Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 34585 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 34585 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a AGRIGENTO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 28/01/2025 della CORTE APPELLO di PALERMO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Motivi della decisione
NOME COGNOME ricorre, a mezzo del difensore, avverso la sentenza di cui in epigrafe, con cui la Corte di Appello di Palermo ha confermato la sentenza con cui il giudice di primo grado aveva dichiarato il fatto non punibile ex art. 131 bis cod. pen. per particolare tenuità del fatto, deducendo violazione di legge e/o vizio motivazionale in relazione all’elemento soggettivo del reato, la cui insussistenza ritine avrebbe dovuto indurre i giudici di merito a pronunciare una sentenza di assoluzione ex art. 530 cod. proc. pen.
Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata.
In data 1 ottobre 2025 sono state presentate conclusioni scritte a firma dell’AVV_NOTAIO per il ricorrente che ha insistito nei motivi di ricorso, chie dendo la riassegnazione della procedure in sezione ordinaria e chiedendo in ogni caso dichiararsi l’intervenuta prescrizione del reato.
In premessa va rilevato che sussiste l’interesse dell’imputato a impugnare la sentenza che esclude la punibilità del reato ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., trattandosi di pronuncia che: 1) ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 651-bis cod. proc. pen.), 2) è soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale (art. 3, lett. f, d.P.R. n. 313 del 2002), 3) può ostare a futura applicazione della medesima causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131bis, comma terzo, cod. pen. (cfr. ex multis, Sez. 3, n. 18891 del 12/11/2017, dep. 2018, Battistella, Rv. 272877 – 01; Sez. 3, n. 49789 del 22/05/2018, COGNOME, non mass.).
I motivi sopra richiamati sono manifestamente infondati, in quanto assolutamente privi di specificità in tutte le loro articolazioni e del tutto assertivi.
Gli stessi, in particolare, non sono consentiti dalla legge in sede di legittimità perché sono riproduttivi di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito e non sono scanditi da necessaria critica analisi delle argomentazioni poste a base della decisione impugnata.
I motivi in questione sono anche manifestamente infondati, in quanto si deducono difetto o contraddittorietà e/o palese illogicità della motivazione, che la lettura del provvedimento impugnato dimostra, invece, essere esistente e connotata da lineare e coerente logicità, conforme all’esauriente disamina dei dati probatori.
Ne deriva che il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
Il ricorrente, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione della corte di appello, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto -e pertanto immune da vizi di legittimità.
I giudici del gravame del merito, hanno dato infatti conto degli elementi di prova in ordine alla responsabilità del prevenuto, ed in particolare, quanto all’elemento soggettivo del reato, hanno logicamente rilevato come «l’imputato (…) ha dichiarato in modo chiaro ed inequivoco che il proprio reddito complessivo fosse pari ad C 9.175,43, laddove in verità è stato accertato che nell’anno di riferimento lo stesso ha percepito, altresì, i redditi derivanti dall’indennità di disoccupazione, la NASPI, per C 2.827,43». E hanno dedotto che: «Non può, a tal proposito, essere negata la consapevolezza del COGNOME di detto ulteriore introito trattandosi di un reddito personale percepito direttamente dal dichiarante e dallo stesso, peraltro, indicato nella propria dichiarazione dei redditi (il richiamo è alla documentazione acquisita all’udienza del 03/04/2023).
Né l’eventuale errore in cui si assume essere il predetto incorso può essere considerato scusabile.
Il reato in questione – va ricordato – è figura speciale del delitto di falso ideologico commesso da privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.) e, come quello, ha natura di reato di pura condotta, sicché il relativo perfezionamento prescinde dal conseguimento di un eventuale ingiusto profitto che, anzi, qui costituisce un’aggravante. Consegue che il dolo del delitto in questione, essendo anch’esso costituito dalla volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non può essere escluso nel caso di specie in cui è stato anche motivatamente escluso un errore sull’identificazione dei redditi da inserire nella dichiarazione.
In tema di patrocinio a spese dello Stato, le false indicazioni o le omissioni, anche parziali, che integrano l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 95, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, devono essere sorrette dal dolo generico, rigorosamente provato, che esclude la responsabilità per un difetto di controllo, di per sé integrante condotta colposa, e salva l’ipotesi del dolo eventuale (cfr. ex multis, Sez. 4, :i. 37144 del 05/06/2019, bonelli, Rv. 277129 – 01).
4. La sentenza impugnata, peraltro, si colloca nel solco del consolidato orientamento secondo cui la norma richiamata dall’art. 95 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 si configura quale legge extrapenale integratrice del precetto penale, trattandosi di regola posta al fine di individuare i dati necessari per la valutazione sia della sussistenza delle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato
sia, preliminarmente, dell’ammissibilità della relativa istanza (cfr. ex multis Sez. 4, n. 1305 del 25/11/2014, dep. 2015, De Ros, Rv. 261774). E secondo cui deve essere considerato errore sulla legge penale, come tale inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche del diritto, introdotte nella norma penale ad integrazione della fattispecie criminosa, dovendosi intendere per «legge diversa dalla legge penale» ai sensi dell’art. 47 cod. pen. quella destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale e non esplicitamente incorporata in una norma penale, o da questa non richiamata anche implicitamente (cfr. Sez. 4, n. 14011 del 12/02/2015, COGNOME, Rv. 263013 che ha affermato che l’art. 76 d.lgs. n. 115 del 2002, che disciplina la materia del patrocinio a spese dello Stato ed è espressamente richiamato dalla norma incriminatrice di cui all’art. 95 stesso d.lgs., non costituisce legge extrapenale).
I reato per cui, si procede non erano prescritti all’atto dell’emanazione della sentenza impugnata, e non lo sono nemmeno oggi, commessi nel dicembre 2017, non sono prescritti, atteso che ricadono sotto le previsioni della c.d. riforma Orlando che, per tutti i reati commessi dopo la sua entrata in vigore (3 agosto 2017) e fino al 31 dicembre 2019, data successivamente alla quale l’intera disciplina è stata innovata dalla I. legge 27 settembre 2021, n. 134 ha introdotto un termine di sospensione di diciotto mesi decorrente dalla data del deposito della motivazione della sentenza di primo grado anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi e un’ulteriore sospensione, sempre per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi, dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva. (cfr. sul punto Sez. U., n. 20989 del 12/12/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. Rv. 288175 – 01).
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 07/10/2025