Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 10974 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 10974 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 22/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Vibo Valentia il giorno 23/3/1977 rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
COGNOME MassimoCOGNOME nato a Rende il giorno 5.1.1949 rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
avverso la sentenza in data 23/4/2024 della Corte di Appello di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
preso atto che è stata richiesta la trattazione orale del procedimento;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità dei ricorsi;
udito il difensore della parte civile NOME COGNOME avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi riportandosi alle conclusioni scritte depositate unitamente alla nota spese per il presente grado di giudizio della quale ha chiesto la liquidazione;
udito il difensore degli imputati, avv. NOME COGNOME che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso dei quali ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 23 aprile 2024 la Corte di Appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza in data 16 novembre 2021 del Tribunale di Cosenza, appellata dal Pubblico Ministero e dalla parte civile NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME oltre che dagli stessi imputati, ha:
affermato la penale responsabilità di NOME COGNOME in relazione al reato di estorsione continuata (artt. 81, 629 cod. pen.) ai danni di NOME COGNOME (capo A della rubrica delle imputazioni) e riconosciute allo stesso le circostanze attenuanti generiche, ritenuta la continuazione con il reato di cui al capo B, lo ha condannato a pena ritenuta di giustizia oltre al risarcimento del danno in favore della predetta persona offesa costituita parte civile da liquidarsi nella relativa sede;
confermato l’affermazione della penale responsabilità di NOME COGNOME e di NOME COGNOME in relazione al reato di concorso in truffa aggravata (artt. 110 e 640, comma 2, n. 1, cod. pen.) ai danni dell’INPS di Cosenza.
In estrema sintesi si contesta:
a NOME COGNOME quale titolare ed amministratore unico della società RAGIONE_SOCIALE e datore di lavoro di NOME COGNOME di avere costretto quest’ultima, mediante minacce, un compenso mensile di euro 500,00 inferiore a quello indicato nella bista paga e regolarmente accreditato alla COGNOME, facendosi poi consegnare dalla stessa in contanti la differenza tra la somma bonificata ed i circa 500,00 trattenuti dalla lavoratrice, così procurandosi l’ingiusto profitto di euro 9.300,00;
ad entrambi gli imputati – NOME COGNOME nella qualità sopra indicata e NOME COGNOME quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE Cosentina – di avere indotto l’INPS di Cosenza in errore, con artifizi e raggiri consistiti nell’assumere formalmente NOME COGNOME con contratto a tempo indeterminato dal 2 giugno 2015 al 18 novembre 2016 presso la RAGIONE_SOCIALE, facendo tuttavia lavorare la predetta presso l’indicata cooperativa RAGIONE_SOCIALE, in tal modo ottenendo ai sensi di legge sgravi contributivi a favore della RAGIONE_SOCIALE con danno dell’INPS.
Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza e con atto unico il difensore degli imputati, deducendo:
2.1. Nullità della sentenza impugnata per contraddittorietà ed illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606, lett d) [in realtà sembrerebbe lett. “e” – ndr. cod. proc. pen. in relazione al reato di cui al capo A della rubrica delle imputazioni.
Rileva al riguardo la difesa del ricorrente NOME COGNOME con riguardo alla contestazione di estorsione di cui al capo A della rubrica delle imputazioni, che la vicenda di cui è processo non è comparabile a quelle nelle quali i datori di lavoro
si fanno firmare lettere in bianco di licenziamento da utilizzare poi al momento opportuno come arma di pressione psicologica sui lavoratori.
Nel caso in esame nulla di tutto ciò si sarebbe verificato ed anzi più volte il COGNOME avrebbe ribadito alla COGNOME la sua assoluta contrarietà alla risoluzione del contratto di lavoro tramite il licenziamento quando la stessa esternava le sue lamentele per la corresponsione in ritardo delle mensilità retributive.
Prosegue, poi, la difesa del ricorrente evidenziando che dall’istruttoria dibattimentale non è emersa alcuna prova della sussistenza di un rapporto conflittuale tra il datore di lavoro e la lavoratrice. Dai messaggi prodotti da Pubblico Ministero e dagli SMS acquisiti agli atti su richiesta della difesa, al contrario, si evincerebbero l’assoluta cordialità e serenità dei rapporti tra la persona offesa e l’imputato, con addirittura scambi di auguri per le festività, elementi questi stridenti con la tesi accusatoria che descrive un clima intimidatorio e di coartazione psicologica a cui sarebbe stata costretta la COGNOME.
