Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 30103 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 30103 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 09/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOMECOGNOME nato in Marocco il 01/01/1970
avverso la sentenza emessa in data 21/02/2025 dalla Corte di Appello di Catanzaro visti gli atti, il ‘provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 21/02/2025, la Corte di Appello di Catanzaro ha confermato la decisione con la quale il Tribunale di Paola, in data 07/03/2025, ha condannato NOME alla pena di giustizia in relazione al reato di cui all’art. 7, comma 2, d.l. n. 4 del 2019 (conv. dalla I. n. 26 del 2019), a l ascritto per avere, nella dichiarazione finalizzata a ottenere il reddito d cittadinanza, omesso di comunicare di non aver risieduto continuativamente, in Italia, negli ultimi due anni a far data dalla presentazione della richiesta de beneficio.
Ricorre per cassazione il NOMECOGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo nel primo motivo di ricorso il vizio di motivazione in relazione alla mancanza dell’elemento psicologico: la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che la dichiarazione non veritiera sarebbe stata resa consapevolmente e non sarebbe stata frutto di un errore scusabile dovuto alla sua scarsa conoscenza della lingua italiana ed alla circostanza che si era affidato ad un ufficio preposto per la domanda.
3.Nel secondo motivo di ricoso lamenta il vizio di violazione di legge con riferimento all’affermazione di penale responsabilità: ad aviso del ricorrente le recenti decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 29 luglio 2024, C112/2022 e C223/2022 avrebbero escluso la possibilità di sanzionare penalmente una falsa dichiarazione riguardante il requisito della residenza finalizzata ad ottenere il reddito di cittadinanza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Evidenti ragioni di logicità e coerenza espositiva impongono di prendere le mosse dal secondo motivo di ricorso, per l’incidenza delle questioni proposte sulla configurabilità, già in astratto, della fattispecie incriminatrice contestata al NOME
L’imputato è stato tratto a giudizio per aver falsamente dichiarato nell’istanza del 27/05/2019 finalizzata ad ottenere l’erogazione del c.d. reddito di cittadinanza, di aver risieduto in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, va sottolineato che dalle sentenze di merito emerge che egli, in realtà, veniva iscritto all’AIRE in data 17/05/2018 per il trasferimento della propria residenza in “Marocco Casablanca”, interrompendo il periodo di residenza continuativo in Italia.
La precisazione si impone in quanto le disposizioni relative al “reddito di cittadinanza” – con specifico riferimento al requisito della residenza decennale nel territorio dello Stato, di cui almeno due anni continuativi, previsto dall’art. 2, comma 1, del dl. n. 4 del 2019, convertito nella I. n. 26 del 2019 – sono state, infatti, oggetto di due importanti decisioni: una della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sezione, sentenza 29 luglio 2024, cause riunite C112 e C-223) e una della Corte costituzionale (sentenza n. 31 del 20 marzo 2025).
2.1. La prima decisione, della Corte di Giustizia, ha risposto al quesito sollevato dal Tribunale di Napoli circa la compatibilità delle suddette disposizioni con il diritto dell’Unione.
La Corte di giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 29 luglio 2024 nelle cause riunite C-112/22 e C-223/22, ha affermato che l’art. 11, par. 1, lett. d), della direttiva 2003/109/CE, letto alla luce dell’art. 34 della Carta dei diritt fondamentali dell’Unione europea, osta a una normativa nazionale che subordini l’accesso dei soggiornanti di lungo periodo a prestazioni sociali (come il reddito di cittadinanza) al requisito di una residenza decennale, di cui due anni continuativi; e preveda sanzioni penali per dichiarazioni false relative a tale requisito.
Secondo la Corte, tale normativa costituisce una discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini di Paesi terzi, in quanto il requisito della lunga residenza è idoneo a escludere in modo sproporzionato proprio questi soggetti, senza che ciò sia giustificato da un obiettivo legittimo e proporzionato.
La decisione ha rilevanti implicazioni anche per i procedimenti penali in corso o già definiti per il reato di falsa dichiarazione sul possesso del requisito di residenza.
Limitando la disamina solo ai profili più rilevanti ai fini della decisione odierna, è importante sottolineare che la Corte di Giustizia ha censurato il requisito della residenza decennale anche alla luce dell’art. 4 della direttiva 2003/109/CE, che fissa in cinque anni il periodo di soggiorno legale e ininterrotto necessario per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo.
Tale status comporta il diritto alla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro, in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza e la protezione sociale (cfr. § 57). La Corte ha quindi osservato che uno Stato membro non può unilateralmente estendere tale periodo senza violare la direttiva (cfr. § 58).
