Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 23601 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 23601 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CINQUEFRONDI il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 21/09/2023 del TRIB. LIBERTA’ di CATANZARO udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto rigettarsi il ricorso, riportandosi alla memoria depositata; udito l’AVV_NOTAIO COGNOME nell’interesse del ricorrente, che ha illustrato i motivi di ricorso e ne ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale del riesame di Catanzaro, in data 21 settembre 2023 depositava il dispositivo – cui seguiva la motivazione in data 24 ottobre 2023 con il quale riformava parzialmente, sostituendo la misura degli arresti domiciliari a quella della custodia cautelare in carcere, l’ordinanza emessa dal G.i.p. del Tribunale di Catanzaro in data 27 luglio 2023, nei confronti di COGNOME NOME.
All’indagato viene contestata, al capo 9) dell’ordinanza genetica, la tentata estorsione, aggravata dal metodo mafioso e dall’avere commesso il fatto una persona che fa parte dell’associazione ex art. 416-bis cod. pen., in concorso con
NOME COGNOME e NOME COGNOME, in danno di NOME COGNOME, collaboratore di NOME COGNOME.
La condotta viene così delineata nella contestazione provvisoria: «dopo avere consegnato il COGNOME NOME ed il COGNOME NOME, nel marzo 2016, a COGNOME NOME (collaboratore di COGNOME NOME) la somma di complessivi 40.000,00 euro, per porre in essere degli investimenti non meglio specificati che, ove andati a buon fine, avrebbero fruttato circa 180.000,00 euro, non ottenendo, nei termini concordati, la consegna della somma auspicata di 180.000,00 euro, ponevano in essere una serie di minacce e di violenze volte a costringere il COGNOME a corrispondere la maggior somma sopra indicata ed a consegnare, a garanzia del pagamento, un immobile riconducibile al padre del COGNOME.
In particolare: COGNOME NOME e COGNOME NOME dapprima chiedevano la consegna di 180.000 euro, evocando la propria caratura criminale quali soggetti legati alla cosca COGNOME di Sinopoli-Santa Eufemia di Aspromonte; in seguito, i predetti COGNOME ed il COGNOME, a fronte delle minacce indirizzate al COGNOME ed alla richiesta di intervento rivolta da quest’ultimo – nel settembre del 2016 a COGNOME NOME (il quale, a sua volta, spendendo la propria appartenenza ai COGNOME, si interponeva, in veste di garante, per impedire l’acquisizione dell’immobile del COGNOME adibito ad abitazione ed otteneva un accordo che riduceva la somma da restituire al solo pagamento della sorte capitale di euro 40.000), accettavano la proposta formulata dal COGNOME, ottenendo che fosse lo stesso COGNOME ad estinguere il debito per conto del COGNOME, mediante il pagamento dilazionato di 5.000,00 euro mensili, da restituire in più soluzioni; nondimeno, successivamente al pagamento della prima tranche (di appena euro 3600,00) consegnata da COGNOME NOME, il 03/10/2016, nei locali della pescheria RAGIONE_SOCIALE sita in INDIRIZZO, nelle mani di COGNOME NOME – a fronte dei ritardi e dei reiterati rinvii nell’assolvimento dell’impegno, veniva organizzato un nuovo incontro nei locali della predetta pescheria, in data 31/10/2016, nel corso del quale, allo presenza del COGNOME e del COGNOME interveniva COGNOME NOME, vertice apicale della `ndrina di Zungri, con stretti rapporti con i due creditori, il quale, percuotendo in modo violento COGNOME NOME, capo ‘ndrina di Vibo Marina, appartenente alla locale di Zungri, per ristabilire l’ordine mafioso in quella località, autorizzava COGNOME e COGNOME a far valere le loro pretese estorsive, atteso che il COGNOME, uscito dall’incontro, comunicherà al COGNOME che per il 25 novembre 2016 avrebbero dovuto versare gli ulteriori 36.000 euro; – infine, a fronte delle minacce di morte, rivolte da COGNOME e COGNOME allo stesso COGNOME ed alla circostanza che i soggetti reggini, a seguito della sua inottemperanza agli accordi presi, si fossero recati direttamente dai COGNOME, e segnatamente da COGNOME NOME detto
“Bandera”, con il rischio di incrinare i suoi rapporti con gli altri sodali, nella giornata del 04/11/2016 NOME NOME si recava a Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC) ad incontrare COGNOME NOME e COGNOME NOME, chiedendo a COGNOME NOME di aiutarlo economicamente e di mediare con i soggetti reggini prevenendo eventuali azioni di ritorsione nei propri confronti. Con l’aggravante di aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art 416-bis 1 cod. pen. In Vibo Marina, da settembre 2016 e almeno fino a febbraio 2017».