Prosegue, ancora, la difesa di NOME COGNOME evidenziando che il giudice di appello si sarebbe limitato a considerare unicamente le risultanze probatorie a carico dell’imputato ignorando totalmente gli aspetti favorevoli al ricorrente e che nel caso in esame mancherebbe totalmente l’elemento costitutivo del reato di estorsione consistente nella minaccia o nella violenza.
A ciò si aggiunge che la persona offesa ha riferito di non aver mai ricevuto alcuna minaccia di licenziamento dall’imputato e, nonostante ciò, in contraddizione tra loro, il Tribunale e la Corte di appello avrebbero interpretato in maniera contrapposta le medesime dichiarazioni rese dalla persona offesa, dichiarazioni che, come detto, hanno fatto esclusivo riferimento alle lamentele avanzate nei confronti del datore di lavoro per la corresponsione in ritardo delle mensilità di stipendio (situazione ammessa dall’imputato) ma che non sono mai consistite in minacce.
La COGNOME, a sua volta avrebbe reso dichiarazioni contraddittorie che pertanto la portano a ritenere teste inattendibile, da un lato affermando che l’imputato non le aveva mai minacciato il licenziamento qualora non avesse restituito parte dello stipendio e dall’altro, solo su domanda del proprio difensore, ha affermato il contrario.
La persona offesa non sarebbe, poi, un teste neutrale vantando pretese risarcitorie nei confronti dell’imputato e altrettanto è a dirsi delle dichiarazioni d teste NOME COGNOME, fidanzato della persona offesa, il quale sarebbe incorso in contraddizioni allorquando ha riferito di un incontro avvenuto nell’agosto del 2016 nei pressi di un esercizio commerciale posto su di una strada che attraversa il Comune di Paola.
A ciò si aggiunge che l’assenza di contrasti o di timore della COGNOME nei confronti di NOME COGNOME sarebbe desumibile dal fatto che la persona offesa quando nel dicembre del 2016 cessò il proprio lavoro ai danni della RAGIONE_SOCIALE decideva di continuare a svolgere le proprie mansioni lavorative nella medesima sede ancorché cambiando il datore di lavoro (NOME COGNOME anziché NOME COGNOME).
Anche alla luce dei contrasti di valutazioni tra il Tribunale e la Corte di appello sulla attendibilità della persona offesa, la cui valutazione avrebbe dovuto tener conto del fatto che la stessa è portatrice di un interesse antagonista a quello dell’imputato, non potrebbe quindi ritenersi raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio la prova della sussistenza del reato di estorsione.
Né le dichiarazioni della persona offesa, che si è determinata a presentare la denuncia nei confronti dell’imputato solo all’esito della procedura di conciliazione sindacale con la RAGIONE_SOCIALE, potrebbero ritenersi riscontrate dalla presenza sull’estratto di conto corrente di prelievi di denaro effettuati dalla stessa in quant trattasi di elemento che non dimostra che il denaro prelevato fu restituito all’imputato.
2.2. Nullità della sentenza impugnata per contraddittorietà ed illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606, lett d) [in realtà sembrerebbe anche in questo caso lett. “e” – ndr.) cod. proc. pen. in relazione al reato di cui al capo B dell rubrica delle imputazioni.
Evidenzia, al riguardo, la difesa di entrambi i ricorrenti che l’assunto accusatorio si fonderebbe su di una interposizione fittizia che si sarebbe concretizzata con l’assunzione della COGNOME con contratto di lavoro a tempo indeterminato presso la RAGIONE_SOCIALE (amministrata da NOME COGNOME), facendola, invece, lavorare presso la Olivicola Cosentina presieduta da NOME COGNOME, padre del coimputato NOME.
Secondo la difesa dei ricorrenti la decisione dei Giudici di merito sarebbe fondata sull’errato presupposto di aver ritenuto provato il rapporto di lavoro con la RAGIONE_SOCIALE COGNOME per il solo fatto che la stessa non figurava registrata presso la Camera di commercio, con ciò ignorando la convenzione prodotta dalla difesa che attestava il rapporto di collaborazione tra le due società, convenzione esistente da tempo antecedente all’instaurazione del rapporto di lavoro con la COGNOME e per la quale non esisteva alcun obbligo di registrazione.
