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Falsa attestazione identità: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 26086/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per il reato di falsa attestazione identità. La Corte ha chiarito che fornire false generalità oralmente a un pubblico ufficiale durante un controllo stradale, in assenza di documenti, integra il più grave reato di cui all’art. 495 c.p. e non la fattispecie meno grave dell’art. 496 c.p., poiché tali dichiarazioni assumono valore di attestazione formale.

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Pubblicato il 1 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Falsa attestazione identità: la Cassazione fa chiarezza tra art. 495 e 496 c.p.

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di reati contro la fede pubblica, specificando i confini tra due norme spesso oggetto di dibattito. Il caso riguarda la falsa attestazione identità fornita a un pubblico ufficiale e la corretta qualificazione giuridica del fatto. La Suprema Corte ha confermato che dichiarare verbalmente false generalità ai carabinieri durante un controllo, in assenza di documenti, costituisce il reato più grave previsto dall’art. 495 del codice penale.

I Fatti del Caso

La vicenda processuale ha origine da un controllo stradale. Un automobilista, fermato dalle forze dell’ordine e sprovvisto di documenti di riconoscimento, forniva verbalmente delle generalità non veritiere. A seguito di ciò, veniva condannato in primo grado e in appello per il delitto di ‘Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri’, previsto dall’art. 495 c.p. L’imputato decideva quindi di ricorrere in Cassazione, sollevando due questioni principali.

I Motivi del Ricorso e la questione sulla falsa attestazione identità

Il ricorrente basava la sua difesa su due argomentazioni.

In primo luogo, sosteneva che la sua condotta avrebbe dovuto essere ‘derubricata’, ovvero qualificata come il reato meno grave di ‘False dichiarazioni sulla identità o su qualità personali proprie o di altri’, previsto dall’art. 496 c.p. A suo avviso, una semplice dichiarazione verbale non poteva essere equiparata a una formale ‘attestazione’.

In secondo luogo, sollevava una questione di legittimità costituzionale, ritenendo sproporzionato il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge rispetto ad altre fattispecie, in violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto entrambe le argomentazioni, dichiarando il ricorso inammissibile.

Per quanto riguarda il primo motivo, i giudici hanno ribadito un orientamento consolidato. Hanno chiarito che quando una persona, priva di documenti, fornisce dichiarazioni sulla propria identità a un pubblico ufficiale, tali dichiarazioni non sono mere affermazioni, ma assumono il carattere di una vera e propria ‘attestazione’. Esse sono, infatti, preordinate a garantire al pubblico ufficiale le qualità personali del dichiarante, integrando così l’elemento distintivo del più grave reato di cui all’art. 495 c.p. La Corte ha specificato che questa interpretazione è coerente con la modifica legislativa introdotta nel 2008, che ha rafforzato la tutela della fede pubblica in questi contesti. La distinzione, quindi, non risiede nella forma (scritta o orale) della dichiarazione, ma nella sua funzione e nel contesto in cui viene resa.

Relativamente alla presunta incostituzionalità delle norme, la Corte ha giudicato la questione manifestamente infondata. L’argomentazione del ricorrente è stata ritenuta troppo generica e, nel merito, priva di fondamento, poiché le situazioni giuridiche messe a confronto sono palesemente diverse e giustificano un trattamento sanzionatorio differenziato.

Le Conclusioni

La decisione finale è stata la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. Di conseguenza, l’imputato è stato condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro alla Cassa delle ammende. L’ordinanza consolida un principio giuridico di notevole importanza pratica: mentire sulla propria identità a un pubblico ufficiale durante un controllo è una condotta grave. In assenza di documenti, la parola data assume un valore di attestazione formale, facendo scattare la sanzione più severa prevista dall’art. 495 c.p. e non quella più lieve dell’art. 496 c.p. Questo serve a tutelare l’affidabilità delle informazioni su cui le forze dell’ordine devono basare la loro attività.

Cosa succede se fornisco false generalità verbali alla polizia durante un controllo stradale senza documenti?
Secondo questa ordinanza, si commette il reato più grave di ‘Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale’ previsto dall’art. 495 del codice penale, perché in assenza di altri mezzi di identificazione, la dichiarazione verbale assume valore di attestazione formale.

Qual è la differenza tra il reato previsto dall’art. 495 c.p. e quello dell’art. 496 c.p. secondo la Corte?
La differenza fondamentale risiede nel fatto che le dichiarazioni rese a un pubblico ufficiale in un contesto di controllo, e in assenza di documenti, sono considerate ‘attestazioni’ preordinate a garantire l’identità personale, integrando la fattispecie più grave dell’art. 495 c.p. Il reato di cui all’art. 496 c.p. riguarda invece dichiarazioni false rese in contesti diversi e meno formali.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché entrambi i motivi sono stati ritenuti ‘manifestamente infondati’. La richiesta di derubricazione del reato era contraria alla giurisprudenza consolidata, mentre la questione di legittimità costituzionale è stata giudicata generica e priva di fondamento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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