2.1.2. È evidente, anche dal dispositivo e dai passaggi motivazionali sopra richiamati, che la Corte ha qualificato il reddito di cittadinanza come misura rientrante tra le prestazioni sociali, l’assistenza e la protezione sociale.
Tale qualificazione è centrale per la presente decisione, non solo perché contestata dal Governo italiano nel procedimento dinanzi alla Grande Sezione, ma soprattutto per la posizione assunta dalla stessa Corte.
Il Governo italiano ha sostenuto che il reddito di cittadinanza non costituisce una misura di protezione o assistenza sociale volta a garantire un livello minimo di reddito, bensì uno strumento complesso finalizzato all’inclusione sociale e alla reintegrazione nel mercato del lavoro (cfr. § 25).
La Corte, pur prendendo atto di tale posizione, ha ritenuto che essa non impedisse l’esame delle questioni pregiudiziali, ribadendo la necessità di
attenersi alla qualificazione offerta dal giudice del rinvio, che aveva ricondotto il reddito di cittadinanza nell’ambito delle prestazioni sociali.
In conclusione, la Corte ha affermato che, anche in presenza di critiche da parte del governo di uno Stato membro, essa è tenuta a basarsi sull’interpretazione del diritto nazionale fornita dal giudice del rinvio, senza verificarne l’esattezza (cfr. § 40).
2.2. Come già accennato, successivamente alla proposizione del ricorso da parte di NOMECOGNOME è intervenuta la sentenza n. 31 del 2025 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 del dl. 4/2019 (conv. in I. n. 26/2019), nella parte in cui subordinava il riconoscimento del reddito di cittadinanza al requisito della residenza decennale, anziché quinquennale, per contrasto con l’art. 3 Cost.
Limitando l’analisi ai profili di maggiore rilievo anche per la presente decisione, va evidenziato che la Corte costituzionale ha preso espressamente in considerazione la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea, pur discostandosene quanto alla qualificazione del reddito di cittadinanza come misura di assistenza sociale.
2.2.1. La Corte costituzionale ha ribadito, in linea con precedenti pronunce, la natura peculiare del reddito di cittadinanza, sottolineando come la componente economica sia strettamente legata a finalità di inserimento lavorativo e inclusione sociale, che richiedono il coinvolgimento attivo del beneficiario. In tale prospettiva, la sentenza n. 31 del 2025 ha richiamato le disposizioni che impongono ai beneficiari maggiorenni la dichiarazione di disponibilità al lavoro, la partecipazione a percorsi di accompagnamento, l’obbligo di ricerca attiva di un impiego e l’accettazione di offerte congrue.
All’esito di tale analisi, la Corte ha osservato che il reddito di cittadinanza non si configura come un mero sussidio assistenziale, ma come una misura complessa, fondata su una logica di inclusione attiva e responsabilizzazione del beneficiario, finalizzata al superamento della condizione di povertà. In tale ottica, la Consulta ha ritenuto non irragionevoli non solo l’interruzione del beneficio in caso di inadempimento degli obblighi previsti, ma anche le ulteriori condizionalità e preclusioni normative (quali l’assenza di condanne o misure cautelari nel decennio precedente, o il divieto di utilizzo del beneficio per giochi con vincite in denaro), nonché la stessa temporaneità della misura.
Su tali basi, la Corte ha concluso che una struttura così articolata, fondata su obblighi stringenti e condizionalità tali da comportare la perdita del beneficio in caso di inadempimento, risulta incompatibile con la nozione di prestazione meramente assistenziale, la quale si caratterizza, invece, per l’incondizionata risposta a bisogni primari e indifferibili (cfr. sentenze n. 166/2018, n. 42/2024 e ord. n. 29/2024).
2.2.2. La Consulta ha quindi riaffermato, con assoluta chiarezza, la necessità di tener ferma la lettura costituzionalmente orientata, già esposta in precedenti pronunce, delle disposizioni in tema di r.d.c., «senza che a ciò possa ritenersi d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D.».
Al riguardo, la Corte costituzionale ha richiamato i passaggi della sentenza della CGUE nei quali, come si è visto la Grande Sezione ha ritenuto di doversi attenere alla prospettazione del giudice del rinvio pregiudiziale, il quale aveva ricondotto il r.d.c. tra le misure di assistenza sociale, precisando di non sentirsi gravata dall’onere di verificarne l’esattezza. Sul punto, la Consulta evidenzia che è «solo sulla scorta di tale premessa -che espressamente riconosce come tale interpretazione sia suscettibile di verifica da parte degli organi a cui invece istituzionalmente spetta, secondo l’ordinamento nazionale, proprio verificarne l’esattezza – la sentenza è giunta a ritenere che il reddito di cittadinanza di cui trattasi nei procedimenti principali costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 11, paragrafo I, lettera d), della direttiva 2003/109, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta».