In sostanza, secondo la difesa dei ricorrenti, vi era una collaborazione diretta tra le due società al punto che gli associati della “RAGIONE_SOCIALE” erano pure clienti della RAGIONE_SOCIALE e per questo le pratiche passavano prima dalla “RAGIONE_SOCIALE” prima di essere smistate presso l’altra società e ciò spiegherebbe le ragioni per la quali la COGNOME era stata distaccata l’associazione presieduta dal padre dell’imputato.
2.3. La difesa dei ricorrenti ha, infine, formulato richiesta e di emissione di sentenza di non luogo a procedere in relazione al reato di cui al capo B della rubrica delle imputazioni per essere lo stesso estinto per intervenuta prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso che attiene alla lamentata affermazione di responsabilità dell’imputato NOME COGNOME in relazione al reato di estorsione ai danni di NOME COGNOME è manifestamente infondato.
Presupposto attorno al quale ruota la fondatezza o meno dell’accusa elevata nei confronti di NOME COGNOME è, indubbiamente, quello relativo alla possibilità di ritenere le dichiarazioni della persona offesa NOME COGNOME, comparate con gli altri elementi emergenti dagli atti, idonee a configurare in punto di diritt il reato di estorsione contestato all’imputato NOME COGNOME.
La questione appare di puro diritto con la conseguenza che non si è proceduto alla rinnovazione della prova dibattimentale e di ciò non si è neppure doluta la difesa del ricorrente.
Rileva, infatti ed al riguardo, l’odierno Collegio che da un attento confronto tra la sentenza di primo grado e quella di appello non esiste un totale contrasto tra la valutazione di attendibilità della persona offesa.
Infatti il Tribunale non ha sostenuto la totale inattendibilità della COGNOME anche indicando riscontri alle dichiarazioni alle dichiarazioni della stessa, quali, in particolare, le dichiarazioni del teste COGNOME e le emergenze dei sistematici prelievi di denaro dal conto corrente bancario della persona offesa) ma ha semplicemente ritenuto non acquisita la prova certa dell’esistenza di una minaccia di licenziamento rivolta dall’imputato alla persona offesa nel caso in cui la stessa si fosse rifiutata di restituirgli larga parte dello stipendio che quindi so formalmente le veniva corrisposto.
Risulta sempre dalla sentenza del Tribunale che l’imputato, dal canto proprio, ha negato di avere richiesto alla COGNOME la restituzione di parte della retribuzione corrisposta alla persona offesa minacciandola di licenziamento, ha ricondotto le lamentele della stessa ai ritardi nel pagamento dello stipendio asseritannente legati a problemi economici della società RAGIONE_SOCIALE ma ha dato comunque atto di aver detto alla persona offesa che se non accettava la situazione in atto avrebbe potuto dimettersi.
A ben guardare dal riassunto delle dichiarazioni della COGNOME nel dettaglio operato nella sentenza del Tribunale risulta che la stessa ha affermato:
a) di aver avuto, dopo l’assunzione presso la RAGIONE_SOCIALE problemi nella corresponsione delle retribuzioni poiché il COGNOME sosteneva che l’azienda
si trovava in crisi di liquidità (situazione quindi collimante con quanto affermato dall’imputato);
b) di avere ricevuto la proposta da parte del COGNOME di continuare a lavorare presso l’azienda a patto che la medesima gli restituisse la quasi totalità dello stipendio in contanti trattenendo solo 500,00 euro;
che il COGNOME le intimò di non fare alcun riferimento telefonico a tale accordo;
che l’alternativa alla mancata accettazione di tale accordo era che lei presentasse le proprie dimissioni non essendo possibile, essendo in vigore un contratto di lavoro a tempo indeterminato, un licenziamento perché lo stesso sarebbe stato all’evidenza annullato per assenza di giusta causa con tutte le conseguenze che le sarebbero derivate;
che ella accettò la proposta in quanto si trovava in una situazione di necessità economica e riceveva le buste paga;
che solo in secondo tempo chiese al COGNOME di trovare una soluzione perché non aveva intenzione di pagare le imposte su di un reddito che di fatto non percepiva e che il COGNOME la rassicurò circa la possibile risoluzione del problema.
