Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 36912 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 36912 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/10/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato in Marocco il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 09/12/2024 della Corte d’appello di Trieste Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Procuratore Generale, NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La sentenza oggi al vaglio di questa Corte è stata deliberata il 9 dicembre 2024 dalla Corte di appello di Trieste, che ha riformato -revocando i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione -la sentenza resa all’esito di rito abbreviato con la quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Udine aveva condannato NOME COGNOME per il reato di cui all’art. 483 cod. pen.
L’addebito è quello di avere falsamente autocertificato , in base alle previsioni del DPCM del 14 gennaio 2021 teso al contenimento del rischio di contagio da Covid 19, che il suo spostamento da Bergamo (Lombardia) a Majano (Friuli Venezia Giulia) era dovuto a ragioni di lutto familiare per il decesso di NOME COGNOME, decesso in realtà mai avvenuto nel Comune di Majano, dove il predetto NOME non era mai stato residente . L’ autocertificazione era stata consegnata il 3 febbraio 2021 a personale della Squadra Mobile della Questura di Udine nel corso di un controllo avvenuto presso il casello autostradale di Udine sud (Comune di Pozzuolo del
Friuli) , all’esito del quale il prevenuto era stato trovato in possesso di sostanza stupefacente (fatto, quest’ultimo, per cui si è proceduto separatamente).
Contro la predetta sentenza ha presentato ricorso per Cassazione l’imputat o con il ministero del proprio difensore di fiducia, che ha formulato due motivi, di seguito sintetizzati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge ed invoca l’annullamento della sentenza impugnata previa disapplicazione delle disposizioni introdotte dal DPCM del 14 gennaio 2021 attuativo del d.l. 2 del 2021 convertito con l. n. 29 del 2021 siccome incostituzionali, per violazione dell’art. 13 o, in subordine, dell’art . 16 Cost. In via gradata, il ricorrente chiede di rimettere la questione alla Corte Costituzionale affinché si pronunci sulla compatibilità con la Carta fondamentale delle dispo sizioni limitative sulla cui base l’imputato era tenuto a redigere l’autocertificazione. Il ricorrente, citando le pronunce della Corte Costituzionale nn. 198 e 37 del 2021 e 127 del 2022, si è dichiarato in disaccordo con le conclusioni di quest’ultima decisione che aveva respinto l’eccezione di incostituzionalità, anche per violazione dell’art . 13 Cost., delle disposizioni sulla quarantena obbligatoria. Il ricorso si sviluppa, poi, sostanzialmente su due fronti. Il primo è quello di insistere sulla frizione tra il DPCM del 14 gennaio 2021 e l’art. 13 Cost., denunciando la compressione della libertà personale causata dal provvedimento governativo, che non potrebbe mai essere giustificata invocando l’art. 32 Cost. perché esso imporrebbe la «permanenza domiciliare»; dell’art . 13 Cost. sarebbe violata, in particolare, la riserva di giurisdizione, giacché il ricorrente conviene sul fatto che la riserva di legge era stata rispettata dal successivo recepimento del DPCM nel d.l. 2 del 2021. L’incidenza del divieto governativo sulla libertà personale -assume la parte -renderebbe necessario l’intervento del Giudice penale e la procedimentalizzazione dell’inflizione del divieto. L’altro fronte, sviluppato in via subordinata nel ricorso, è quello di denunziare la violazione dell’art . 16 Cost. in quanto non sussisterebbero, in relazione alla pandemia da Covid-19, le ragioni attinenti alla salvaguardia della salute pubblica che potrebbero giustificare limitazioni alla circolazione, limitazioni comunque sproporzionate.
2.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta violazione di legge quanto alla configurabilità del reato di cui all’art. 483 cod. pen. Il ricorrente sviluppa ampia premessa sull ‘ evoluzione della normativa emergenziale, ricordando che la violazione delle misure limitative degli spostamenti aveva determinato prima una risposta penale e poi amministrativa, sicché aveva assunto centralità il tema delle autocertificazioni e dei relativi falsi. I modelli scaricabili sul sito del RAGIONE_SOCIALE dell’interno recavano l’indicazione degli artt. 46 e 47 d.P.R. 445 del 2000 e
l’indicazione che il firmatario era responsabile delle conseguenze previste in caso di dichiarazioni mendaci. A quest’ultimo riguardo, il ricorrente si dilunga evocando la giurisprudenza maggioritaria di legittimità circa l’equiparazione tra l’autodichiarazione resa ai sensi degli artt. 46, 47 e 76 ed un atto pubblico e poi la giurisprudenza minoritaria e la dottrina che hanno escluso detta equiparazione. Concentrandosi, poi, sulla disciplina emergenziale, il ricorrente richiama giurisprudenza di merito e sostiene che mancherebbe l’idoneità probatoria dell’atto pubblico rispetto ai fatti dichiarati perché si sarebbe trattato di una dichiarazione di intenti (lo spostamento era in atto e non si era già concluso) e, comunque, anche rispetto al decesso del NOME, la successiva relazione di p.g. non proverebbe che si trattava di affermazione falsa, perché il predetto ben poteva aver vissuto in altro Comune ed essere deceduto lì.