La Consulta afferma chiaramente che: «in definitiva, la sentenza della Corte di giustizia non ha verificato l’esattezza dell’interpretazione proposta dal giudice del rinvio, ovvero dal Tribunale di Napoli, in ordine alla natura del Rdc, ma ha correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno. Del resto, se è indiscutibile che alla Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e de diritto derivato, al fine di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Sta membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte, così come la funzione di nomofilachia del diritto nazionale lo è alla Corte di cassazione, essendo orientate ad assicurare anche la certezza del diritto».
2.2.3. Così ricostruito il sistema, la Corte costituzionale ha comunque ritenuto fondata la questione, sollevata (in subordine) con riferimento all’art. 3 Cost., del requisito della residenza per almeno dieci anni richiesto ai cittadini di Paesi terzi: un requisito che è stato ritenuto privo di proporzionalità e di ragionevole giustificazione, specie se accostato a quello della residenza per cinque anni richiesto per l’ottenimento, da parte di tale categoria di cittadini, del permesso di lungo soggiorno.
Quel che interessa sottolineare, in questa sede, è che la Consulta ha ulteriormente precisato che «non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile», ed ha aggiunto che «un requisito di residenza pregressa, peraltro,
non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata».
A tale ultimo proposito, la Corte costituzionale ha sottolineato che «la recente raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva, consente chiaramente agli Stati membri, per l’accesso a prestazioni aventi struttura e funzioni analoghe a quelle del Rdc, il ricorso al criterio selettivo basato sulla residenza protratta, anche in considerazione dell’esigenza di salvaguardare “la sostenibilità delle finanze pubbliche”, purché “la durata del soggiorno legale sia proporzionata”».
In tale quadro complessivo, la sentenza n. 31 ha ritenuto di ridurre a cinque anni il requisito della previa residenza, evidenziando che proprio la durata decennale aveva determinato l’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia, definita dopo l’introduzione della misura del “reddito di inclusione” ancorato, appunto, ad una previa residenza quinquennale. Il termine di cinque anni, del resto, era già stata definito «non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la “relativa stabilità della presenza sul territorio”; non è poi di certo irrilevante che esso sia anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo I, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che «testimoni il “radicamento del richiedente nel paese in questione”».
La sentenza n. 31 ha conclusivamente osservato che, per effetto di tale proprio intervento “sostitutivo”, si giunge a ricomporre «armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terz viene espunto con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinamento dell’Unione europea»
2.3. Alla luce dell’esposizione che precede, pur inevitabilmente sommaria, emerge con assoluta evidenza la diversità di impostazione che caratterizza le due pronunce.
Da un lato la CGUE, muovendo dal presupposto che il r.d.c. costituisca una misura di assistenza sociale, ha concluso per la contrarietà, al diritto dell’Unione,
sia delle disposizioni che introducano il requisito della previa residenza per dieci anni di cui gli ultimi due continuativi, sia di quelle che puniscano «con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
D’altro lato, la Corte costituzionale ha ribadito la propria lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in tema di r.d.c., evidenziando la non riconducibilità dell’istituto alle misure di assistenza sociale, per le peculiari connotazioni della sua disciplina (temporaneità, impegni anche lavorativi, decadenza per il loro mancato rispetto o per la perdita dei requisiti di onorabilità, ecc.) del tutto incompatibili con gli interventi nel settore dell’assistenza sociale. Da tale presupposto ricostruttivo, è stata desunta la compatibilità, con il sistema costituzionale, di un requisito (la previa residenza, peraltro ridotta da dieci a cinque anni) dimostrativo di un sufficiente radicamento del richiedente nel territorio dello Stato.
Tali conclusioni sono state raggiunte sottolineando, tra l’altro, che la CGUE non aveva in alcun modo verificato la fondatezza della prospettazione del Tribunale rimettente, e che del resto era stata proprio la Grande Sezione ad aver «correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno» (cfr. supra, § 2.2.2).
3. Il Collegio, ritiene di non doversi discostare dall’impostazione seguita dalla Corte costituzionale, sia in relazione ai rapporti tra giurisprudenza interna e sovranazionale, sia con riguardo alla qualificazione normativa del reddito di cittadinanza, tenuto conto delle sue peculiari caratteristiche rispetto alle prestazioni di assistenza sociale, sia infine in ordine alla legittimità di un requisito volto a comprovare un significativo radicamento del richiedente nel territorio nazionale.