Risulta quindi dalla sentenza di primo grado che quanto sopra riportato è il nucleo centrale delle dichiarazioni della COGNOME e che, sul presupposto, da ritenersi comunque accertato, che la COGNOME non riceveva di fatto l’intero ammontare dello stipendio che le sarebbe spettato (o perché non le veniva corrisposto o perché doveva provvedere a restituirne parte all’imputato), il vero punto di discrasia esistente tra la versione fornita dall’imputato e quella fornita dalla persona offesa consiste nella effettuazione o meno di una minaccia di licenziamento, situazione della quale la COGNOME ha comunque parlato nelle proprie dichiarazioni, situazione sulla quale si tornerà a breve.
La Corte di appello, nella sentenza impugnata, risulta avere però debitamente spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto configurabile il reato addebitato all’imputato NOME COGNOME
Dopo avere correttamente ricordato che secondo la giurisprudenza di legittimità «Le dichiarazioni della persona offesa – cui non si applicano le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. – possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto» (Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, COGNOME, Rv. 265104 – 01) la Corte territoriale ha motivatamente espresso un giudizio di piena attendibilità delle dichiarazioni della COGNOME non solo
affermando che la stessa ha reso dichiarazioni coerenti e prive di contraddizioni o esagerazioni e rimarcando che la stessa, pur costituitasi parte civile, non ha manifestato alcuna animosità nei confronti del COGNOME, poi aggiungendo e spiegando dette dichiarazioni hanno trovato riscontro – dopo aver dato correttamente atto che rapporti personali e familiari che legano la persona offesa al testimone – in quelle del teste NOME COGNOME che ha affermato di avere assistito personalmente ad una consegna di denaro dalla COGNOME al COGNOME ed ha confermato di essere a conoscenza del fatto che nel caso in cui la COGNOME non avesse provveduto alla restituzione del denaro al COGNOME, si sarebbe potuta dimettere.
Sempre la Corte territoriale ha poi richiamato, a riscontro delle dichiarazioni della persona offesa, anche la deposizione del teste di P.G. NOME COGNOME che ha avuto modo di esaminare la documentazione bancaria della persona offesa così accertando che la COGNOME mensilmente, nei giorni successivi all’accredito dello stipendio da parte dell’imputato, effettuava prelievi di denaro contante.
Osserva l’odierno Collegio che la sentenza impugnata risulta congruamente motivata proprio sotto i profili dedotti in questa sede dalla difesa del ricorrente e che la motivazione adottata al riguardo non è certo apparente, né “manifestamente” illogica e tantomeno contraddittoria.
Per contro deve osservarsi che parte ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’asseritamente connessa violazione di legge nella valutazione del materiale probatorio, tenta in realtà di sottoporre a questa Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito cercando – legittimamente – di accreditare il più favorevole ragionamento del Tribunale rispetto alle diverse valutazioni alle quale è giunta la Corte di appello nella sentenza qui in esame.
Deve tuttavia essere ricordato che a questa corte di legittimità è infatti preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatt posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenut maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova disciplina introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, è – e resta – giudice della motivazione.
In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le
doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatori del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965).
Parte ricorrente sostanzialmente critica la valutazione di attendibilità del dichiarato della persona offesa e del teste COGNOME ma è appena il caso di ricordare che «In tema di prove, la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, COGNOME, Rv. 257241), vizio, quest’ultimo, non rinvenibile nel caso in esame.
Deve inoltre essere ricordato che nel caso in esame la versione fornita dall’imputato tende a proporre una ricostruzione alternativa a quella operata dalla Corte di appello, ma, in materia di ricorso per Cassazione, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione considerata dall’art. 606 primo comma lett. e) cod. proc. pen., la ricostruzione contrastante con il procedimento argonnentativo del giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto una ipotesi alternativa a quella ritenuta nella sentenza impugnata in sentenza (cfr. con riferimento a massime di esperienza alternative, Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, COGNOME, Rv. 212054) dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non ad elementi meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili (Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, COGNOME, Rv. 259204; Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, Rv. 260409).
