Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 9921 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 9921 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 15/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME, nato a San Cesario di Lecce il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 29/03/2023 della Corte d’appello di Lecce visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 29/03/2023, la Corte d’appello di Lecce confermava la sentenza del 11/07/2022 del Tribunale di Lecce di condanna di NOME COGNOME alla pena di cinque anni di reclusione ed C 1.000,00 di multa per il reato di estorsione pluriaggravata (dalla cosiddetta minorata difesa e dall’avere commesso il fatto in uno dei luoghi di cui all’art. 624-bis cod. pen.) commessa il 18/03/2021 ai danni del nonno dello stesso imputato NOME COGNOME.
Avverso l’indicata sentenza del 29/03/2023 della Corte d’appello di Lecce, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, NOME COGNOME, affidato a cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l’inosservanza delle norme processuali in tema di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari, «nonch conseguente manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, residuata in termini di mera apparenza».
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Lecce, con l’affermare che «a motivazione della sentenza di primo grado è logica e coerente nell’aver evidenziato le dichiarazioni della p.o. COGNOME NOME da mettere in rapporto a quanto da questi affermato in sede d’indagine», avrebbe operato «una inammissibile comparazione tra le dichiarazioni rese dallo COGNOME NOME nella fase delle indagini con quelle rese all’udienza del 4 luglio 2022», «al fine di destituire d pregio e valore le dichiarazioni dibattimentali della persona offesa» – in quanto da leggere «in termini di “alleggerimento” della posizione del nipote» (così il ricorso) – così attribuendo una «rilevanza decisiva» alla suddette dichiarazioni predibattimentali di NOME COGNOME, atteso che le dichiarazioni che questi aveva reso nel corso del dibattimento sarebbero state «assolutamente ferm e nett nel negare, in maniera categorica, ogni elemento da cui potesse scaturire una qualsiasi penale responsabilità per l’imputato».
2.2. Con il secondo e il terzo motivo – i quali, essendo argomentati in modo unitario, possono essere esposti congiuntamente – il ricorrente deduce: a) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza e la falsa applicazione degli artt. 192, comma 2, 530, comma 2, e 533 dello stesso codice, nonché dell’art. 629 cod. pen. (secondo motivo); b) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione (terzo motivo).
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Lecce avrebbe richiamato per relationem la sentenza del Tribunale di Lecce senza indicare le ragioni che l’avevano indotta a condividerla e senza confutare i motivi del proprio atto di appello, limitandosi, anapoditticamente, a non condividerli.
Secondo il ricorrente, la motivazione sarebbe manifestamente illogica e meramente apparente, anzitutto, là dove la Corte d’appello di Lecce ha ritenuto l’inattendibilità delle dichiarazioni dibattimentali della persona offesa NOME COGNOME in quanto sarebbe «evidente il tentativo del predetto COGNOME di non aggravare i fatti posti in essere dal nipote», così anapoditticamente non condividendo gli specifici motivi che, al riguardo, erano stati formulati nel proprio atto di appello.
La motivazione sarebbe «illogica, inesistente o solo apparente» anche là dove la Corte d’appello di Lecce ha ritenuto essere stato accertato il carattere estorsivo della condotta dell’imputato, omettendo di confutare la dedotta inidoneità della
stessa condotta – «consistita nell’aver sfondato la porta di ingresso dell’abitazione del nonno» – a integrare l’elemento oggettivo del reato di estorsione. Ciò anche alla luce delle dichiarazioni che erano state rese dal testimone NOME COGNOME, padre dell’imputato, ritenuto pienamente credibile dalla Corte d’appello, il quale, in sede dibattimentale, aveva riferito che il padre non gli aveva detto di essere stato minacciato dall’imputato, di non credere che questi potesse voler fare del male al nonno o che gliene avrebbe fatto, e che il figlio, «uando vuole i NOME, sa che glieli dà, va e glieli dà».
Il ricorrente lamenta il carattere anapodittico e manifestamente illogico anche dell’affermazione della Corte d’appello di Lecce secondo cui il testimone NOME COGNOME avrebbe «chiarito in dibattimento di essere stato chiamato dal proprio genitore che era spaventato proprio dall’insistenza con cui il COGNOME NOME bussava alla porta del nonno, pretendendo di entrare per (asseritamente) cambiare delle nnonetine», in quanto che tale affermazione sarebbe frutto del travisamento della dichiarazione dello stesso NOME COGNOME, atteso che questi, in sede dibattimentale, aveva riferito che il padre lo aveva chiamato perché il nipote NOME COGNOME «aveva sfondato la porta, per cui rimaneva la notte senza porta, quindi dovevo risolvere quel problema».