Il ricorrente prosegue citando giurisprudenza di merito che avrebbe escluso la natura di atto pubblico dell’ autocertificazione Covid 19, perché non vi sarebbe stata una specifica norma che obbligasse il privato a dichiarare il vero e perché l’atto in cui essa doveva essere trasfusa non era un atto pubblico e non era fidefacente e destinato a provare la verità di quanto affermato; il ricorrente -ancora si dice in disaccordo con la giurisprudenza maggioritaria della Corte di cassazione secondo cui l’autodichiarazione si considera come resa ad un pubblico ufficiale. Se anche si superassero queste obiezioni -si legge nel ricorso -resterebbe la violazione del principio nemo tenetur se detegere perché il privato si troverebbe nell’alternativa tra dichiarare il falso e, quindi, andare incontro alla sanzione penale -o dichiarare il vero e, quindi, confessare la violazione delle disposizioni anticontagio.
Da ultimo, il ricorrente sostiene che la dichiarazione sostitutiva sugli spostamenti tra Regioni non rientrerebbe nel paradigma di cui all’art. 483 cod. pen. perché sarebbe assente « la dimensione di un rapporto con l’amministrazione volto all’ottenimento di un determinato atto/provvedimento ».
Il procedimento è stato trattato con rito cartolare, perché nessuna delle parti ha chiesto la trattazione in presenza. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso come in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge ed invoca l’annullamento della sentenza impugnata, previa disapplicazione delle disposizioni
introdotte dal DPCM del 14 gennaio 2021 -attuativo del d.l. 14 gennaio 2021, n. 2, convertito con modificazioni dalla l. 12 marzo 2021, n. 29 -siccome incostituzionali, per violazione dell’art. 13 o, in subordine, dell’art. 16 Cost. In via gradata, il ricorrente chiede di rimettere la questione alla Corte Costituzionale affinché si pronunci sulla compatibilità con la Carta fondamentale delle disposizioni limitative sulla cui base l’imputato era tenuto a redigere l’autocertificazione.
2.1. La richiesta di disapplicazione non può avere seguito per varie, concorrenti ragioni.
2 .1.1. Innanzitutto, alcune osservazioni sull’ammissibilità stessa della doglianza.
Sotto questo profilo, il Collegio non può ignorare che la mozione è stata formulata in termini generici, giacché il ricorrente fa riferimento, in generale, « alle disposizioni del DPCM 14.01.2021 » senza precisare a quale di esse si riferisca.
Tuttavia, prescindendo da questo deficit di precisione e ragionando sul tema affrontato in generale nel ricorso, la disposizione del DPCM ‘incriminato’ dovrebbe identificarsi in quella contenuta nell’art. 1, comma 4 del decreto, che recita: « 4. Ai sensi dell’articolo 1 del decreto-legge n. 2 del 2021, dal 16 gennaio 2021 al 5 febbraio 2021 è vietato ogni spostamento in entrata e in uscita tra i territori di diverse regioni o province autonome, salvi gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute. È comunque consentito il rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione ». Se questa è la disposizione governativa che il ricorrente chiede di disapplicare, allora egli trascura che detta disposizione è la trasposizione pressoché testuale dell’art. 1, comma 3 del d.l. 2 del 2021, che recitava: « 3. Dal 16 gennaio 2021 al 15 febbraio 2021, sull’intero territorio nazionale è vietato ogni spostamento in entrata e in uscita tra i territori di diverse regioni o province autonome, salvi gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute. È comunque consentito il rientro alla propria residenza, domicilio o abitazione ». Entrambe tali disposizioni trovavano applicazione il 3 febbraio 2021, quando si è verificato il fatto addebitato all’imputato.