Quanto, poi, agli indicati riscontri alle dichiarazioni della persona offesa la difesa del ricorrente ha evidenziato – anche in questo caso richiamando di fatto l’assunto del Tribunale – che la presenfp di prelievi mensili e sistematici di denaro contante dal conto corrente della persona offesa non è di per sé elemento da costituire prova che le somme di denaro prelavate siano poi state versate all’imputato. Rileva tuttavia l’odierno Collegio che trattasi pur sempre di un elemento indiziario tutt’altro che privo di rilevanza e che si inserisce nel quadro, di certo non manifestamente illogico, della valutazione operata dalla Corte di appello. Del resto, se è vero come già sopra ricordato che in tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta
per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggetti del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto deve anche essere ricordato che, qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione (in tal senso v. Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 – 01).
Né, infine, sembra presentare decisiva rilevanza ai fini della rilevazione di un vizio di illogicità nella motivazione della sentenza impugnata la circostanza che, nonostante la situazione descritta, la persona offesa abbia comunque continuato ad avere rapporti sostanzialmente cordiali con l’imputato NOME COGNOME ed abbia proseguito la propria attività lavorativa con un una associazione allo stesso collegata e gestita dal di lui padre, perché ciò appare inserirsi, come osservato dalla Corte di appello, in un atteggiamento della COGNOME caratterizzato dall’assenza di alcuna animosità nei confronti del COGNOME al punto da rendere dichiarazioni denotanti «un certo riserbo e prudenza … non inquinate da profondi risentimenti» il che, come detto ne ha alimentato la valutazione di attendibilità.
In conclusione, nel complesso, pertanto, la decisione impugnata trova sostegno in un solido apparato argomentativo, giuridicamente corretto e immune da palesi vizi logici e giuridici. Si è, infatti, in presenza di elementi di fatto di s valore sintomatico, non elisi o efficacemente contrastati da elementi di segno opposto, coerentemente e congruamente valorizzati dalla Corte di appello in ossequio alla norma generale espressa dall’art. 192 cod. proc. pen., comma 1, che è quella del libero convincimento, inteso come libertà di valutare gli elementi probatori, con il limite, qui rispettato, di dare conto dei criteri adottati.
Così chiarite le ragioni per la quali questa Corte di legittimità non ritiene d riscontrare vizi di motivazione della sentenza impugnata, l’attenzione si deve ora rivolgere alle questioni di diritto il nucleo delle quali consiste nel verificare se ne condotta dell’imputato possa ravvisarsi una minaccia idonea ad integrare il contestato reato di estorsione.
Si è già detto che può ritenersi provato alla luce della decisione delle sentenze che la COGNOME (o per mancata reale corresponsione delle somme a lei erogate o per restituzione delle stesse all’imputato), in presenza di un formale stipendio mensile (lordo) di 1.533,48 euro, alla fine aveva la possibilità di avere per sé solo 500,00 euro, somma pacificamente incongrua in relazione all’attività lavorativa prestata.
Non v’è dubbio che in caso di prospettazione di licenziamento qualora non avesse accettato tale situazione certamente sarebbe ravvisabile il reato di estorsione.
Questa Corte di legittimità ha, infatti, costantemente chiarito che «Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con minacce larvate di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alla prestazioni effettuate» (ex ceteris: Sez. 2, n. 3724 del 29/10/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282521 – 01; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 261553 – 01).
Ritiene, peraltro, l’odierno Collegio che se anche si volesse dare per assodato che nel caso in esame non è stata raggiunta la prova certa della minaccia di licenziamento da parte del datore di lavoro ma solo del fatto che lo stesso ebbe a prospettare alla lavoratrice che, o accettava le condizioni imposte relative al trattamento retributivo o avrebbe potuto dimettersi (così di fatto comunque perdendo il lavoro), le due situazioni solo sul piano concreto assimilabili e non consentono di escludere la configurabilità del reato di estorsione.
In punto di diritto, va premesso che l’oggetto della tutela giuridica nel reato di estorsione è duplice, nel senso che la norma persegue l’interesse pubblico all’inviolabilità del patrimonio e, nel contempo, alla libertà di autodeterminazione.
L’evento finale della disposizione patrimoniale lesiva del patrimonio, proviene, infatti, dalla stessa vittima ed è il risultato di una situazione di costrizi determinata dalla violenza o dalla minaccia del soggetto agente.
In particolare, il potere di autodeterminazione della vittima non è completamente annullato, ma è, tuttavia, limitato in maniera considerevole: in altri termini, il soggetto passivo dell’estorsione è posto nell’alternativa dì f conseguire all’agente il vantaggio economico voluto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato (tamen coactus, voluit).