Il ricorrente, nel rappresentare che la condotta, descritta dalla Corte d’appello di Lecce, di avere, «in piena notte ai danni di una persona anziana, che viveva sola in casa», «chiesto una somma di denaro, sfondando la porta d’ingresso dell’abitazione» potrebbe integrare, al più, il reato di violazione di domicili aggravata e non quello di estorsione, afferma che le emergenze dibattimentali avrebbero escluso che l’imputato avesse posto in essere alcuna minaccia o violenza nei confronti della persona offesa, con il conseguente «salto logico» della sentenza impugnata.
Con riguardo alla censura di violazione di norme di legge, il ricorrente, dopo avere esposto che la sussistenza del reato di estorsione richiede che l’atto di disposizione patrimoniale compiuto dalla persona offesa «sia il risultato di una costrizione realizzata attraverso la violenza o la minaccia» e che, quindi, tali violenza o minaccia «devono rappresentare lo strumento per la realizzazione» della costrizione, il ricorrente deduce che ciò difetterebbe «alla stregua dell emergenze dibattimentali, fatte oggetto di una inammissibile acritica “rilettura” da parte del Giudice dell’Appello».
2.3. Con il quarto e il quinto motivo – i quali, essendo argomentati in modo unitario, possono essere esposti congiuntamente – il ricorrente, con riguardo al trattamento sanzionatorio, deduce: a) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) , cod. proc. pen., l’inosservanza e la falsa applicazione degli artt. 62, n. 4), 311 e
629 cod. pen. (quarto motivo); b) in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e l’illogicità della motivazione (quinto motivo).
Il ricorrente richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2023 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 cod. pe «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità» – ed evidenzia che, nella specie, «le circosta dell’azione (estemporaneità della condotta, scarsità dell’offesa personale alla vittima, assenza di profili organizzativi), le risultanze dibattimentali, l’esiguità danno provocato» renderebbero il fatto a lui attribuito di lieve entità, con la conseguenza che la pena che gli è stata irrogata sarebbe incongrua e manifestamente illegittima.
Tale diminuente della lieve entità del fatto non potrebbe essere esclusa dalla circostanza, evidenziata dalla Corte d’appello di Lecce, per cui il danno economico non potrebbe essere «circoscritto alla somma di € 20, ma da estendersi quanto meno al danno causato alla porta di casa della p.o.». Il ricorrente sostiene la manifesta illogicità e il carattere anapodittico di tale argomentazione «per ovvio dato di comune esperienza (costo – risibile – di una serratura) e per l’indimostrato (apodittico) “apprezzamento” dell’ulteriore pregiudizio stigmatizzato, come evidente, alla stregua delle riproduzioni fotografiche in atti, ben modesto (rectius, di “lieve entità”)».
Il ricorrente sostiene anche che nella specie sarebbe applicabile la causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Il ricorrente stigmatizza l’affermazione della Corte d’appello di Lecce secondo cui «a motivazione della sentenza di primo grado è logica e coerente nell’aver evidenziato le dichiarazioni della p.o. COGNOME NOME da mettere in rapporto a quanto da questi affermato in sede d’indagine», sostenendo che tale affermazione comproverebbe che la stessa Corte d’appello avrebbe inammissibilmente utilizzato le dichiarazioni predibattimentali della stessa persona offesa, al fine, in particolare, di ritenere che quanto questa aveva dichiarato in sede dibattimentale era volto ad «alleggeri la posizione del nipote» (così il ricorso).
In realtà, la citata frase della sentenza impugnata prosegue con le parole: «(ciò anche a seguito delle domande delle parti e dello stesso organo giudicante nel corso dell’escussione del teste)».
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Appare pertanto evidente come la lamentata «messa in rapporto» tra quanto era stato dichiarato dalla persona offesa NOME COGNOME nel corso del suo esame dibattimentale e le dichiarazioni predibattimentali della stessa persona offesa si fondasse in realtà sul fatto che, nel corso dell’escussione dibattimentale di NOME COGNOME, alcuna delle parti (e lo stesso giudice) gli aveva legittimamente contestato le dichiarazioni da lui precedentemente rese nel corso delle indagini preliminari.
Ciò si evince, del resto, dallo stesso ricorso, là dove, alla nota 1 della pag. 6, risulta come il pubblico ministero avesse contestato ad NOME COGNOME che «i Carabinieri ha detto che NOME NOME dei NOME ed era spaventato» e si afferma che «lle domande del Presidente del Collegio, che sottolineava come innanzi ai Carabinieri avesse fornito una versione differente, la P.O. ribadiva ».
Da ciò discende la piena legittimità, a norma dell’art. 500 cod. proc. pen., ai fini della valutazione della credibilità del testimone NOME COGNOME, della comparazione tra le sue divergenti dichiarazioni procedimentali e dibattimentali.