Quanto alle modalità attraverso le quali il cittadino poteva comprovare che sussistessero le condizioni per lo spostamento interregionale, l’obbligo della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà non era previsto né da una norma di legge, né dal DPCM , ma da circolari del RAGIONE_SOCIALE dell’interno che si erano via via susseguite e che recavano, in allegato, uno schema di autodichiarazione da compilare, portare con sé ed esibire in occasione di eventuali controlli.
Ciò posto e al netto della valenza tranchant della manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità -su cui infra -una valutazione preliminare dell’ammissibilità della doglianza conduce a ritenerla priva del necessario
interesse, giacché il divieto di spostamento interregionale costituiva il precipitato di una norma del decreto legge, cui il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri aveva solo dato concreta esecuzione. Ne consegue che, quand’anche potesse darsi corso alla richiesta di disapplicazione del DPCM, lo spostamento tra Regioni sarebbe stato comunque limitato da una norma di legge; norma di legge che non può essere disapplicata dal Giudice comune, il quale, se ritiene che una legge dello Stato contrasti con una norma costituzionale, non ha altra strada, dopo aver sperimentato invano un’esegesi costituzionalmente conforme, di adire la Consulta (Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, COGNOME, Rv. 239399 -01, in motivazione).
2.1.2. Venendo al concreto della denunzia di incostituzionalità, alla base sia della richiesta di disapplicazione, sia della richiesta di rimettere gli atti alla Corte costituzionale, essa non può avere seguito, stante la sua manifesta infondatezza, perché il Collegio ritiene che non vi sia contrasto alcuno con le norme costituzionali evocate.
In primo luogo, la disposizione censurata non confligge con l’art. 13 Cost. perché non limitava la libertà personale, ma incideva sulla sola libertà di circolazione, che è tutelata dall’art. 16 Cost.
In questa direzione si è mossa la Corte costituzionale proprio in una delle sentenze che il ricorrente ha citato, la n. 127 del 2022, che ha escluso la frizione con la libertà fondamentale suddetta per una misura della disciplina emergenziale ben più incisiva sulla libertà personale rispetto al divieto di spostamento interregionale, ossia la quarantena obbligatoria.
In particolare, la Consulta si è trovata a delibare sulla fondatezza della questione di costituzionalità degli artt. 1, comma 6, e 2, comma 3, del decretolegge 16 maggio 2020, n. 33, convertito, con modificazioni, nella legge 14 luglio 2020, n. 74, in riferimento all’art. 13 della Costituzione, sollevata dal Tribunale di Reggio Calabria quanto alla disposizione che imponeva l’obbligo di permanenza in casa dopo aver contratto il virus.
In quel caso, la Corte costituzionale ha escluso che l’obbligo della quarantena obbligatoria appartenesse al nucleo ‘classico’ di tutela dell’art. 13 Cost. con le connesse riserve di legge e di giurisdizione -riconducendolo, piuttosto, alla libertà di locomozione tutelata dall’art. 16 Cost., s u cui non era stata posta questione di costituzionalità.
La Consulta ha altresì negato che l’art. 13 Cost. potesse ritenersi violato perché la libertà di locomozione fosse compressa fino al punto da consentire di intervenire, rispetto a comportamenti inosservanti, con la coercizione fisica, evenienza che avrebbe imposto di ric ollocare l’obbligo di permanenza domiciliare post contagio dall’ambito della libertà di locomozione a quello della libertà
personale (« Ed è bene precisare che qualora sia previsto il ricorso alla forza fisica al fine di instaurare o mantenere in essere, con apprezzabile durata, una misura restrittiva della facoltà di libera locomozione, allora la circostanza che la legge abbia introdotto tale misura in via generale per motivi di sanità non comporta che essa vada assegnata alla garanzia costituzionale offerta dall’art. 16 Cost., e sfugga così alla riserva di giurisdizione, posto che detto elemento coercitivo implica necessariamente che sia l’autorità giudiziaria ad applicare la restrizione, o a convalidarne l’esecuzione provvisoria »).
Ugualmente la Corte ha escluso un’altra possibile caratteristica della quarantena obbligatoria che avrebbe potuto ricondurla allo ‘ scudo protettivo ‘ -così la Consulta -dell’art. 13 Cost., negando, cioè, che essa fosse giuridicamente degradante -comportando l’assoggettamento della persona all’altrui potere – sì da limitare a tal punto la libertà morale dell’individuo da richiedere l’intervento della giurisdizione (oltre a quello del legislatore). A questo riguardo, la Consulta ha ragionato sul fatto che occorreva fronteggiare « un virus respiratorio altamente contagioso, diffuso in modo ubiquo nel mondo, e che può venire contratto da chiunque, quali siano lo stile di vita e le condizioni personali e sociali », donde la misura non costituiva uno stigma morale, che isolava o relegava l’ammalato, trattandosi, piuttosto, « di una condizione condivisa con milioni di individui, accomunati da null’altro che dall’esposizione ad un agente patogeno trasmissibile per via aerea ».