In questa prospettiva, anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà; in tal caso, l’ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente, diventa ingiusto per il fine cui è diretto.
Allo stesso modo, la prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione, pur quando si persegua un giusto profitto e l’accordo concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia (cfr., Sez. 2, n. 1071 del 05/03/1992, COGNOME, Rv. 189950 – 01): ciò, in
quanto, la nota pregnante del delitto di estorsione consiste nel mettere la persona oggetto di violenza o minacciata in condizioni di tale soggezione e dipendenza da non consentirle, senza un apprezzabile sacrificio della sua autonomia decisionale, alternative meno drastiche di quelle alle quali la stessa si considera costretta (cfr., Sez. 2, n. 13043 del 07/11/2000, Sala, Rv. 217508).
Si spiega così perché la “minaccia”, da cui consegue la coazione della persona offesa, possa presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta o orale, determinata o indeterminata, e finanche assumere la forma – come nel caso qui in esame – di semplice esortazione e di consiglio.
Ciò che rileva, al di là delle forme esteriori della condotta, è, infatti, il propos voluto dal soggetto agente, inteso a perseguire un ingiusto profitto con altrui danno, nonché l’idoneità del mezzo adoperato alla coartazione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente.
Orbene, ritiene il Collegio che le osservazioni del Tribunale fatte proprie dalla difesa dell’imputato ma correttamente disattese dalla Corte di appello, non scalfiscano in alcun modo la valenza motivazionale della decisione impugnata, la quale sostanzialmente si fonda sul principale rilievo dell’irrilevanza del formale accordo tra il datore di lavoro e la lavoratrice, allorché questo risult strumentalizzato al perseguimento di un ingiusto profitto esclusivamente a carico del primo e con danno della seconda.
Invero, nella sentenza impugnata viene tracciato, in maniera logica ed esaustiva, un quadro globale della posizione della COGNOME, in ragione non solo delle difficoltà economiche della stessa ma anche delle condizioni di mercato che comportarono l’inizio del rapporto di lavoro solo per il tramite di un bando regionale, l’assenza di alternative lavorative, le prospettate speranze di regolarizzazione del rapporto di lavoro e la necessità di riottenere le somme versate (o non percepite) in favore del datore di lavoro, si da determinare la persona offesa a sottostare alla richiesta, ingiusta e illegittima formulata dall’imputato, paventando come unica alternativa “la possibilità di dimettersi” così di fatto compromettendo – al fine di ottenere un ingiusto profitto economico con pari danno della persona offesa – la “libera” possibilità di autodeterminazione della stessa persona offesa.
Non può quindi che ribadirsi il generale principio secondo il quale integra il reato di estorsione, non già l’esercizio di una generica pressione alla persuasione o la formulazione di proposte esose o ingiustificate, ma il ricorso – come nel caso in esame – a modalità tali da forzare la controparte a scelte in qualche modo obbligate, facendo sì che non le venga lasciata alcuna ragionevole alternativa tra il soggiacere alle altrui pretese o il subire, altrimenti, un pregiudizio diretto
immediato (v. in tal senso Sez. 2, n. 47100 del 28/10/2021, Dardano, Rv. 282325 – 01).
Quanto detto impone anche sotto tale profilo la valutazione di manifesta infondatezza del ricorso in esame.
Manifestamente infondato, è, infine, anche il secondo motivo di ricorso formulato nell’interesse di entrambi gli imputati e relativo alla intervenuta condanna per il contestato reato di truffa aggravata di cui al capo B della rubrica delle imputazioni.
In questo caso ci si trova in presenza di una c.d. decisione “doppia conforme” sia del Tribunale che della Corte di appello.
Preme sul punto immediatamente rilevare che le predette sentenze di merito, caratterizzate da un adeguato esame del compendio probatorio costituito oltre che dalle dichiarazioni della persona offesa anche dalle dichiarazioni dei testi NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME risultano congruamente e logicamente motivate sotto tutti i profili che hanno portato all’affermazione della penale responsabilità di entrambi gli imputati.
In fatto risulta accertato che, come detto, la COGNOME veniva assunta con contratto a tempo indeterminato presso la RAGIONE_SOCIALE ma di fatto lavorava per la Olivicola Cosentina, tra l’altro operando a Cosenza nella sede di quest’ultima e non nella sede della RAGIONE_SOCIALE a Montalto Uffugo.
I giudici di merito hanno, infatti, chiarito, che la mancata assunzione presso la RAGIONE_SOCIALE Cosentina trova fondamento nella documentazione acquisita, proveniente dall’INPS e sottoscritta dal responsabile NOME COGNOME dalla quale emerge che la RAGIONE_SOCIALE Cosentina per l’anno 2015 (anno in cui la COGNOME veniva assunta presso la RAGIONE_SOCIALE) non poteva beneficiare dell’esonero contributivo ai sensi della I. n. 190/2014 poiché non possedeva le condizioni previste dall’art. 1 commi 1175 1176 della I. n. 296/2006 essendo carente della regolarità contributiva per l’anno 2015 e che, in aggiunta, va considerato che la Olivicola Cosentina aveva già richiesto ed ottenuto precedentemente altre agevolazioni contributive e, pertanto, l’esonero contributivo ai sensi della I. n. 190/2014 diventava incompatibile.
La Corte di appello ha quindi chiarito che, alla luce di quanto accertato, divengono comprensibili le ragioni per le quali la COGNOME, pur lavorando per le Olivicola Cosentina era stata assunta presso la RAGIONE_SOCIALE dal momento che quest’ultima, potendo beneficiare degli sgravi fiscali previsti dalla citata legge in ordine all’assunzione della lavoratrice dal 2 giugno 2015 al 18 novembre 2016, li otteneva e ciò comportava la possibilità di procacciarsi un profitto ingiusto per un importo di 8.524,47 euro.
La Corte di appello ha poi dato congrua risposta alle censure difensive formulate in sede di gravame (v. pagg. 10 e 11 della sentenza impugnata) e già il Tribunale aveva evidenziato come una convenzione stipulata tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE Cosentina – richiamata dalla difesa degli imputati anche in questa sede di legittimità – avente ad oggetto l’incarico da parte della RAGIONE_SOCIALE di assistere i propri associati nella trasmissione delle domande di aiuto comunitarie e di tenuta del fascicolo aziendale e che prevedeva che l’RAGIONE_SOCIALE metteva a disposizione della RAGIONE_SOCIALE un vano nella sua sede principale non può essere ritenuta documento utile a smentire l’assunto accusatorio, sia perché si tratta di una convenzione non registrata presso la Camera di commercio, sia perché il teste COGNOME ha riferito di non trovato nulla presso la Camera di commercio che certificasse il rapporto tra le due società.
Rileva al riguardo l’odierno Collegio che il motivo di ricorso qui in esame tende, inammissibilmente, a contestare la ricostruzione di fatti ritenuti dai Giudici di merito, con motivazioni congrue e logiche, pienamente accertati anche attraverso l’esame e la valutazione della documentazione acquisita, in che non consente una ulteriore rivalutazione degli stessi in sede di legittimità.
Per il resto corretta risulta la integrazione del fatto-reato atteso che poiché per legge lo sgravio contributivo spetta esclusivamente alle aziende dove realmente viene resa l’attività lavorativa l’azione degli imputati, rispettivamente gestori delle due aziende coinvolte, consente la configurabilità in diritto del reato di cui all’art. 640, comma 2, cod. pen.
Per le considerazioni or ora esposte, dunque, i ricorsi degli imputati devono essere dichiarati inammissibili.
L’inammissibilità dei ricorsi per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D., Rv. 217266; Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, COGNOME, Rv. 256463). Nella specie la prescrizione del reato di cui al capo B della rubrica delle imputazioni risulta maturata in data 18 maggio 2024 e quindi successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata con i ricorsi.
Alla inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, quanto a ciascuno di essi, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazion della causa di inammissibilità emergenti dai ricorsi (Corte Cost. 13 giugno 2000,
n. 186) al versamento della somma ritenuta equa di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Ne discendono, altresì, le correlative statuizioni di seguito espresse in ordine alla rifusione delle spese del grado in favore della costituita parte civile NOME COGNOME la cui liquidazione, tenuto conto del grado di complessità della vicenda processuale, viene operata secondo l’importo in dispositivo meglio enunciato.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, gli imputati in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile NOME COGNOME che liquida in complessivi euro 3686,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 22 gennaio 2025.