Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 23631 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 23631 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 14/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nato a VALLO DELLA LUCANIA il 25/05/1961, avverso la sentenza del 10/10/2024 della Corte d’appello di Salerno;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’Avvocato NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME che ha insistito sull’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Salerno ha confermato la sentenza con cui, in data 02/03/2023, il Tribunale di Vallo della Lucania aveva riconosciuto NOME COGNOME che aveva assolto per il delitto di cui all’art. 323 cod. pen., contestatogli
concorso con il pubblico ufficiale, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato – responsabile dei delitti di falso e di truffa aggravata e, con le circostanze attenuanti generiche stimate equivalenti all’aggravante, l’aveva condannato alla pena di mesi 8 di reclusione ed al pagamento delle spese processuali;
ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo del difensore che deduce:
2.1 violazione di legge penale sostanziale e processuale con riguardo all’art. 521 cod. proc. pen., agli artt. 24 e 111 Cost. ed all’art. 6 CEDU: rileva che il Tribunale prima e la Corte d’appello, poi, hanno affermato la responsabilità del ricorrente per avere autocertificato il possesso dei requisiti di cui all’art. 5 de legge 65 del 1986 nonostante la contestazione mossagli fosse stata quella di non aver riportato condanne ostative alla assunzione presso la Pubblica Amministrazione; osserva che in tal modo il ricorrente è stato condannato sulla base di una contestazione che non gli aveva permesso di interloquire e di difendersi atteso che nessuno dei capi di imputazione aveva fatto riferimento alla legge del 1986; osserva che i giudici di secondo grado hanno respinto l’eccezione difensiva, articolata con l’atto d’appello, richiamando l’art. 1 del bando di selezione evocato nel capo 1) dell’imputazione dal quale, tuttavia, l’imputato era stato mandato assolto; sottolinea che, in ogni caso, vi è stato un travisamento degli elementi costitutivi dell’addebito contestato che è oggettivamente diverso, nel contenuto della autodichiarazione, rispetto a quello per il quale il ricorrente è stato condannato;
2.2 violazione di legge in relazione all’art. 483 cod. pen.: rileva che entrambi i giudici di merito hanno erroneamente ritenuto il delitto di cui all’art 483 cod. pen. nonostante l’evidente incertezza circa il contenuto del bando di concorso che, oggettivamente, risultava poco chiaro e foriero di dubbi interpretativi, che avrebbero dovuto riflettersi sulla valutazione dell’elemento soggettivo del delitto di cui al capo 2); sottolinea la presenza di due condizioni tra loro confliggenti, ovvero l’assenza di condanne ostative alla costituzione di un rapporto di pubblico impiego e, nel contempo, di condanne per delitti non colposi, inducendo il ricorrente – che pure si era consultato con un legale – a far riferimento esclusivamente alla assenza di pene accessorie;
2.3 violazione di legge in relazione all’art. 640, comma secondo, n. 2, cod. pen.: osserva che i giudici di merito hanno errato nel ritenere integrato il delitt di truffa per essere stato assunto e per questa ragione retribuito con la somma complessiva di euro 2.022,12, in conseguenza di una dichiarazione, asseritamente falsa, ma di fatto irrilevante atteso che la qualifica di agente di pubblica sicurezza
non era titolo necessario a ricoprire l’incarico, sicché, anche laddove la dichiarazione avesse contemplato tutte le condanne riportate, ciò non avrebbe impedito l’assunzione;
2.4 violazione di legge in relazione all’art. 15 cod. pen.: segnala l’erroneità della sentenza anche quanto al rapporto tra il delitto di cui all’art. 483 cod. pen. e quello di truffa atteso che la falsa dichiarazione non era stata altro che lo strumento per la realizzazione della ritenuta truffa, con conseguente necessario assorbimento del falso in quest’ultima fattispecie;
2.5 violazione di legge penale sostanziale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 131-bis cod. pen.: rileva che i giudici di merito, pur avendo ravvisato una minima offensività della condotta, hanno tuttavia escluso la causa di non punibilità ritenendo il ricorrente delinquente abituale in virtù dei suoi precedenti penali; sottolinea l’erroneità della decisione atteso che l’abitualità – come precisato dalla giurisprudenza – è legata alla commissione di reati della stessa indole laddove nel caso di specie si trattava di reati abrogati ovvero depenalizzati;
2.6 violazione di legge penale sostanziale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 20-bis cod. pen. ed all’art. 3 Cost.: richiama la motivazione con cui la Corte d’appello ha escluso di poter procedere alla sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria segnalandone l’erroneità sia sotto il profilo della ritenuta mancanza di efficacia afflittiva e rieducativa (finalità di fatto esclusa dalla stessa entità della pe detentiva inflitta) che quanto alla funzione delle pene sostitutive da riguardare in un’ottica di alleggerimento del carico delle carceri;
2.7 violazione di legge penale sostanziale e processuale ed assenza di motivazione in ordine alla dichiarazione asseritamente mendace; osserva che i giudici di merito hanno affermato la penale responsabilità del ricorrente omettendo di acquisire le sentenze di condanna al fine di verificare se le stesse fossero o meno ostative all’acquisizione della qualifica di agente di pubblica sicurezza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, complessivamente, infondato.
NOME COGNOME era stato tratto a giudizio per rispondere, unitamente a NOME COGNOME, del delitto di abuso d’ufficio (capo A della rubrica del procedimento “portante”) da cui, già in primo grado, ed unitamente al coimputato,
era stato assolto perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato; il ricorrente è stato invece riconosciuto responsabile, nei due gradi di giudizio, del delitto di cui all’art. 483 cod. pen. (capo A del proc. pen. riunito), perché, nell domanda “… presentata al Comune di Ascea … per la formazione della graduatoria per l’assunzione stagionale di n. 18 unità a tempo determinato e part time oppure a tempo pieno o maggior part time, profilo professionale vigile urbano … contrariamente al vero dichiarava di non aver riportato condanne penali e di non avere procedimenti penali in corso che impediscano, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia, la costituzione del rapporto di impiego con la pubblica amministrazione”; lo Scalone è stato inoltre riconosciuto responsabile del delitto di truffa aggravata “… perché, con artifizi e raggiri consistiti nel fare uso della fa autocertificazione di cui al capo a), inducendo in errore gli organi comunali in merito ai requisiti richiesti ai fini dell’ammissione al concorso di cui al capo che precede, si procurava l’ingiusto profitto derivante dall’assunzione con la qualifica di agente di polizia municipale, con relativo danno dell’amministrazione pari alla retribuzione indebitamente percepita di euro 2.022,12”.
2. Con l’atto d’appello la difesa aveva lamentato l’erroneità della sentenza di primo grado in quanto, contrariamente a quanto ivi ritenuto, nella domanda per la partecipazione alla selezione, l’imputato non aveva affatto dichiarato il falso non avendo mai riportato condanne “ostative”, cui cioè era conseguita una pena accessoria che impedisse la costituzione di un rapporto di pubblico impiego; la difesa aveva inoltre dedotto l’assenza o il difetto di prova circa l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 483 cod. pen. e, per altro verso, l’insussistenz del delitto di truffa aggravata per difetto dell’elemento del danno ingiusto altrui, avendo lo COGNOME comunque prestato attività lavorativa nell’interesse ed a vantaggio dell’ente e per la quale era stato correlativamente retribuito; l’impugnazione di merito aveva inoltre sostenuto l’assorbimento, per il principio di specialità, del delitto di truffa in quello di cui all’art. 483 cod. pen. in relazion quale, poi, era stata dedotta la violazione del principio di cui all’art. 521 cod. proc. pen. in quanto la condanna sarebbe intervenuta per un fatto (ovvero una dichiarazione asseritamente falsa) diversa da quella oggetto della contestazione; da ultimo, la difesa aveva dedotto l’erroneità della decisione del Tribunale nell’escludere i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. e, comunque, del diniego della sanzione sostitutiva della pena detentiva “breve”, pur ritualmente sollecitata.
Le questioni sollevate con i motivi d’appello sono state quindi oggetto di sostanziale riproposizione con il ricorso in cassazione con cui la difesa lamenta l’erroneità, in diritto, delle risposte e delle soluzioni fornite dalla Corte territo
alle doglianze difensive che, invero, il collegio ritiene che i giudici di merito abbiano invece puntualmente vagliato e correttamente risolto.
3.1 II primo motivo è, infatti, infondato.
La Corte d’appello ha spiegato che, sebbene la contestazione relativa al delitto di cui all’art. 483 cod. pen. avesse fatto riferimento soltanto alla circostanza di non aver riportato condanne penali e di non avere procedimenti penali in corso che impedissero la costituzione di un rapporto di impiego, il capo A) della rubrica del procedimento “portante” (da cui gli imputati erano stati assolti ma che era parte integrante del libello accusatorio) recava l’esplicito ed univoco riferimento ai requisiti di cui all’art. 1 del bando di concorso dove era previsto che il candidato “… non solo non doveva aver riportato condanne penali e non avere procedimenti penali pendenti che impedissero la costituzione del rapporto di pubblico impiego, ma doveva avere anche il possesso dei requisiti per rivestire la qualifica di ausiliario di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 5 I. 65/1986 ossia non aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere stato sottoposto a misura di prevenzione” (cfr., pagg. 6-7 della sentenza in verifica); i giudici salernitani hanno spiegato che “le condanne dalle quali l’imputato era gravato certamente non risultavano ostative alla costituzione del pubblico impiego nella accezione appena riportata, di tal ché non può ritenersi che egli abbia dichiarato il falso con riferimento al punto 11 della domanda”; pur tuttavia, egli dichiarava, pure, come richiesto dal bando, che possedeva i requisiti di cui all’art. 5 laddove si è accertato che era gravato dalle menzionate condanne a pena detentiva per delitti non colposi” (cfr., ancora, ivi, pag. 7).
Va opportunamente allora ricordato che, in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (cfr., in questi termini, Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051 – 01).
Nel caso che ci occupa, la Corte ha correttamente escluso la nullità della sentenza di primo grado per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ritenendo a tal fine idoneo il riferimento operato dalla Corte ad un presupposto di validità della domanda di partecipazione al concorso diverso da
quello direttamente evocato nel capo A) del proc. pen. n. 343/2020 RGT ma pur sempre contenuto nel medesimo capo di imputazione: anche recentemente, d’altro canto, è stato ribadito che la violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza è ravvisabile nel caso in cui il fatto ritenuto nella decisione si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d’imputazione non contenga l’indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consenta di ricavarli in via induttiva, tenendo conto di tutte le risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno GLYPH formato GLYPH oggetto GLYPH di sostanziale GLYPH contestazione GLYPH (cfr., Sez. 2, Sentenza n. 21089 del 29/03/2023, COGNOME, Rv. 284713 – 02; la giurisprudenza di questa Corte, inoltre, è consolidata nel senso che, ai fini della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, in modo tale che questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sull’intero materiale probatorio posto a fondamento della decisione (cfr., Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera, Rv. 254419 – 01; conf., Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, COGNOME, Rv. 257278 – 01; Sez. 6, n. 38061 del 17/04/2019, COGNOME, Rv. 277365 – 01).
In altri termini, è pacifico che la piena e corretta conoscenza dell’imputazione può intervenire ed essere verificata non solo per il tramite del capo d’imputazione ma anche attraverso gli atti che fanno parte del fascicolo processuale e che abbiano consentito all’imputato di avere piena contezza degli elementi strutturali e sostanziali del fatto di reato addebitatogli (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 9314 del 16/11/2023, dep. 2024, P., Rv. 286023 – 01; cpnf., Sez. 5, n. 16993 del 02/03/2020, COGNOME, Rv. 279090 – 01; Sez. 5, n. 10033 del 19/01/2017, COGNOME, Rv. 269455 01; Sez. 2, n. 2741 del 11/12/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 265825 – 01).
3.2 Il secondo motivo è a sua volta infondato.
La Corte d’appello, replicando all’omologo motivo di censura articolato contro la sentenza di primo grado, ha giustamente ribadito che il delitto di cui all’art. 483 cod. pen. è caratterizzato dal dolo generico consistente nella volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero (cfr., tra le al Sez. 5, n. 15901 del 15/02/2021, COGNOME, Rv. 281041 02; Sez. 2, n. 47867 del 28/10/2003, Ammatura, Rv. 227078 – 01; cfr., ancora, Sez. 1, n. 27230 del 11/09/2020, Taroni, Rv. 279785 – 03, in cui la Corte ha avuto modo di chiarire che ai fini della integrazione dell’elemento soggettivo del delitto di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici non è
richiesto l’animus nocendi vel decipiendi essendo sufficiente il dolo generico, che consiste nella consapevolezza della immutatio veri che, tuttavia, non costituisce un dolo in re ipsa e deve essere provato, dovendosi escludere il reato quando il falso derivi da una semplice leggerezza dell’agente).
Tanto premesso, i giudici di merito hanno sottolineato come il ricorrente fosse ben consapevole delle precedenti condanne rese nei suoi confronti a fronte dell’esplicito e chiarissimo richiamo, contenuto nel bando di selezione, al necessario “possesso dei requisiti per poter rivestire la qualifica di ausiliario di Pubblica Sicurezza ai sensi dell’art. 5 della legge 65/1986”; tale norma prevede che, per poter esercitare, tra le altre, le funzioni (ausiliarie) di pubblica sicurezza, occorre la nomina conferita dal Prefetto che è subordinata al: “a) godimento dei diritti civili e politici; b) non aver subito condanna a pena detentiva per delitto non colposo o non essere stato sottoposto a misura di prevenzione; c) non essere stato espulso dalle Forze armate o dai Corpi militarmente organizzati o destituito dai pubblici uffici”.
In definitiva, quindi, il riferimento operato nel bando alla disposizione di legge – dal contenuto assolutamente chiaro ed univoco – non consentiva alcuna incertezza sui requisiti richiesti per la partecipazione al concorso indetto dal Comune.
3.3 La considerazione fatta da ultimo consente, ancora, di ritenere l’infondatezza anche del terzo e del settimo motivo del ricorso su cui, pure, la Corte (cfr., pagg. 7-9 della sentenza qui in verifica) ha motivato in maniera puntuale in fatto e corretta in diritto.
Va rilevato, in primo luogo, come sia pacifico che il possesso di tutti i requisiti stabiliti al punto 1 dell'”Avviso di selezione pubblica …” (ovvero sia quell relativo alla assenza di condanne ostative alla costituzione del rapporto di pubblico impiego che quello relativo al possesso dei requisiti stabiliti dal richiamato art. 5 della legge 65 del 1986) fosse stato previsto – esplicitamente – quale requisito di “AMMISSIONE” ovvero come condizione necessaria per la partecipazione al concorso la cui mancanza comportava la esclusione del candidato dalla procedura selettiva.
In altri termini, il possesso dei requisiti di cui alla legge 65 del 1986 non era funzionale all’espletamento, in concreto, delle funzioni proprie di agente di pubblica sicurezza (che, come è pacifico, suppone un autonomo e distinto provvedimento di competenza del Questore) ma era stato certamente indicato come condizione necessaria per poter accedere al concorso e, in caso di successo, essere assunti dall’ente.
Ne consegue che, ai fini dell’integrazione del reato non era necessario l’effettivo espletamento delle funzioni di agente di pubblica sicurezza ma era
sufficiente il mancato possesso dei relativi requisiti per poter accedere al concorso e per poter conseguire l’assunzione cui, invero, lo COGNOME non poteva legittimamente aspirare avendo riportato, come puntualizzato dalla Corte d’appello (cfr., pag. 7 della sentenza in verifica) e, invero, nemmeno contestato con il ricorso, quattro condanne per delitto non colposo per i quali aveva riportato condanne a pena detentiva.
Correttamente, pertanto, i giudici di merito hanno richiamato il principio di diritto enunciato dalle SS.UU. “Cellammare” del 1998 secondo cui “… la truffa finalizzata all’assunzione ad un pubblico impiego si consuma nel momento della costituzione del rapporto impiegatizio, sempre che sia individuabile e dimostrata l’esistenza di un danno immediato ed effettivo, di contenuto economicopatrimoniale, che l’amministrazione abbia subito all’atto ed in funzione della costituzione del rapporto medesimo” (cfr., Sez. U, n. 1 del 16/12/1998, dep. 1999, Rv. 212081 – 01 laddove la Corte ha precisato che ai fini della configurabilità del delitto “de quo” si deve fare riferimento esclusivamente a spese, esborsi ed oneri effettivamente sostenuti dall’amministrazione nella procedura di costituzione del rapporto di impiego, mentre esulano dal concetto di danno rilevante le conseguenze meramente virtuali del reato – come le spese da sostenere per riparare l’errore e rettificare la graduatoria o per indire le nuove procedure di assunzione -, quelle di natura non immediatamente patrimoniale come l’assunzione di persona sprovvista dei necessari requisiti professionali e l’alterazione della graduatoria del concorso -, ovvero quelle estranee all’ambito di tutela proprio della norma incriminatrice, quale il pregiudizio per gli altr concorrenti).
Il principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza successiva (cfr., ad esempio, Sez. 2, n. 49382 del 04/11/2016, Magrì, Rv. 268558 – 01) va correttamente inteso nel senso che il delitto di truffa – qualora, come nel caso di specie, la partecipazione al concorso sia avvenuta in difetto dei requisiti previsti dal bando – deve ritenersi pertanto integrato con la costituzione del rapporto del rapporto di lavoro in assenza delle condizioni per la stessa partecipazione alla procedura selettiva.
Come sopra accennato, è pertanto irrilevante l’aspetto relativo alle mansioni concretamente espletate e che, assume la difesa, non avevano mai comportato, da parte dello Scalone, l’esercizio di funzioni di pubblica sicurezza per le quali era esplicitamente previsto il requisito soggettivo da lui pacificamente non posseduto.
L’esercizio o meno di tali funzioni, pertanto, è un profilo suscettibile di riflettersi esclusivamente sul profilo risarcitorio atteso che, fermo il delitto di truf laddove le mansioni svolte non siano intrinsecamente illecite, l’agente ha
comunque diritto alla retribuzione per lo svolgimento delle attività effettivamente disimpegnate (cfr., Sez. 2, n. 12791 del 25/02/2021, Artico, Rv. 281000 – 01 in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la decisione di revoca della confisca della somma percepita dall’imputato quale retribuzione per lo svolgimento della prestazione relativa all’incarico ottenuto per effetto dei reati di truffa e fal ideologico, chiarendo, nell’occasione, che quando sia commesso il reato di truffa finalizzata all’assunzione di un pubblico impiego, che si consuma nel momento della costituzione del rapporto impiegatizio, al lavoratore spetta comunque la retribuzione per l’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa richiesta, giusta la disciplina dettata dagli artt. 2126 e 2129 cod. civ., salvo che ricorra un’ipotesi di contrarietà della causa del contratto a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume ex art. 1343 cod. civ., un utilizzo dello strumento contrattuale per frodare la legge ex art. 1344 cod. civ., ovvero un motivo illecito, comune alle parti o determinante, ex art. 1345 cod. civ.).
3.4 II quarto motivo è manifestamente infondato.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che il delitto di falso ideologico concorre con quello di truffa in quanto il bene giuridico che il reato di falso è funzionale a proteggere e tutelare è l’interesse di garantire la pubblica fede, mentre quello protetto nel delitto di truffa è l’interesse concernente l’inviolabilità del patrimonio; i due reati, pertanto, oltre ad obbiettività giuridic ben distinte, presentano elementi strutturali diversi in riferimento ai quali non sussiste alcun rapporto di specificità, per il quale occorre il necessario presupposto della esistenza di una norma generale e di una norma speciale, ambedue destinate a disciplinare la stessa materia (cfr., già, Sez. 2, n. 297 del 14/11/1989, dep. 1990, COGNOME, Rv. 183021 – 01; conf., tra le non massimate, Sez. 5, n. 45965 del 10/10/2013, COGNOME; conf., Sez. 3, n. 11774 del 02/10/1998, COGNOME, Rv. 212164 – 01, che, per la stessa ragione, ha ritenuto il concorso tra il delitto di tentata frode comunitaria e quello di falso ideologico commesso da soggetto privato in atto pubblico concorrono per la diversità del bene giuridico offeso).
3.5 Il quinto motivo è aspecifico perché non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata.
La difesa, infatti, lamenta l’erroneità della decisione con cui la Corte d’appello ha escluso la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. motivando sull’assenza del requisito – soggettivo – della non abitualità della condotta; ha segnalato, infatti, che lo COGNOME non era mai stato condannato per reati della stessa indole e, anzi, che il ricorrente aveva subito condanne per reati abrogati o per fatti depenalizzati.
In realtà la Corte d’appello (cfr., pag. 10 della sentenza) ha motivato il diniego della causa di non punibilità facendo leva, in primo luogo, sulla gravità oggettiva del fatto commesso dall’imputato il quale, per altro verso, aveva riportato una serie di condanne per delitti non colposi contro l’amministrazione della giustizia ed in danno di enti pubblici ostative, come detto, alla stessa partecipazione al concorso (cfr., ivi, pag. 7).
In definitiva, quindi, i giudici di merito, nell’escludere, nel caso di specie, l condizioni per applicare la causa di non punibilità, hanno formulato un apprezzamento fondato su aspetti di natura oggettiva come di natura soggettiva che, in quanto motivato in termini congrui e non manifestamente illogici, si sottrae a rilievi di legittimità.
È appena il caso, d’altra parte, di ribadire il principio affermato dalle SS.UU. di questa Corte, al quale i giudici di merito si sono correttamente conformati, secondo cui, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il giudizio sul tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (cfr., Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590 – 01).
3.6 Considerazioni simili vanno fatte per quanto concerne il sesto motivo del ricorso.
Gli stessi elementi di natura soggettiva giudicati ostativi all’applicazione della causa di non punibilità, sono stati considerati in grado di fondare un giudizio negativo anche sulla concedibilità della sollecitata sanzione sostitutiva; la Corte ha infatti considerato che proprio la natura dei precedenti per i quali lo COGNOME era stato più volte condannato (ovvero mancata esecuzione di un provvedimento del giudice, di cui all’art. 388 cod. pen.) ben poteva fondare una prognosi negativa sul futuro adempimento delle prescrizioni legate alla pena sostitutiva consentita anche alla luce della riforma del 2022.
Si tratta di un apprezzamento che, anche in tal caso, si sottrae a censure di legittimità avendo anzi questa stesse Sezione anche recentemente chiarito che il giudice, anche a séguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, non può argomentare la prognosi negativa in ordine adempimento delle prescrizioni da parte dell’imputato facendo esclusivo riferimento ai suoi precedenti penali, ma può desumere elementi di valutazione dalla natura e dal numero di essi, oltre che dall’epoca di commissione degli illeciti (cfr. Sez. 2, n. 45859 del 22/10/2024, COGNOME, Rv. 287348 – 01, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la decisione reiettiva dell’istanza di sostituzione che
aveva valorizzato i precedenti specifici dell’imputato e, segnatamente, le precedenti condanne per evasione e violazione degli obblighi inerti alla misura di
prevenzione della sorveglianza speciale).
4. Le considerazioni sin qui sviluppate impongono, dunque, il rigetto del ricorso cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 14/05/2025
re estensore GLYPH
CIANFROCCA GLYPH
Il Presidente
NOME VR-
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