Va peraltro osservato che la divergenza tra la Corte costituzionale e la CGUE non riguarda tanto il merito della questione rilevante nel presente giudizio, quanto piuttosto i presupposti ricostruttivi. In proposito, la Corte di giustizia non ha ritenuto di verificare la correttezza dell’impostazione offerta dal giudice del rinvio, il che consente di escludere un effettivo contrasto con la successiva sentenza della Corte costituzionale. Ne consegue che la presente decisione non si pone in conflitto con la pronuncia di questa Suprema Corte (Sez. 2, n. 13345 del 5 marzo 2025, Pena Abreu, Rv. 287933 – 01), emessa anteriormente all’intervento della Consulta.
Alla luce del complessivo quadro ermeneutico e ricostruttivo di riferimento, va ribadito l’orientamento di Questa Corte confermativo della piena conformità ai principi costituzionali e sovranazionali della disposizione di cui all’art. 7, comma 1, del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, conv. nella legge 28/3/2019, n. 26, che
prevede una sanzione penale per le dichiarazioni non veritiere rese in sede di richiesta del r.d.c., con particolare riguardo al requisito della residenza, pur se nel limite di cinque anni, quanto alla durata. (Sez. 3, n. 23449 e n. 23452 del 2025 del 28/5/2025).
Chiarito il contenuto effettivo delle pronunce sovranazionali e costituzionali richiamate dal ricorrente a sostegno del secondo motivo, la censura prospettata nel secondo motivo di ricorso è da ritenersi infondata.
La fattispecie contestata all’imputato si riferisce, infatti, a un profilo del tutt distinto rispetto a quello esaminato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea e dalla Corte costituzionale, poiché, come più volte chiarito, l’imputato è stato ritenuto responsabile, ai sensi della normativa vigente, per aver reso dichiarazioni false, attestanti circostanze non veritiere in ordine al possesso del requisito della residenza continuativa in Italia negli ultimi due anni.
Tale condotta, avente rilievo penale, non è stata in alcun modo oggetto di disconoscimento o di esclusione di offensività da parte delle pronunce sopra richiamate, le quali si sono limitate a censurare il requisito in sé della residenza decennale ai fini dell’accesso alla prestazione, ma non hanno inciso sulla rilevanza penale della falsa attestazione ditale uleriore requisito.
Correttamente, pertanto, i giudici di merito hanno affermato la responsabilità penale dell’imputato per il reato a lui ascritto.
5. Parimenti infondato risulta il primo motivo di ricorso.
La Corte d’appello ha escluso, con motivazione giuridicamente corretta e immune da vizi logici, la configurabilità di un errore inescusabile in capo all’imputato, facendo applicazione del consolidato principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui: «In tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa la sussistenza del diritto a percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a ta fine richiesti dall’art. 2 del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, nella L. 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ai sensi dell’art. 5 cod. pen., in quanto la suddetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del medesimo decreto. (In motivazione, è aggiunto che non ricorre neanche un caso di inevitabilità dell’ignoranza della legge penale, non presentando la normativa in tema di concessione del reddito di cittadinanza connotati di cripticità tali da far ritenere l’oscurità del precetto)» (Sez. 2, n. 23265 del 07/05/2024, El, Rv. 286413 – 01).
Tali coordinate ermeneutiche sono state correttamente recepite e applicate dai giudici di merito.
La Corte territoriale ha, in particolare, valorizzato l’inequivoco tenore dell’attestazione resa dall’imputato in ordine alla propria residenza, ritenendo
inverosimile la tesi difensiva secondo cui egli non avrebbe compreso il contenuto della dichiarazione per carenza di conoscenza della lingua italiana. Tale assunto è
stato smentito dagli atti di causa, dai quali risulta che l’imputato aveva risieduto in Italia per circa diciotto anni, dal 1990 al 2018, prima di trasferirsi in Marocco
nel maggio 2018, circostanza che consente di ritenere acquisita una conoscenza almeno basilare della lingua italiana, sufficiente a comprendere il significato delle
dichiarazioni rese sotto la propria responsabilità penale.
Inoltre, la Corte ha evidenziato, con argomentazione coerente e priva di aporie logiche, che la domanda oggetto di contestazione risulta essere stata
verosimilmente redatta con l’ausilio di un centro di assistenza fiscale, il quale non avrebbe avuto alcun interesse a inoltrare l’istanza qualora l’imputato avesse
dichiarato di non possedere il requisito della residenza decennale.
Infine, l’ipotesi alternativa prospettata dalla difesa non trova alcun riscontro né nelle sentenze di merito né nel compendio probatorio acquisito.
Giova, in proposito, rammentare che, in sede di legittimità, la manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., può essere ravvisata solo qualora la ricostruzione alternativa rispetto a quella accolta in sentenza risulti inconfutabile, evidente e non meramente ipotetica (Sez. 1, n. 13528 dell’11/11/1998, COGNOME, Rv. 212054).
6.Per questi motivi il ricorso deve pertanto essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, in data 09/07/2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente