Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20173 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20173 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 02/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a Paternò il 27/11/1976
NOME nato a Paternò il 18/02/1989
NOME nato a Paternò il 04/11/1987 avverso la sentenza del 04/07/2024 della Corte di Appello di Catania
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto dei ricorsi;
udite le conclusioni del difensore del ricorrente NOME COGNOME Avv. NOME COGNOME che ha insistito nei motivi di ricorso e chiesto l’annullamento del provvedimento impugnato;
udite le conclusioni del difensore del ricorrente NOME COGNOME Avv. NOME COGNOME che ha insistito nei motivi di ricorso e chiesto l’annullamento del provvedimento impugnato.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza del 4 luglio 2024 con cui la Corte di appello di Catania, ha confermato le condanne inflitte nei loro confronti
dal Tribunale di Catania, con sentenza emessa in data 01 marzo 2021, per il reato di estorsione aggravata.
NOME COGNOME con il primo motivo di impugnazione, lamenta contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata riqualificazione del fatto nel reato di cui all’art. 393 cod. pen.
A giudizio della difesa, il comportamento ‘reticente e incomprensibile’ della persona offesa non avrebbe permesso di inquadrare la vicenda nella fattispecie criminosa di cui all’art. 629 cod. pen.
L’istruttoria dibattimentale avrebbe dimostrato con certezza che il COGNOME, ritenendo di essere stato raggirato da NOME COGNOME, avrebbe chiesto la restituzione della somma pari a 700,00 euro consegnatagli per ottenere un finanziamento di 2.000,00 euro con conseguente configurabilità del solo reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Con il secondo motivo di ricorso, il COGNOME deduce contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
La Corte territoriale avrebbe sostanzialmente ignorato le argomentazioni con cui la difesa aveva evidenziato gli elementi favorevoli ad una mitigazione della pena con conseguente vizio di motivazione.
NOME COGNOME con il primo motivo di ricorso, deduce mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla penale responsabilità ed all’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.
La mancata verifica della credibilità soggettiva del COGNOME e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto inficerebbero in modo decisivo la logicità della sentenza, fondata esclusivamente sulle incongrue e contraddittorie dichiarazioni della presunta persona offesa.
La Corte di merito avrebbe, sostanzialmente ignorato le numerose contraddizioni e incongruenze dettagliatamente indicate nell’atto di appello, limitandosi ad affermare -con argomentazioni apodittichel’attendibilità del COGNOME ed a valutare tali incongruenze come ‘contraddizioni che riguardano alcune circostanze di tempo e luogo nella deposizione resa in dibattimento’ (vedi pag. 4 del ricorso).
Le insanabili incongruenze ed illogicità che connotano le asserzioni della persona offesa sarebbero, peraltro, inequivocabilmente emerse già nel corso dell’esame dibattimentale allorquando il Presidente del Collegio avrebbe ricordato più volte al COGNOME l’obbligo di dire la verità ed apostrofato il teste come ‘non
verosimile’. La sostanziale reticenza del dichiarante sarebbe desumibile anche dalla ‘ crescente ed incalzante proposizione di contestazioni da parte del Pubblico ministero che definisce il teste a tratti incomprensibile ‘ (vedi pag. 3 del ricorso) e da quanto riferito dallo stesso rappresentante della Pubblica Accusa nel corso della sua requisitoria in ordine alle imprecisioni contenute nel narrato del COGNOME.
Con il secondo motivo di impugnazione viene dedotta violazione dell’art. 393 cod. pen. e vizio di motivazione in ordine alla mancata riqualificazione del fatto nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
La motivazione si porrebbe in contrasto con il principio di diritto secondo cui i reati di estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni si distinguono esclusivamente sul piano dell’elemento soggettivo, potendosi configurare il reato di cui all’art. 629 cod. pen. solo laddove l’agente tenda al conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
Il percorso argomentativo sarebbe manifestamente illogico nella parte in cui i giudici di merito affermano che la pretesa economica del COGNOME non sarebbe tutelabile in sede giudiziaria senza tenere conto che il reato di cui all’art. 393 cod. pen. sarebbe configurabile ogniqualvolta l’autore della condotta violenta o minatoria agisca nella convinzione di esercitare un preteso diritto, a prescindere dal fatto che tale convincimento abbia o meno un reale fondamento giuridico.
Il COGNOME avrebbe agito con la specifica convinzione di tutelare l’interesse del COGNOME ad ottenere la restituzione della somma di denaro dallo stesso consegnata al COGNOME al fine di avviare una pratica di finanziamento, che, a dire della difesa, non sarebbe stato ottenuto dal COGNOME in ragione delle condotte truffaldine del COGNOME.
Il COGNOME, quindi, si sarebbe determinato a chiedere la restituzione della somma consegnata al COGNOME con l’aiuto del COGNOME, il quale non avrebbe agito per scopi o interessi ulteriori rispetto a quanto rappresentatogli dall’odierno coimputato.
Il percorso argomentativo sarebbe, altresì, erroneo allorquando i giudici di merito hanno ritenuto che le reiterate minacce l’uso e della violenza fisica, avrebbero comportato il superamento dei limiti relativi all’esercizio di un diritto, dovendosi ribadire in proposito che l’intensità e la particolare gravità della condotta minatoria o violenta non può assumersi come elemento distintivo della fattispecie di cui all’art. 393 cod. pen. rispetto al delitto di estorsione.
NOME COGNOME con il primo motivo di ricorso, eccepisce violazione degli artt. 629 e 393 cod. pen. nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di
estorsione ed al rigetto della richiesta di riqualificazione del fatto nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
6.1. È stato evidenziato che il COGNOME ed il COGNOME avrebbero stretto un accordo assolutamente lecito che prevedeva l’ottenimento di un finanziamento a fronte del versamento di una somma di denaro in favore del COGNOME, soggetto che si professava intermediatore finanziario.
A fronte del mancato ottenimento del finanziamento, il COGNOME avrebbe agito al solo fine di recuperare il denaro consegnato al COGNOME, nella convinzione di esercitare un preteso diritto secondo quello che è lo schema tipico della fattispecie di cui all’art. 393 cod. pen., a nulla rilevando le modalità della condotta per l’individuazione della fattispecie di reato di riferimento.
La Corte territoriale, per rigettare la richiesta di riqualificazione avanzata dall’appellante, avrebbe utilizzato argomenti illogici e disancorati dalla corretta applicazione dei principi di diritti elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di distinzione tra la fattispecie di estorsione e quella di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
6.2. Il COGNOME, peraltro, avrebbe escluso che il COGNOME lo abbia mai minacciato o percosso con conseguente insussistenza di condotte idonee a perfezionare il concorso del ricorrente nel reato di estorsione, non essendo sicuramente sufficiente la mera presenza del ricorrente in occasione della richiesta di restituzione avanzata dal COGNOME.
Con il secondo motivo, il COGNOME lamenta violazione degli artt. 629 cod. pen e 533 cod. proc. pen. nonché contraddittorietà della motivazione in ordine alla penale responsabilità ed alla valutazione dell’attendibilità della persona offesa.
La Corte territoriale avrebbe fondato la condanna esclusivamente sulle dichiarazioni rese dal COGNOME senza procedere al necessario vaglio dell’attendibilità della persona offesa; i giudici di appello non avrebbero indicato le emergenze processuali da cui desumere l’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle sue dichiarazioni, dichiarazioni che, a giudizio della difesa, sarebbero contraddittorie, incoerenti e prive di precisi riferimenti spazio-temporali.
È stato, inoltre, evidenziata la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui i giudici di appello, dopo aver ritenuto attendibile il COGNOME non hanno considerato le dichiarazioni di quest’ultimo favorevoli al COGNOME preferendo fondare la condanna sulle dichiarazioni parzialmente confessorie rese dagli imputati nella fase cautelare.
La Corte distrettuale, infine, non si sarebbe confrontata con le dichiarazioni con cui i testi NOME COGNOME e COGNOME hanno affermato che il COGNOME era soggetto conosciuto come intermediatore finanziario con conseguente legittimo affidamento degli imputati in ordine all’effettivo svolgimento di tale attività professionale
Con il terzo motivo di impugnazione si deduce violazione degli artt. 628, comma terzo, n. 1 e 59, comma secondo, cod. pen. nonché mancanza di motivazione in ordine al motivo di appello con cui era stata chiesta l’esclusione dell’aggravante dell’uso dell’arma e delle persone riunite.
La difesa ha evidenziato, in particolare, che il COGNOME non sarebbe stato presente nell’occasione in cui il COGNOME ed il COGNOME avrebbero utilizzato un’arma per minacciare il COGNOME con conseguente erronea applicazione dell’art. 59 cod. pen., stante l’assenza di elementi probatori da cui desumere che il ricorrente fosse a conoscenza dell’esistenza e dell’utilizzo di un’arma da parte dei correi.
È stato, inoltre, affermato che la presenza del COGNOME, giudicata passiva dagli stessi giudici di merito, non poteva avere alcun effetto maggiormente intimidatorio sulla persona offesa.
La motivazione sarebbe, in conclusione, apparente ed apodittica in relazione all’aggravante delle persone riunite nonché del tutto assente rispetto all’utilizzo dell’arma da parte del ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo dedotto da NOME COGNOME il secondo motivo dedotto da NOME COGNOME ed il primo motivo proposto da NOME COGNOME che possono essere trattati congiuntamente avendo tutti ad oggetto la mancata riqualificazione del fatto nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sono al contempo aspecifici e manifestamente infondati.
1.1. Dall’applicazione dei principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, che escludono la sussistenza del reato di esercizio delle proprie ragioni laddove la condotta non sia fondata su una legittima pretesa creditoria perché priva di giuridica legittimazione (cfr. Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. – 01), discende la correttezza della decisione con cui la Corte territoriale ha escluso la riconducibilità delle condotte descritte nel capo di imputazione al meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con conseguente inesistenza della lamentata violazione di legge.
Entrambe le sentenze hanno evidenziato, con motivazione congrua e priva di vizi logici, come sia rimasto indimostrato che le pretese dal COGNOME fossero tutelabili in sede civilistica; è stata rimarcata, in proposito, la mancanza di elementi
da cui desumere che il COGNOME vantasse la titolarità di un diritto alla dazione di tali somme, aldilà delle mere affermazioni labiali degli imputati, dichiarazioni del tutto incompatibili con quanto narrato in modo attendibile e coerente dalla persona offesa (cfr. pagine da 17 a 21 della sentenza di primo grado e pagine 4 e 5 della sentenza di appello).
Alla mancanza di riscontri alle dichiarazioni rese dagli imputati in ordine all’esistenza di un diritto di credito da parte del COGNOME, va aggiunto che le particolari modalità della condotta violenta e minatoria attuata dai ricorrenti, l’assenza di elementi da cui dedurre la non veridicità di quanto affermato dal COGNOME e la mancanza di alcun interesse economico a fondamento delle sue accuse, desumibile anche dal fatto che la persona offesa non si è costituita parte civile nel presente giudizio, costituiscono elementi probatori idonei a dimostrare che gli imputati non abbiano agito per conseguire un’utilità che spettava al COGNOME, ma per ottenere un profitto ingiusto nella consapevolezza di non averne diritto.
1.2. I giudici di appello, con percorso argomentativo esente da vizi logici, che richiama quanto già affermato dal primo giudice, hanno correttamente rimarcato che, pur volendo dare credito alle dichiarazioni rese dagli imputati secondo cui ‘il COGNOME sarebbe un truffatore che per ottenere un finanziamento utilizza delle buste paga false’ (vedi pag. 4 della sentenza oggetto di ricorso e pagg. 19 e 20 della sentenza di primo grado) la pretesa del COGNOME non sarebbe tutelabile in sede civile in quanto fondata su un accordo illecito volto ad ottenere un finanziamento con modalità truffaldine. La pretesa così azionata, chiaramente caratterizzata da una causa illecita, non avrebbe mai potuto essere fatta valere davanti ad un giudice, per ottenere un adempimento forzato o coattivo della prestazione.
La Corte di merito ha, dunque, fatto buon governo del principio di diritto, che qui si intende ribadire, secondo il quale ricorre il delitto di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando la minaccia sia realizzata per raggiungere un ingiusto profitto derivante da una pretesa contra ius , atteso che l’illiceità della pretesa azionata non consentirebbe di accedere alla tutela giudiziaria (Sez. 2, n. 9931 del 01/12/2014, COGNOME, Rv. 262566-01; Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967 – 02; Sez. 2, n. 3498 del 30/11/2018, D., Rv. 274897-01; Sez. 2, n. 901 del 29/11/2023, COGNOME, non massimata).
1.3. I giudici di appello hanno, infine, correttamente affermato che la condotta descritta dalla persona offesa non potrebbe in ogni caso perfezionare il meno grave reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in quanto le condotte minacciose sono state esercitate non solo nei confronti del COGNOME ma anche nei
confronti di soggetti a lui legati da vincolo di parentela (vedi pag. 5 della sentenza di appello). La replica contenuta nel ricorso si limita a negare tali circostanze, contro l’evidenza della loro sussistenza, per come emerge dalle risultanze processuali.
La Corte territoriale ha fatto, pertanto, corretto uso del principio di diritto secondo cui non è configurabile il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ogni volta che le minacce siano dirette verso soggetti diversi dal presunto debitore. L’inclusione nell’azione violenta o minatoria di persone estranee al sinallagma contrattuale esprime una volontà coercitiva di singolare intensità che esonda dal rapporto creditorio. La riconducibilità della condotta alla fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen. richiede che la condotta illecita resti circoscritta nel perimetro del rapporto contrattuale, mentre il coinvolgimento di soggetti terzi esclude, a priori, che possa essere invocato l’inquadramento più favorevole (vedi Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, Rv. 267123-01; Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, COGNOME, Rv. 272017 – 01).
Il primo motivo dedotto NOME COGNOME ed il secondo motivo proposto da NOME COGNOME sono aspecifici e non consentiti in sede di legittimità in quanto meramente reiterativi di censure fattuali, già adeguatamente disattese dalla Corte territoriale con argomentazioni esaustive ed articolate.
Deve essere, preliminarmente, rimarcato che si è in presenza di una c.d. doppia conforme con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stato rispettato sia il parametro del richiamo da parte della sentenza d’appello a quella del primo giudice sia l’ulteriore parametro costituito dal fatto che entrambe le decisioni adottano i medesimi criteri nella valutazione delle prove (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595, Sez. 2, n. 6560 del 08/10/2020, COGNOME, Rv. 280654 – 01; da ultimo Sez. 2, n. 38963 del 25/05/2023, Arcidiacono, non massimata).
È, infatti, giurisprudenza pacifica di questa Corte che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico- giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, COGNOME, Rv. 191229; Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, COGNOME, Rv. 276062, in motivazione; Sez. 2, n. 29007 del 09/10/2020, Casamonica, non mass.).
Va, inoltre, ricordato che non è compito del giudice di legittimità stabilire se la decisione di merito proponga o meno la migliore ricostruzione dei fatti né condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia, come nel caso di specie, compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.
La Corte di Cassazione, che è giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, non può, infatti, divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio, riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l’apprezzamento della logicità della motivazione (vedi Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, COGNOME, dep. 2021, Rv. 280601 – 01; Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747 – 01).
2.1. Ciò premesso deve essere affermato che la versione dei fatti offerta da NOME COGNOME risulta essere stata valutata dai giudici di merito in maniera logica, congrua e lineare, anche in considerazione della portata dei rimanenti elementi di prova che non hanno evidenziato alcun profilo di contrasto significativo con le dichiarazioni rese dalla persona offesa né alcun interesse all’accusa da parte del COGNOME (vedi pagine da 8 a 13 della sentenza di primo grado e pagine 3 e 4 della sentenza impugnata).
L’iter argomentativo appare esente da vizi logici, fondandosi su di una compiuta e logica analisi critica delle dichiarazioni del COGNOME in un organico quadro interpretativo, alla luce del quale appare dotata di adeguata plausibilità logica e giuridica l’attribuzione a detti elementi del requisito della gravità, univocità e coerenza, in quanto conducenti all’affermazione di piena credibilità delle asserzioni della persona offesa.
2.2. I giudici di appello hanno affermato la piena attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa in ordine al nucleo essenziale del thema probandum, non assumendo alcuna decisività le contraddizioni lamentate dalla difesa.
I giudici di merito hanno, in particolare, affermato che il solo fatto che le dichiarazioni rese dalla persona offesa presentino fra loro divergenze e discrasie non è elemento di per sé idoneo a metterne in dubbio l’attendibilità intrinseca, allorquando, come nel caso di specie, attengano ad elementi di natura circostanziale e venga adeguatamente verificata la concordanza sul nucleo essenziale del narrato.
2.3. Deve essere ribadito, in proposito, che le Sezioni Unite hanno affermato che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale
fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214; Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01), evenienza, quest’ultima, non ravvisabile nel caso di specie in quanto il percorso motivazionale in esame risulta fondato su argomentazioni prive di vizi logico-giuridici.
La testimonianza della persona offesa, al pari di qualsiasi altra testimonianza, è sorretta da una presunzione di veridicità secondo la quale il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso, salvo che sussistano specifici elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere, in assenza dei quali egli deve presumere che il dichiarante, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza (vedi Sez. 6, n. 3041 del 03/10/2017, Giro, Rv. 272152 – 01).
L’impostazione della motivazione impugnata è rispettosa della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le dichiarazioni della parte offesa possono essere legittimamente poste da sole a base dell’affermazione di penale responsabilità, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva e dell’attendibilità intrinseca del racconto, con un vaglio dell’attendibilità del dichiarante più penetrante e rigoroso rispetto a quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, di talché tale deposizione può essere assunta da sola come fonte di prova unicamente se venga sottoposta a detto riscontro di credibilità (Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312-01; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018, COGNOME, Rv. 274489-01).
Tuttavia -ed è proprio quello che il Tribunale ha fatto, a differenza di quanto apoditticamente affermato dalla difesapuò essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi. Nel caso di specie i giudici di merito, con motivazione esaustiva, articolata e fondata in modo logico sulle risultanze istruttorie, hanno indicato e adeguatamente valutato le prove (tra cui le dichiarazioni parzialmente confessorie rese dagli imputati, dichiarazioni rese dalla testimone NOME COGNOME) che hanno fornito pieno riscontro alle dichiarazioni accusatorie del COGNOME (vedi pagine da 9 a 17 della sentenza di primo grado e pagine 3 e 4 della sentenza di appello).
2.4. I giudici di appello, con motivazione esaustiva e conforme alle risultanze processuali, che riprende le argomentazioni del giudice di primo grado come è fisiologico in presenza di una doppia conforme, hanno indicato la pluralità di elementi idonei a dimostrare la penale responsabilità dei ricorrenti; tale
ricostruzione, in nessun modo censurabile sotto il profilo della completezza e della razionalità, è fondata su apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede.
I ricorrenti obliterano le argomentazioni dei giudici di merito in ordine alla completezza ed attendibilità delle propalazioni della persona offesa e dell’univoca portata accusatoria dell’intero compendio probatorio, senza confrontarsi adeguatamente con il percorso argomentativo seguito nelle due sentenze in proposito conformi e proponendo una versione alternativa dei fatti non perseguibile in sede di legittimità.
2.5. Le ulteriori doglianze con cui il COGNOME afferma che la Corte territoriale avrebbe ignorato, senza indicarne le ragioni, le dichiarazioni dei testi COGNOME e COGNOME in ordine al ‘legittimo affidamento che terzi ponevano rispetto alla sua attività di mediazione finanziaria’ (vedi pag. 7 del ricorso) appaiono generiche e manifestamente infondate.
Questo Collegio condivide il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini della deducibilità in cassazione del vizio di travisamento della prova che si risolve nella omessa valutazione di una prova esistente agli atti, è necessario che il ricorrente prospetti la decisività dell’omissione nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica in modo da evidenziare come la prova ritenuta contraria avrebbe scardinato ed inficiato il ragionamento del giudice (Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, COGNOME, Rv. 280117 01, Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085 – 01).
Il ricorrente non può limitarsi, come nel caso di specie, ad addurre l’esistenza di prove non esplicitamente prese in considerazione ovvero non adeguatamente interpretate dal giudicante ma deve, invece, indicare le ragioni per cui l’atto compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato, onere di specificazione che è stato del tutto ignorato dal ricorrente.
2.6. Allo stesso modo è destituita di fondamento l’affermazione contenuta nel ricorso del COGNOME secondo cui la motivazione sarebbe contraddittoria in quanto le dichiarazioni con cui la persona offesa, ritenuta pienamente attendibile dai giudici di merito, riferiva la mancata partecipazione del COGNOME alle condotte minatorie del COGNOME non sarebbero state utilizzate a favore del ricorrente.
Deve essere rimarcato, in proposito, che i giudici di merito hanno correttamente ricostruito la vicenda, precisando che, come espressamente riferito dal COGNOME e confermato dal COGNOME, il COGNOME avrebbe schiaffeggiato la
persona offesa nel corso dell’aggressione avvenuta nei pressi di San Francesco di Paola e fornito il proprio apporto causale alla coartazione della volontà del COGNOME (vedi pag. 4 della sentenza oggetto di ricorso e pagg. 6 e 7 della sentenza di primo grado).
Il giudizio espresso nella doppia decisione conforme non presenta aspetti di illogicità o contraddittorietà, posto che il tenore delle prove valutate in motivazione consente di affermare la correttezza della valutazione dei giudici di merito che hanno ritenuto provato il ruolo del COGNOME nella commissione del reato di estorsione.
A fronte di tale compendio ricostruttivo, che si salda coerentemente con quello proposto dalla sentenza di primo grado, il motivo di ricorso è palesemente diretto a contestare, attraverso una lettura parcellizzata della motivazione, la rilevanza probatoria dei singoli dati probatori così proponendo una loro lettura alternativa che, collocandosi nella sfera degli apprezzamenti di merito, esula dal perimetro cognitivo del giudizio di legittimità.
Il secondo motivo dedotto da NOME COGNOME è manifestamente infondato.
I giudici di merito hanno correttamente applicato il disposto dell’art. 69, comma quarto, cod. pen. nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen. (vedi pag. 5 della sentenza impugnata).
Deve essere evidenziato che detto divieto è formulato in modo generale e assoluto, sicché si applica sia per le attenuanti comuni sia per le attenuanti generiche ogniqualvolta il giudice di merito ritenga, come nel caso di specie, applicabile la recidiva reiterata. Ne consegue la manifesta infondatezza delle censure difensive inerenti all’eccepita carenza di valutazione delle circostanze logico-fattuali che avrebbero giustificato una maggiore mitigazione della pena.
Il terzo motivo dedotto da NOME COGNOME è in parte aspecifico ed in parte dedotto in carenza di interesse.
4.1. I giudici di appello, con motivazione priva di illogicità e conforme alle prove raccolte, hanno ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, cod. pen. in considerazione del fatto che la presenza degli imputati COGNOME e COGNOME avvicendatisi in occasione delle plurime condotte minatorie perpetrate dal COGNOME, ha incrementato in modo significativo l’effetto intimidatorio delle minacce di cui è stato vittima il COGNOME (vedi pag. 5 della sentenza di primo grado e pag. 3 della sentenza di appello).