In ogni caso, l’affermazione della Corte d’appello di Lecce secondo cui « risultato evidente il tentativo del predetto COGNOME di non aggravare i fatti posti in essere dal nipote» risulta fondata dalla stessa Corte d’appello sul contrasto tra le dichiarazioni dibattimentali di NOME COGNOME e «i dati fenomenici», in quanto «chiaramente riconducibili a un comportamento che si connota per violenza e minaccia, univocamente teso ad acquisire somme di denaro da una persona anziana».
Il secondo e il terzo motivo – i quali, essendo stati argomentati, come si è detto, in modo unitario, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati.
2.1. Costituisce un principio pacificamente accolto dalla Corte di cassazione quello secondo cui, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali a imporre una diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatori del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 28074701; Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965-01).
In tema di estorsione, ai fini della configurabilità del reato, sono indifferent la forma o il modo della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata indeterminata, purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo. La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità a integrare l’elemento strutturale del delitto di estorsione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggetti della vittima, vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi una effettiva intimidazione del soggetto passivo (Sez. 6, n. 3298 del 26/01/1999, COGNOME, Rv. 212945-01).
La Corte di cassazione ha altresì affermato che, sempre in tema di estorsione, la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità a integrare l’elemento strutturale del reato vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa e le particolari condizio soggettive della vittima, poiché più marcata è la vulnerabilità di quest’ultima, maggiore è la potenzialità coercitiva di comportamenti anche “velatamente” minacciosi (Sez. 2, n. 2702 del 18/11/2015, dep. 2016, Nuti, Rv. 265821-01).
2.2. Richiamati tali principi, si deve rilevare che la Corte d’appello di Lecce, dopo avere ritenuto, come si è detto esaminando il primo motivo, come dalla deposizione dibattimentale del nonno dell’imputato e persona offesa NOME COGNOME fosse emerso l’«evidente tentativo di non aggravare i fatti posti in essere dal nipote», ha reputato che «i dati fenomenici» – che erano risultati sia dalla dichiarazione del testimone e padre dell’imputato NOME COGNOME sia dalla comunicazione di notizia di reato e dal verbale di sopralluogo che era stato effettuato dalla polizia giudiziaria presso l’abitazione della persona offesa (atti che, con le allegate fotografie, erano stati acquisiti con il consenso delle parti) costituiti dai fatti che l’imputato, in piena notte (alle ore 03:00 circa), si era rec a casa del nonno ultranovantenne NOME COGNOME, aveva suonato più volte il campanello e, non essendogli stata aperta la porta, mentre il nonno chiamava il figlio NOME COGNOME, la sfondava, per poi chiedere e ottenere dallo stesso nonno la somma di C 20,00, lasciando l’anziano parente in stato di agitazione e in preda all’ansia (come era stato riferito da NOME COGNOME), evidenziassero una condotta minacciosa integrativa dell’elemento strutturale del reato di estorsione, in quanto idonea, in relazione alle menzionate oggettive circostanze concrete, a incutere timore alla vulnerabile ultranovantenne persona offesa e a coartarne la volontà, così da farsi dare la somma richiestale.
Tale motivazione appare priva di contraddizioni e manifeste illogicità, oltre che in linea con i ricordati principi, affermati dalla Corte di cassazione, in tema di elemento oggettivo del reato di estorsione.
La stessa motivazione non è scalfita, in particolare, dalle censure del ricorrente, atteso che: a) la valutazione delle dichiarazioni dibattimentali della persona offesa come «tentativo di non aggravare i fatti posti in essere dal nipote», appare logicamente argomentata sia sulla, per le ragioni che si sono dette, legittima comparazione tra le divergenti dichiarazioni procedimentali e dibattimentali della stessa persona offesa, sia sui menzionati oggettivi «dati fenomenici»; b) si è già detto di come la valutazione dell’idoneità della condotta posta in essere dall’imputato a integrare l’elemento oggettivo del reato di estorsione non risulti né contraddittoria né manifestamente illogica, oltre che in linea con i principi affermati dalla Corte di cassazione sul tema di detto elemento oggettivo del reato; c) il fatto che NOME COGNOME avesse dichiarato che il padre non gli aveva detto di essere stato espressamente minacciato, di non credere che il figlio potesse fare del male al nonno o che gliene avrebbe fatto e che il figlio sapesse che quando voleva NOME dal nonno questi glieli avrebbe dati non esclude che la condotta nella specie posta in essere dall’imputato, nei termini che si sono esposti, fosse integrativa, per le ragioni che pure si sono pure dette, del reato di estorsione; d) il fatto che lo stesso NOME COGNOME avesse dichiarato che il padre lo aveva chiamato perché l’imputato «aveva sfondato la porta, per cui rimaneva la notte senza porta, quindi dovevo risolvere quel problema» non esclude che NOME COGNOME fosse spaventato dalla condotta dell’imputato, come è confermato anche dal fatto che lo stesso NOME COGNOME ebbe a dichiarare che, giunto presso l’abitazione del padre, lo trovò in evidente stato di agitazione e in preda all’ansia per quanto era accaduto (pag. 3 della sentenza impugnata). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il quarto e il quinto motivo – i quali, essendo stati argomentati, come si è detto, in modo unitario, possono essere esaminati congiuntamente – sono manifestamente infondati nella parte in cui, con essi, si sollecita l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. mentre sono fondati nella parte in cui, con essi, si invoca la valutazione in ordine all’applicabili della diminuente del fatto di lieve entità introdotta per effetto della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 120 del 2023.
3.1. I motivi sono manifestamente infondati nella parte di essi relativa alla sollecitazione dell’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131bis cod. pen.
Infatti, tale causa di esclusione della punibilità non è applicabile al reato di estorsione né sulla base del testo originario dell’art. 131-bis cod. pen., essendo tale reato punito con una pena detentiva superiore nel massimo a cinque anni, né
sulla base del testo vigente dello stesso art. 131-bis cod. pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. c), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, essendo tale reato espressamente indicato tra quelli per quali l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità (art. 131-bis, terzo comma, n. 3, cod. pen.).
3.2. I motivi sono invece fondati nella parte in cui, con essi, si invoca la valutazione in ordine all’applicabilità della diminuente del reato di estorsione del fatto di lieve entità introdotta per effetto della sentenza additiva della Cort costituzionale n. 120 del 2023, sentenza che, essendo stata decisa il 24/05/2023 e depositata il 15/06/2023, è intervenuta dopo la sentenza impugnata.
Con la sentenza n. 120 del 2023, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 cod. pen. – per violazione degli artt. 27, terzo comma, Cost. – «nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».
Il Giudice delle leggi è pervenuto a tale esito sulla base del rilievo che gli interventi di inasprimento sanzionatorio che si sono succeduti nel tempo in relazione alla fattispecie di estorsione non hanno previsto una «”valvola di sicurezza” che consenta al giudice di moderare la pena, onde adeguarla alla gravità concreta del fatto estorsivo», in modo da evitare «l’irrogazione di una sanzione non proporzionata ogni qual volta il fatto medesimo si presenti totalmente immune dai profili di allarme sociale che hanno indotto il legislatore a stabilire per quest titolo di reato un minimo edittale di notevole asprezza».
Come era stato già rilevato da Corte cost., sentenza n. 68 del 2012 in tema di sequestro estorsivo ex art. 630 cod. pen., «anche l’art. 629 del medesimo codice è capace di includere nel proprio ambito applicativo “episodi marcatamente dissimili, sul piano criminologico e del tasso di disvalore, rispetto a quelli avuti mira dal legislatore dell’emergenza”», in particolare «”per la più o meno marcata ‘occasionalità’ dell’iniziativa delittuosa”, oltre che per la ridotta entità dell’of alla vittima e la non elevata utilità pretesa».
Per tale via, risulta dunque allo stato applicabile anche all’estorsione la diminuente della lieve entità del fatto, mutuata dall’art. 311 cod. pen. («quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità»), indici vanno individuati, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di cassazione, nell’estemporaneità della condotta, nella modestia dell’offesa personale alla vittima, nell’esiguità delle somme estorte e nell’assenza di profili organizzativi (Sez. 5, n. 18981 del 22/02/2017, COGNOME, Rv. 269933-01).
Si deve aggiungere che, nel giudizio di cassazione, è rilevabile d’ufficio, anche in caso di inammissibilità del ricorso, la nullità sopravvenuta della sentenza impugnata nel punto relativo alla determinazione del trattamento sanzionatorio in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma attinente alla determinazione della pena (da ultimo: Sez. 2, n. 4365 del 15/12/2023, dep. 2024, C., la quale, in applicazione di tale principio, ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, rimettendo al giudice di merito la quantificazione della pena, proprio in ragione della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 629 cod. pen. a opera della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2023).
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente alla statuizione relativa alla circostanza attenuante della lieve entità del fatto, co rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Lecce per un nuovo giudizio sul punto.
Il ricorso deve, invece, essere dichiarato inammissibile nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla statuizione relativa alla circostanza attenuante del fatto di lieve entità e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Lecce. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Visto l’art. 624 c.p.p. dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordi all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
Così deciso il 15/02/2024.