Il ricorso consta di quattro motivi che saranno enunciati a seguire nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il primo motivo lamenta violazione di legge penale in relazione agli artt. 629 e 393 cod. pen., rappresentando come l’ordinanza del Tribunale del riesame non abbia tenuto in conto che la condotta posta in essere dal ricorrente consisteva esclusivamente nella richiesta di restituzione di un importo che aveva anticipato, cosicché la pretesa poteva essere attivata in giudizio, risultando indifferente la modalità di esecuzione del delitto, per quanto affermato dalle Sezioni Unite, e risultando decisivo, per distinguere le due fattispecie, l’elemento psicologico, che nel reato di ragion fattasi si sostanzia in una pretesa astratta e arbitraria ma ragionevole, nella fattispecie estorsiva, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
Il secondo motivo lamenta vizio di motivazione quanto alla gravità indiziaria, poiché il Tribunale del riesame attribuisce al ricorrente condotte violente e minacciose non emerse; rappresenta anche che l’ordinanza impugnata attribuisce una causa illecita all’operazione finanziaria, mentre invece in primo grado la stessa era stata ritenuta sostanzialmente lecita, in quanto riferita alla acquisizione di partite di prodotti ittici, e attribuisce l’intervento di COGNOME al ragioni del ricorrente, illogicamente in quanto le percosse di quest’ultimo furono rivolte ad un terzo soggetto, non al debitore.
Il terzo motivo lamenta vizio di motivazione in ordine alla riconosciuta aggravante ex art. 416-bis 1 cod. pen., in quanto il Tribunale del riesame non ha valutato che non vi è prova che l’intervento di COGNOME sia stato richiesto dal ricorrente e che lo stesso ricorrente abbia agito con modalità violente e metodo mafioso.
Il quarto motivo lamenta vizio di motivazione quanto alle esigenze cautelari, non avendo il Tribunale del riesame reso una motivazione congrua e logica sia in ordine alla gravità della condotta, per altro valutata astrattamente e rimasta allo stadio del tentativo, in ordine al tempo trascorso dai fatti di oltre sette anni, in relazione alla detenzione subita dal ricorrente per altra causa per sei anni, oltre che per l’assenza di carichi pendenti.
Il ricorso è stato trattato con intervento delle parti, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell’art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall’art. 94 del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall’art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell’art. 11, comma 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18.
Le parti hanno concluso come indicato in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è parzialmente fondato, nei termini che seguono.
Pacifico è l’orientamento che, a partire da Sezioni Unite n. 11 del 22/3/2000, Audino, Rv. 215828, in tema di misure cautelari personali, a fronte di un ricorso per cassazione per vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame, in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ne definisce così l’ambito di delibazione. La Corte ha il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti, rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (nello stesso senso, Sez. 4, n. 22500 del 03/05/2007, COGNOME, Rv. 237012; Sez. F., n. 47748 del 11/08/2014, COGNOME, Rv. 261400; Sez. 4, n. 26992 del 29/05/2013, NOME, Rv. 255460; Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, COGNOME, Rv. 276976).
Va anche evidenziato come questo Collegio aderisca all’orientamento autorevole di Sez. U, Spennato: «il quadro di gravità indiziaria ai fini cautelari, concetto differente da quello enunciato nell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., che allude alla c.d. prova logica o critica, ha, sotto il profilo gnoseologico, una
propria autonomia, non rappresenta altro che l’insieme degli elementi conoscitivi, sia di natura rappresentativa che logica, la cui valenza è strumentale alla decisione de libertate, rimane delimitato dai confini di questa e non si proietta necessariamente nel diverso e futuro contesto dibattimentale relativo al definitivo giudizio di merito» (Sez. U, n. 36267 del 30/05/2006, Spennato, Rv. 234598).
Pertanto, la delibazione attuale è funzionale alla verifica della tenuta logica del provvedimento cautelare di secondo grado, in relazione alla gravità indiziaria nei termini di qualificata probabilità di colpevolezza, nella prospettiva da ultimo evidenziata.
Quanto al primo e al secondo motivo, relativi alla gravità indiziaria, deve procedersi a trattazione congiunta.
3.1 Va premesso come il secondo motivo di ricorso, pur riportando i brani dei provvedimenti cautelari di interesse, proponga anche una rilettura del materiale di indagine, che non è consentita in questa sede.
Così è a proposito della conversazione n. 388 riportata in ricorso, dalla quale il ricorrente trae il convincimento che l’arrivo di COGNOME e le percosse al suo capo zona NOME COGNOME, avvenute nel magazzino di COGNOME, non fossero collegate alle vicende della riscossione del dovuto dal debitore COGNOME.
Da ciò deriverebbe l’autonomia della vicenda debitoria e dell’azione riscossiva del ricorrente e di COGNOME rispetto al ruolo e all’azione di COGNOME.
Ma tale ricostruzione propone, appunto, una rilettura del materiale di indagine che in maniera non manifestamente illogica è stata già operata dal Tribunale del riesame, che chiarisce come vi siano elementi logici per ritenere la funzionalità dell’intercessione del capo mafia COGNOME, giustificata dal ruolo di NOME e COGNOME, aventi peso significativo nello scacchiere mafioso calabrese.
Tale conclusione, che ritiene sussistere la connessione fra l’intervento del capo mafia COGNOME – nel momento in cui nel magazzino di COGNOME vi sono proprio il ricorrente e COGNOME – e le ragioni creditorie vantate da questi ultimi verso COGNOME e COGNOME, risulta non manifestamente illogica.
In tal senso, anche le percosse subite da COGNOME vengono narrate da NOME – e non a caso hanno lasciato il segno nel conversante, che accusa della situazione COGNOME, in favore del quale ha tentato la mediazione, forte della sua vicinanza ai COGNOME – e vengono ritenute in modo non manifestamente illogico dal Tribunale distrettuale come attinenti all’azione di recupero del credito e non rivolte verso un terzo estraneo alla questione, dunque in grado di intimidire COGNOME attraverso NOME.
D’altro canto, i motivi di ricorso appaiono aspecifici, laddove trascurano quanto riportato al fol. 4 della ordinanza impugnata. Il Tribunale del riesame
riporta che COGNOME, presente il NOME, sempre nella pescheria, faceva valere il proprio peso mafioso – annota il Tribunale – dichiarando di essersi limitato nell’azione violenta in ragione della vicinanza di NOME ai COGNOME, ma minacciando comunque di morte quest’ultimo («.. io vi ficco un colpo di pistola nella testa e me ne vado! E me ne fotto dei soldi! No.. guardatemi nella faccia quando vi parlo!»), aggiungendo anche che NOME avrebbe dovuto corrispondere tre mensilità, pari a 15mila euro, entro il 30 novembre, quindi nei quindici giorni successivi.
Pertanto, la ricostruzione operata dal Tribunale del riesame non appare manifestamente illogica, e il ricorso non si confronta con tale descritta emergenza, espressiva della caratura criminale di COGNOME che concorre con NOME, della condotta minatoria, dell’appoggio che ai due veniva assicurato da parte del capo mafia COGNOME.
3.2 Venendo al primo motivo, correttamente il ricorrente richiama le Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 02, che hanno individuato nell’elemento psicologico – da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie l’elemento distintivo fra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione.
In particolare, alle Sezioni Unite era stato richiesto di risolvere, fra l’altro, i quesito «se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello di estorsione si differenzino tra loro in relazione all’elemento oggettivo, in particolare con riferimento al grado di gravità della violenza o della minaccia esercitate, o, invece, in relazione al mero elemento psicologico, e, in tale seconda ipotesi come debba essere accertato tale elemento».
Le Sezioni Unite hanno chiarito che nel delitto di ‘ragion fattasi’, l’agente tende al conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo delitto, quello di estorsione, l’agente persegue invece il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.
Hanno anche precisato le Sezioni Unite che, ai fini dell’integrazione del delitto ex art. 393 cod. pen.: a) la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve corrispondere in modo esatto all’oggetto della tutela concretamente apprestata dall’ordinamento giuridico, e non risultare in alcun modo più ampia (essendo peculiarità di tale fattispecie la sostituzione dello strumento di tutela pubblico con quello privato); b) la pretesa deve essere non del tutto arbitraria, ovvero sfornita di una possibile base legale, ma deve potenzialmente costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente apprezzabili possibilità di successo; c) l’elemento
psicologico del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello del delitto di estorsione devono essere accertati secondo le ordinarie regole probatorie, per cui «anche la speciale veemenza con cui viene perpetrato il comportamento violento o minaccioso può avere valenza di elemento sintomatico del dolo di estorsione»; d) la circostanza aggravante del c.d. “metodo mafioso” non è incompatibile con il reato previsto dall’art. 393 cod. pen., per cui l’art. 416-bis 1 cod. pen. non si applica in via esclusiva al delitto di estorsione.
3.3 Richiamati tali principi, la motivazione impugnata appare corretta in quanto dopo aver indicato quale elemento distintivo fra le due ipotesi di reato il coefficiente psicologico, valorizza quali profili sintomatici di una pretesa consapevolmente non azionabile in sede giudiziaria sia la natura oscura dell’affare, non emergendo una causa lecita dell’ investimento’ e del contratto di finanziamento, cosicché lo stesso non sarebbe potuto essere tutelato in sede giudiziaria; sia anche la natura ingiusta del profitto, anche collegata alla apprensione dell’immobile di proprietà di COGNOME, dopo aver chiarito nella ricostruzione del fatto, che la prima pretesa era di ricevere in restituzione non solo il capitale investito di 40mila euro ma anche il guadagno mancato di 140mila euro, anche se l’investimento non era andato a buon fine, riducendo solo successivamente la richiesta a 80mila euro, per giungere infine, a seguito della mediazione di COGNOME, all’importo di 40mila euro. Infine, il Tribunale del riesame fa riferimento anche alla gravità delle intimidazioni, indici sintomatici del dolo estorsivo.
Si tratta di una motivazione congrua e non manifestamente illogica, che è in linea con principi fissati dalle Sezioni Unite, sia per l’illiceità della causa del finanziamento, che impedirebbe una azione di successo in sede giudiziaria, requisito richiesto quanto al dolo di arbitrario esercizio delle proprie ragioni, sia anche per la sproporzione della richiesta restitutoria per l’inadempimento’, esorbitante nella prima fase rispetto ai 40mila euro investiti e anche estesa alla acquisizione dell’immobile del COGNOME: in sostanza l’ordinanza impugnata in modo non illogico valorizza l’evidente sproporzione fra le richieste e l’investimento iniziale, anche perché la richiesta dell’immobile si pone come una ulteriore aggiuntiva richiesta a garanzia o come datio in solutum in origine non prevista, ma solo conseguente all’inadempimento, il che ne palesa la sua estraneità ad una dinamica anche solo latamente contrattuale, sostenibile in un giudizio civile.
Per altro, anche la veemenza riscontrata nell’azione di recupero del credito, viene in modo congruo valorizzata dal Tribunale del riesame come indice del dolo di estorsione, quindi della consapevolezza di agire per un profitto ingiusto e non
per una pretesa tutelabile in sede giudiziaria, come previsto anche dalle richiamate Sezioni Unite.
A fronte di tale molteplicità di elementi, la doglianza sulla natura oscura (o meno) dell’affare diviene non decisiva, vertendosi in una censura per vizio di motivazione, per la quale, ai fini dell’osservanza del principio di specificità in relazione alla prospettazione di vizi di motivazione e di travisamento dei fatti, è necessario che il motivo di ricorso contenga la compiuta rappresentazione e dimostrazione di un’evidenza – pretermessa o infedelmente rappresentata dal giudicante – di per sé dotata di univoca, oggettiva ed immediata valenza esplicativa, in quanto in grado di disarticolare il costrutto argomentativo del provvedimento impugnato per l’intrinseca incompatibilità degli enunciati (Sez.1, n. 54281 del 05/07/2017, COGNOME, Rv. 272492 – 01).
Ne consegue l’infondatezza dei motivi.
4. Quanto al terzo motivo, valgono le considerazioni già svolte in ordine alla non manifesta illogicità relativa al ruolo di COGNOME nella vicenda in esame, avendo il Tribunale del riesame valorizzato l’intervento di assoluto spessore criminale di quest’ultimo in ausilio ai due creditori, come anche le condotte di COGNOME e NOME, che non solo hanno ottenuto l’intervento del capo mafia, ma anche in sé, grazie alle minacce di COGNOME, in presenza di NOME, rivolte a COGNOME e sopra indicate, con le quali non si confronta il ricorrente, oltre che per la condotta complessivamente posta in essere: il ricorrente viene ritenuto, senza aporie logiche, aver agito con modalità mafiose.
D’altro canto, tale valutazione del Tribunale del riesame, che correttamente si sofferma sulla sussistenza di una condizione di assoggettamento delle vittime ad istanze di un gruppo criminale mafioso, è anche in sintonia con il principio per cui l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, di cui all’art. 416-bis 1 cod. pen., è configurabile nel caso di condotte eziologicamente collegate all’azione criminosa, in quanto logicamente funzionali alla più pronta e agevole commissione del reato e non in quello di mera connotazione mafiosa dell’azione o mera ostentazione, evidente e provocatoria, dei comportamenti dell’organizzazione mafiosa (Sez. 1, n. 37621 del 14/07/2023, C., Rv. 285761 – 01; conf. n. 26399 del 2018, Rv. 273365 – 01).
Inoltre – a conferma del principio già espresso da Sez. U, Filardo – Sez. 2, n. 2331 del 17/11/2023, dep. 19/01/2024, Bianco, Rv. 285817 – 01 ha correttamente ribadito come l’utilizzo del metodo mafioso nella riscossione di un preteso credito non è incompatibile con il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, non comportando il raggiungimento di una finalità ulteriore rispetto alla riscossione, pur se è possibile – come avvenuto nel
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caso in esame – valorizzare tale aggravante, in uno ad altri elementi, quale dato sintomatico del dolo di estorsione.
Ne consegue l’infondatezza del motivo.
5. In ordine al quarto motivo, il Tribunale del riesame valuta il tempo trascorso, definendolo sensibile e giustificando proprio per tale ragione, in uno allo stato di detenzione patito, l’adeguatezza della misura domiciliare in luogo di quella carceraria, traendo il pericolo concreto e attuale di reiterazione dal contesto criminale nel quale si svolsero i fatti, comunque connesso all’ambito mafioso reggino, al coinvolgimento del capo cosca, all’aver agito in concorso con COGNOME con modalità mafiose, ma anche dal precedente penale per condotte di detenzione e spaccio di stupefacenti con condanna «ad una grave sanzione».
A ben vedere il motivo è fondato.
Si tratta di una motivazione manifestamente illogica perché astratta, deficitaria di concretezza sia in relazione al contesto di riferimento criminale evocato, sia anche in relazione all’attualità dello stesso per l’indagato, essendo il fatto costituente titolo cautelare risalente al febbraio 2017: nessun elemento viene proposto quanto alla attualità del coinvolgimento di NOME nelle dinamiche associative reggine né di quelle vibonesi, né tanto meno il riferimento generico al precedente penale e alla pena grave viene ad essere specificato, reso concreto, quanto a tempo e luogo del delitto o ai concorrenti nello stesso, né tanto meno viene analizzato ogni elemento che possa consentire di ritenere che la libertà dell’indagato possa condurlo alla reiterazione di condotte analoghe.
In tal senso, va richiamato il condivisibile principio per cui anche la gravità dell’aggravante dell’art. 416-bis 1 cod. pen., sotto forma delle modalità mafiose, non è in sé sufficiente a ritenere sussistenti le esigenze cautelari, sebbene l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. operi una presunzione relativa a riguardo, in quanto la presunzione di perdurante pericolosità ha carattere marcatamente relativo e il giudice è chiamato a valutare gli elementi astrattamente idonei a escludere tale presunzione, desunti dal tipo di reato per il quale si procede, dalle concrete modalità del fatto e dalla rìsalenza dei precedenti (Sez. 5, n. 1525 del 06/12/2023, dep.12/01/2024, COGNOME, Rv. 285808 – 01; fattispecie relativa all’applicazione della custodia cautelare in carcere per il reato di tentata estorsione aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso nei confronti di persona che annoverava un unico precedente del 2007, in cui la Corte ha annullato, con rinvio al tribunale del riesame, l’ordinanza impugnata rilevando che il notevole arco di tempo trascorso tra il delitto contestato e l’unico precedente gravante sull’indagato, doveva essere valutato alla luce di tutte le condotte, coeve e successive al fatto, poste in essere dal soggetto, così).
Ne consegue l’annullamento dell’ordinanza impugnata quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata, limitatamente alle esigenze cautelari, e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Catanzaro.
Così deciso in Roma, 22/03/2024
Il Consigliere estensore
Presidante