La Corte territoriale, invero, ha fatto buon uso del principio di diritto pacificamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui la contestata aggravante è integrata ogniqualvolta sia accertata la contestuale presenza, nel momento della violenza o della minaccia, di almeno due persone pur se la condotta sia attuata da uno soltanto di essi (vedi in tal senso Sez. 2, n. 8324 del 04/02/2022, COGNOME, Rv. 282785 – 01, Sez. 2, n. 21988 del 30/01/2019, COGNOME, Rv. 276116 – 01),
Né può giovare al ricorrente la deduzione difensiva secondo cui il COGNOME non avrebbe esercitato alcuna condotta violenta o minatoria in danno della persona offesa, atteso che, ai fini dell’esistenza dell’aggravante in parola, è necessaria la simultanea, effettiva presenza delle più persone nel luogo in cui la violenza e la minaccia si realizzano ed è del tutto irrilevante che il fatto venga commesso materialmente da una sola persona, qualora l’altra si trovi a breve distanza e così contribuisca con la sua presenza alla realizzazione del crimine (vedi Sez. 2, n. 33210 del 15/06/2021, COGNOME, Rv. 281916).
4.2. L’ulteriore doglianza con cui il ricorrente eccepisce la carenza di motivazione in ordine alla sussistenza della circostanza dell’uso dell’arma è dedotta in carenza di interesse.
La Corte di merito, pur investita della doglianza in punto di sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 1, cod. pen., non ha invero provveduto, non risultando dalla sentenza alcuna motivazione al riguardo; questa constatazione, tuttavia, deve esser letta in relazione al contenuto dell’odierno motivo di ricorso.
Preliminarmente il Collegio intende ribadire che, oltre alla legittimazione astratta alla proposizione del ricorso per cassazione, deve sempre sussistere un concreto interesse all’impugnazione, previsto dalle norme di carattere generale del libro IX sulle impugnazioni e nel Titolo I sulle «disposizioni generali», quale requisito necessario per tutte le impugnazioni. L’impugnazione, pertanto, può essere proposta solamente nel caso in cui la riforma della decisione gravata renda possibile il conseguimento di un risultato giuridicamente favorevole al ricorrente. L’interesse richiesto dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. deve essere, infatti, attuale e concreto, e cioè mirare a rimuovere l’effettivo pregiudizio che la parte asserisce di aver subito con il provvedimento impugnato. Esso, pertanto, deve persistere sino al momento della decisione e sussiste soltanto se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione immediata più vantaggiosa rispetto a quella esistente.
Le Sezioni Unite hanno chiarito che, nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare va individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo (Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 17/02/2012, COGNOME Rv. 251693; Sez. 1, n. 8763 del 25/11/2016, COGNOME, Rv. 269199 – 01).
Tali caratteristiche mancano nel caso in esame, visto che l’imputato non otterrebbe alcun vantaggio dall’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla sussistenza dell’aggravante dell’uso dell’arma; deve essere, in proposito, rimarcato che, in considerazione del riconoscimento della recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale e del conseguente divieto di prevalenza delle ritenute attenuanti generiche di cui all’art. 69, comma quarto, cod. pen., anche laddove, in un eventuale giudizio di rinvio, venisse esclusa l’aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 1, cod. pen., non ne deriverebbe alcuna modifica del trattamento sanzionatorio né alcun altro effetto favorevole per il ricorrente.
Per di più, nel caso di specie, la pena è stata determinata partendo da una pena base pari al minimo edittale di cinque anni, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva reiterata. L’aggravante, quindi, non ha neppure esercitato alcuna influenza sulla determinazione della pena base secondo i criteri fissati dall’art. 133 cod. pen. e quindi sul punto, essendo la pena insuscettibile di ulteriore riduzione, appare insussistente un concreto interesse del ricorrente all’accoglimento del motivo di ricorso.
All’inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila ciascuno, così equitativamente fissata.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 2 aprile 2025