Orbene, il Collegio reputa che le riflessioni della Consulta costituiscano un ineludibile viatico esegetico quanto alla questione posta oggi dal ricorrente.
Se, infatti, la Corte costituzionale ha escluso ogni possibile profilo di compromissione dell’obbligo di permanenza domiciliare rispetto alla tutela costituzionale della libertà personale, le riflessioni svolte dal Giudice delle leggi possono essere agevolmente trasposte al caso dello spostamento tra Regioni -misura certamente meno limitativa per il soggetto che vi era sottoposto rispetto alla quarantena obbligatoria – evincendone che si trattava di imposizione estranea allo ‘scudo protettivo’ dell’art. 13 Cost. e, piuttosto, classificabile quale compressione della libertà di locomozione tutelata dall’art. 16 della Carta.
Così ricollocata la questione, se ne ricava agevolmente che non vi è alcuna frizione del divieto di spostamento interregionale con la tutela della libertà di circolazione, perché l’art. 16 Cost. non contempla la doppia riserva, di legge e di giurisdizione, ma prevede solo che la legge possa comprimere la libertà di circolazione « per motivi di sanità e sicurezza ». Motivi questi ultimi che hanno orientato le scelte legislative e che -come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale -erano certamente sussistenti nel caso del Covid 19, un virus tanto invasivo da diffondersi in tutto il pianeta e da generare un bilancio gravissimo di
vite perse, che determinava la necessità di misure che arginassero il propagarsi della pandemia.
Anche il secondo motivo di ricorso è, nel suo complesso, infondato.
Esso richiede una trattazione ripartita sulla base degli argomenti che il ricorrente ha messo in campo.
3.1. Innanzitutto, il ricorrente sembra dubitare che una dichiarazione rilasciata ai sensi degli artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445 del 2000 sia assimilabile ad un atto pubblico.
3.1.1. A tale riguardo, questa Corte insegna che il concetto di atto pubblico è, agli effetti della tutela penale, più ampio di quello desumibile dall’art. 2699 cod. civ., dovendo rientrare in detta nozione non soltanto i documenti redatti da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato, ma anche quelli formati dal pubblico ufficiale o dal pubblico impiegato, nell’esercizio delle loro funzioni, per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede, purché aventi l’attitudine ad assumere rilevanza giuridica e/o valore probatorio interno alla pubblica amministrazione (Sez. 5, n. 3542 del 17/12/2018, dep.2019, COGNOME, Rv. 275415; Sez. 5, n. 9358 del 24/4/1998, Tisato, Rv. 211440), cosicché sono atti pubblici anche gli atti interni e quelli preparatori di una fattispecie documentale complessa, come le autocertificazioni del privato redatte ai sensi dell’art. 46 o dell’art. 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445 (Sez. 5, n. 15901 del 15/02/2021, COGNOME, Rv. 281041-01; Sez. 5, n. 30099 del 15/03/2018, NOME, Rv. 273806 -01).
La natura pubblica delle autocertificazioni e autodichiarazioni discende dal fatto che esse sono considerate rese ad un pubblico ufficiale (v. art. 76, comma 3, d.P.R. 445 del 2000) e sono destinate ad essere trasfuse in un atto pubblico che recepisce il contenuto attestativo dell’autocertificazione o dell’autodichiarazione , oltre che dalla natura stessa delle dichiarazioni del privato, a cui gli stessi articoli che le disciplinano attribuiscono la destinazione a provare i fatti in esse affermati, sostituendo, così, nell’ottica della semplificazione amministrativa, la funzione probatoria che prima avrebbero avuto i documenti che comprovavano ciascuno degli stati, delle situazioni, delle qualità e delle condizioni indicate negli artt. 46 e 47 d.P.R. cit.
3.1.2. Quanto appena osservato, secondo il Collegio, contiene già la risposta alla ulteriore e più specifica perplessità manifestata dal ricorrente, che cerca di demolire la costruzione in diritto dei Giudici di merito, dubitando della natura di atto pubblico dell’autodichiarazione sub iudice perché non vi sarebbe una norma che attribuisca valore probante alla dichiarazione del privato e che renda quest’ultima idonea a comprovare il fatto in essa affermato.
Volendo approfondire il tema, è sufficiente fare richiamo a due precedenti di questa Corte che hanno svolto considerazioni del tutto sovrapponibili quanto alla fonte normativa da cui promana la forza probatoria dell’autodichiarazione (Sez. 5, n. 32859 del 24/04/2019, COGNOME, Rv. 276902 -01 e Sez. 5, n. 7857 del 26/10/2017, dep. 2018, Marchetti, Rv. 272277 – 01). Detti precedenti sono partiti dal principio generale consolidato secondo cui il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico è configurabile solo nei casi in cui una specifica norma giuridica attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di affermare il vero (Sez. U, n. 28 del 15/12/1999, COGNOME, Rv. 215413; Sez. 5, n.5365 del 15/01/2018, COGNOME, Rv. 272110, Sez. 5, n. 39215 del 04/06/2015, RAGIONE_SOCIALE e altro, Rv. 264841; Sez. 5, n. 18279 del 02/04/2014, COGNOME, Rv. 259883; Sez. 5, n. 5365 del 04/12/2007 – dep. 2008, COGNOME, Rv. 239110; Sez. 5, n. 17363 del 12/02/2003, COGNOME, Rv. 224750; Sez. 5, n. 16275 del 16/03/2010, COGNOME, Rv. 247260, proprio sulla dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa ai sensi dell’art. 47 d.P.R. 2 n. 445 del 2000). Quanto, poi, in particolare, agli atti disciplinati dalle norme di cui agli artt. 46 e 47 del d.P.R. 445 del 2000, si è condivisibilmente osservato che ciascuno di essi è, per sua natura, « destinato a provare la verità » delle circostanze in esso affermate, che concernono fatti, stati e qualità personali (Sez. 5, n. 38748 del 09/07/2008, COGNOME, Rv. 242324), destinazione sancita a livello normativo dalle stesse disposizioni che le prevedono. In particolare, per quanto di specifico interesse in questa sede, l’art. 47, in tema di «Dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà» stabilisce la sostituzione dell’atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato con una dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo con la osservanza delle modalità di cui all’articolo 38.
3.1.3. Se poi il dubbio formulato nel ricorso è che l’autodichiarazione firmata da NOME fosse fine a se stessa siccome non destinata ad essere trasfusa in un atto pubblico, allora la censura è generica e vaga, perché l’impugnativa non illustra con la dovuta precisione quale sia l’aspetto su cui convergono le perplessità della parte.
Inoltre, la doglianza è anche manifestamente infondata per due ulteriori considerazioni, l’una teorica, l’altra pratica.
In primo luogo, come già osservato, è lo stesso art. 76, comma 3, del d.P.R. 445 del 2000 che prevede che le dichiarazioni rilasciate ai sensi dell’art. 47 sono considerate come rese a pubblico ufficiale, donde esse sono normativamente destinate ad essere trasfuse nell’atto del soggetto che le riceve.
In secondo luogo, la censura trascura di considerare che l’autodichiarazione scritta fornita in fase di controllo alle forze dell’ordine dall’imputato è certamente
stata trasfusa nel verbale o nell’annotazione che quel controllo ha documentato, sia perché ciò rientrava nei doveri istituzionali del personale di Polizia preposto al controllo, sia, nel concreto, perché solo l ‘effettiva verbalizzazione del controllo può avere consentito l’attivazione del le verifiche postume che hanno fatto emergere la falsità di quanto autodichiarato da NOME.
3.2. Il secondo, più specifico dubbio del ricorrente -anch’esso infondato pare essere quello della configurabilità del reato quanto, in particolare, all’autodichiarazione diretta a documentare le ragioni degli spostamenti nella fase dell’emergenza epidemiologica. Da questo punto di vista, pare utile riferirsi ad un condivisibile precedente di questa sezione (Sez. 5, n. 35276 del 31/05/2023, Pintilie, Rv. 285293 -01) seguito da altro non massimato (Sez. 5, n. 1506 del 2024). La quinta sezione, nella sentenza Pintilie, rispetto alla falsa autodichiarazione di imputati sopresi dai Carabinieri in strada in orario non consentito dalla disciplina emergenziale, ha affermato che essa rientra nei parametri ermeneutici appena descritti, attesa l’evidente e specifica funzione probatoria della dichiarazione resa ai sensi dell’art. 47 d.P.R. n. 445 del 2000, dimostrativa di « stati, qualità personali o fatti che siano nella diretta conoscenza dell’interessato », che solo quest’ultimo può documentare, della quale il pubblico ufficiale prende semplicemente cognizione attraverso l’attestazione del privato, tenuto all’obbligo di verità.
Si tratta di considerazioni che, con tutta evidenza, possono essere ribadite anche nel caso di falsa attestazione delle ragioni che consentivano lo spostamento interregionale, ragioni che il privato interessato poteva e doveva autodichiarare, generando il ‘salvacondotto’ utile per superare il controllo ma assumendosi, nel contempo, la responsabilità della veridicità di quanto affermato.
3.3. Un altro tema critico che trapela dalle fitte maglie del ricorso è quello della mancanza di un accertamento effettivo sul decesso del parente dell’imputato, a cagione del quale si sarebbe reso necessario lo spostamento. Da questo punto di vista il ricorso è generico e versato in fatto in quanto prospetta un’interpretazione alternativa degli eventi secondo cui il decesso del NOME nella regione Friuli Venezia Gilia sarebbe stato reale, ma non adeguatamente verificato dai controlli postumi -che però non emerge dalle sentenze di merito; da queste ultime si trae piuttosto che, presso il Comune indicato dal ricorrente stesso nell’autodichiarazione, furono effettuate le verifiche sia della residenza del defunto che del suo decesso, accertamenti che si conclusero con esito negativo.
Peraltro l’accenno, che si coglie nel ricorso, alla circostanza che il falso non sussisterebbe anche perché il prevenuto avrebbe attestato solo circostanze future, non collima con le evenienze fattuali, secondo cui, quando l’imputato è stato fermato, era già nella Regione Friuli Venezia Giulia ed aveva giustificato l’ avvenuto
transito dalla Lombardia adducendo esigenze familiari fondate su dati di fatto che si erano rivelati non rispondenti a verità.
3.4. Infine il ricorrente accenna alla presunta violazione del principio del nemo tenetur se detegere quanto all’obbligo di dichiarare la verità in sede di controllo, cioè che lo spostamento interregionale fosse ingiustificato, sì da determinare una sorta di autodenunzia di avere effettuato uno spostamento ingiustificato.
Ebbene, su questo aspetto appare utile, ancora una volta, il richiamo a Sez. 5 Pintilie cit., che, come già precisato, ha affrontato una fattispecie analoga a quella oggi al vaglio del Collegio e che, posta di fronte allo stesso interrogativo che oggi il r icorrente agita rispetto all’autodichiarazione Covid, ha escluso l’operatività del divieto di autoincriminazione. In buona sostanza, il precedente evocato ha innanzitutto ricordato l’insegnamento di questa Corte secondo cui, al di fuori di espresse previsioni normative operanti nel campo sostanziale, il principio del nemo tenetur se detegere si qualifica come diritto di ordine processuale che non dispiega i suoi effetti al di fuori del processo penale, ma opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato (Sez. 5, n. 8252 del 15/01/2010, COGNOME, Rv. 246157; Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, COGNOME, Rv. 253545; Sez. 5, n. 9746 del 12/12/2014, COGNOME, Rv. 262941; Sez. 3, n. 37107 del 7/3/2017, COGNOME, non mass.), senza che, tuttavia, ciò determini la violazione di norme costituzionali e convenzionali (Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014, dep. 2015, Strazimiri, Rv. 263034). Si è sostenuto, in particolare, che il canone suddetto, siccome posto a garanzia dell’equo processo, ha ragione di essere applicato esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato e non nella fase ad esso precedente e relativa alla commissione di un reato e non legittima anche la possibilità di violare regole di comportamento poste a tutela di interessi non legati alla pretesa punitiva (Sez. 3, n. 53137 del 22/09/2017, COGNOME, Rv. 271827; Sez. 3, n. 53656 del 03/10/2018, A., Rv. 275452).
Ne consegue, quindi, in linea con la giurisprudenza appena ricordata, che il ricorrente non può invocare, a propria discolpa, il principio processuale del nemo tenetur se detegere per giustificare la dichiarazione mendace; la falsa autodichiarazione prodotta dal prevenuto, infatti, non costituiva l’alternativa ad una condotta -quella, cioè, di affermare che il transito interregionale fosse privo di giustificazione -che avesse una valenza intraprocessuale, sicché obbligare il dichiarante al vero avrebbe costituito una violazione del divieto di autoincriminazione.
Le considerazioni illustrate conducono, come anticipato, al rigetto del ricorso, dal quale discende la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così è deciso, 24/10/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME