temporaneità, impegni anche lavorativi, decadenza per il loro mancato rispetto o per la perdita dei requisiti di onorabilità, ecc.) del tutto incompatibili con gli interventi nel settore dell’assistenza Da tale presupposto ricostruttivo, è stata desunta la compatibilità, con il s
costituzionale, di un requisito (la previa residenza, peraltro ridotta da dieci cinque anni) dimostrativo di un sufficiente radicamento del richiedente nel territorio dello Stato.
Tali conclusioni sono state raggiunte sottolineando, tra l’altro, che la CGUE non aveva in alcun modo verificato la fondatezza della prospettazione del Tribunale rimettente, e che del resto era stata proprio la Grande Sezione ad aver «correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno» (cfr. supra, § 2.2.2).
Ritiene il Collegio che non vi siano ragioni per discostarsi dall’impostazione della Corte costituzionale, in relazione sia a quanto appena ricordato in ordine ai rapporti tra le Corti interne e gli organi di giustizia sovranazionale, sia al concret inquadramento delle disposizioni in tema di r.d.c. (avuto riguardo alle peculiari connotazioni della disciplina rispetto ai principi in tema di assistenza sociale), sia anche alla ritenuta piena compatibilità, con il sistema, di un requisito comprovante un apprezzabile radicamento del richiedente.
A ben vedere, del resto, la divergenza tra le due Corti non attiene tanto al merito della questione che qui rileva, quanto soprattutto ai presupposti ricostruttivi, in relazione ai quali, peraltro la CGUE – come già più volte ricordato – non ha ritenuto di verificare in alcun modo l’esattezza dell’impostazione prospettata dal giudice del rinvio pregiudiziale. Ciò consente di ritenere, tra l’altro che la presente decisione non si ponga in effettivo contrasto con le opposte conclusioni raggiunte da una recente sentenza di questa Suprema Corte (Sez. 2, n. 13345 del 05/03/2025, Pena Abreu Rv. 287933 – 01), dal momento che tale sentenza è stata pronunciata anteriormente all’intervento della Corte costituzionale.
In tale complessiva cornice ermeneutica e ricostruttiva, non può che riaffermarsi la piena conformità ai principi costituzionali e sovranazionali della disposizione volta a sanzionare penalmente la non rispondenza al vero delle dichiarazioni rese, in sede di richiesta del beneficio, con riferimento alla previa residenza (pur nel limite di cinque anni, quanto alla durata).
Da tutto ciò consegue la persistente rilevanza penale della condotta contestata al COGNOME che non aveva comunicato – secondo l’ipotesi accusatoria convalidata dalla Corte di Appello di Catanzaro – di essere rientrato in Italia da meno di due anni dalla richiesta del beneficio.
3. Il secondo motivo è infondato.
Appare del tutto condivisibile quanto osservato dal Procuratore Generale, nella propria requisitoria, in ordine alla necessità di fare applicazione, nell fattispecie in esame – in cui la sentenza assolutoria di primo grado è stata
integralmente riformata – dell’insegnamento di questa Suprema Corte secondo cui «non sussiste l’obbligo di procedere alla rinnovazione della prova testimoniale decisiva per la riforma in appello dell’assoluzione, quando l’attendibilità della deposizione è valutata in maniera del tutto identica dal giudice di appello, il quale si limita a procedere ad un diverso apprezzamento del complessivo compendio probatorio ovvero ad una diversa interpretazione della fattispecie incriminatrice» (Sez. 5, n. 33272 del 28/03/2017, Rv. 270471 – 01).
È invero indubbio che il “ribaltamento” della decisione assolutoria è stato determinato non da una diversa valutazione dell’attendibilità delle risultanze dichiarative acquisite, ma da una differente valutazione sul piano strettamente giuridico della vicenda, ritenuta tuttora di rilevanza penale, anche dopo l’abrogazione delle disposizioni di cui si discute, secondo un indirizzo interpretativo ormai consolidato (cfr. Sez. 3, n. 7541 del 24/01/2024, COGNOME, Rv. 285964 01, secondo cui «l’abrogazione, a far data dall’01/01/2024, del delitto di cui all’art 7 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, disposta ex art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, nel far salva l’applicazione delle sanzioni penali dallo stesso previste per i fat commessi sino al termine finale di efficacia della relativa disciplina, deroga al principio di retroattività della lex mitior, altrimenti conseguente ex art. 2, comma secondo, cod. pen., ma tale deroga, in quanto sorretta da una plausibile giustificazione, non presenta profili di irragionevolezza, assicurando la tutela penale all’indebita erogazione del reddito di cittadinanza sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di detto beneficio, posto che la sua prevista soppressione si coordina cronologicamente con la nuova incriminazione di cui all’art. 8 d.l. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge luglio 2023, n. 85, riferita agli analoghi benefici per il futuro introdot sostituzione del reddito di cittadinanza». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
D’altra parte, la difesa ricorrente avrebbe ben potuto esercitare il proprio diritto alla prova attraverso testi, documentazione varia ecc. in grado di superare il rilievo accusatorio delle risultanze del registro dell’AIRE, non illogicamente ritenute idonee a comprovare la mancanza del requisito della residenza in Italia, da parte del CONDINO, nei due anni precedenti la richiesta del beneficio (cfr. sul punto Sez. 2, n. 6734 del 30/01/2020, Bruzzese, Rv. 278373 – 01, secondo cui «nell’ordinamento processuale penale, a fronte dell’onere probatorio assolto dalla pubblica accusa, anche sulla base di presunzioni o massime di esperienza, spetta all’imputato allegare il contrario sulla base di concreti ed oggettivi elementi fattuali, poiché è l’imputato che, in considerazione del principio della c.d. ‘vicinanza della prova’ può acquisire o quanto meno fornire, tramite l’allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva»).
Il motivo concernente la mancata applicazione della sospensione condizionale è manifestamente infondato.
Le Sezioni Unite di questa Suprema Corte hanno invero chiarito che «in tema di sospensione condizionale della pena, fermo l’obbligo del giudice d’appello di motivare circa il mancato esercizio del potere-dovere di applicazione di detto beneficio in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di merito» (Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, dep. 2019, Salerno, Rv. 275376 – 01, la quale, in motivazione ha ulteriomente precisato che «il mancato esercizio (con esito positivo o negativo) del potere-dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge, non accompagnato da alcuna motivazione che renda ragione di tale ‘non decisione’, non può costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, se l’effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello, ovvero, nei casi in cui intervenga condanna la prima volta in appello, neppure con le conclusioni subordinate proposte dall’imputato nel giudizio di primo grado».
È invece fondato il motivo riguardante la mancata sostituzione della pena detentiva applicata al CONDINO da parte della Corte territoriale, in sede di “ribaltamento” della decisione assolutoria.
La questione è stata oggetto, in passato, di soluzioni interpretative non univoche nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, essendosi per un verso affermato che «il giudice d’appello, che, nel riformare una decisione di proscioglimento, pronuncia sentenza di condanna dell’imputato, è tenuto a valutare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle pene sostitutive di pene detentive brevi, celebrando, ove necessario, l’udienza prevista dall’art. 545bis, comma 1, cod. proc. pen. e deve, inoltre, motivare specificamente l’insussistenza delle condizioni per la loro applicabilità, secondo i parametri di cui agli artt. 133 cod. pen., 58 e 59 legge 24 novembre 1981, n. 689, come novellati dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150» Sez. 2, n. 2341 del 19/12/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285727 – 01» (Sez. 2, n. 2341 del 19/12/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285727 – 01). Il contrario orientamento (su cui cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 1188 del 22/11/2024, dep. 2025, Lo Porto, Rv. 287460 – 01) riteneva applicabile, anche dopo le modifiche introdotte dalla c.d. riforma Cartabia, il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, secondo cui «il giudice di appello non ha il potere di applicare d’ufficio le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi s nell’atto di appello non risulta formulata alcuna specifica e motivata richiesta con riguardo a tale punto della decisione, dal momento che l’ambito di tale potere è
circoscritto alle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 597, comma quinto, cod. proc. pen., che costituisce una eccezione alla regola generale del principio devolutivo dell’appello e che segna anche il limite del potere discrezionale del giudice di sostituire la pena detentiva previsto dall’art. 58 della legge n. 689 de 1981» (Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017, Punzo, Rv. 269125 – 01).
Come è stato evidenziato da una delle più recenti decisioni sul tema (Sez. 3, n. 8264 del 10/12/2024, dep. 2025, C.), la fondatezza del primo e prevalente indirizzo interpretativo ha trovato un definitivo conforto nell’entrata in vigore del disposizioni modificative dell’art. 598-bis cod. pen., che distinguono – per quanto qui specificamente rileva – l’ipotesi “ordinaria”, in cui l’appellante ha l’onere esprimere il proprio consenso alla sostituzione della pena detentiva, anche con i motivi nuovi o memorie, fino alla data dell’udienza (cfr. i commi 1-bis e 4-bis del novellato art. 598-bis cod. proc. pen.), da quella disciplinata dal comma 4-ter del predetto articolo, in cui “per effetto della decisione dell’impugnazione, è applicata una pena detentiva non superiore a quattro anni”: si tratta, evidentemente, dell’ipotesi in cui la sentenza d’appello riformi integralmente la sentenza assolutoria di primo grado (come avvenuto nella fattispecie oggi in esame), ovvero la riformi parzialmente mitigando il trattamento sanzionatorio nei limiti predetti. In tali casi, il comma 4-ter prevede che la Corte sostituisca la pena detentiva, se ne ricorrono i presupposti, assegnando eventualmente un termine all’imputato per esprimere il consenso, fissando la relativa udienza, ecc.
Come sottolineato nell’ultima decisione qui richiamata, ha trovato un ormai esplicito riconoscimento legislativo la distinzione «tra l’ipotesi in cui la sentenz appellata abbia contenuti formalmente ostativi all’applicazione della pena sostitutiva e quella in cui a tale sostituzione non si sia provveduto in primo grado malgrado il trattamento sanzionatorio lo consentisse. In tale seconda ipotesi quella ora espressamente disciplinata dai commi 1-bis e 4-bis del citato art. 598bis cod. proc. pen. – infatti, resta fermo, per l’applicazione in appello dell sostituzione della pena detentiva, l’obbligo di introdurre il tema tramite apposito motivo, come reso evidente dal riferimento reso all’art. 597 cod. proc. peri. (così da ascrivere perdurante attualità alle indicazioni di principio già rese da questa Corte sulla scorta delle coordinate interpretative dettate dalle Sezioni Unite Punzo, derogate unicamente nel periodo di applicazione della disciplina transitoria), richiamato esclusivamente dal predetto comma 1-bis» (Sez. 3, n. 8264 del 2025, cit., in motivazione).
Le considerazioni fin qui svolte consentono, evidentemente, di ritenere fondate le censure difensive concernenti il totale difetto di motivazione della sentenza impugnata quanto alla mancata sostituzione delle pene detentive.
6. Quanto precede impone l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al punto relativo alla pene sostitutive, con rinvio per nuovo giudizio
ad altra Sezione della Corte di Appello di Catanzaro. Nel resto, il ricorso del
CONDINO deve essere invece rigettato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto relativo alle pene sostitutive, con rinvio per ad altra Sezione della Corte di Appello di Cartanzaro.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso il 28 maggio 2025
Il Consiglie
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