Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 9930 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 9930 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME COGNOME NOME
Data Udienza: 15/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
HAMITAJ BLEDAR GLYPH
nato in ALBANIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 31/03/2023 della CORTE D’APPELLO DI ANCONA
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME COGNOME; generale NOME COGNOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 27 maggio 2020 il Tribunale di Ancona assolveva NOME COGNOME dai reati di sequestro di persona (art. 605 cod. pen.) e detenzione di cocaina (art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990) e lo condannava per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in danno di NOME COGNOME (art. 393 cod. pen.), così riqualificato il fatto originariamente contestato come estorsione consumata, aggravata dalla minaccia commessa da più persone.
Decidendo sugli appelli proposti dal Procuratore della Repubblica e dall’imputato, in parziale riforma della decisione di primo grado, la Corte di appello di Ancona, con la sentenza qui impugnata, confermata l’assoluzione per i reati ex artt. 605 cod. pen. e 73 d.P.R. n. 309 del 1990, condannava l’imputato per il reato di estorsione tentata, escludendo la sussistenza dell’aggravante contestata.
Ha proposto ricorso NOME COGNOME chiedendo l’annullamento della sentenza in ragione dei seguenti motivi.
2.1. Erronea applicazione della legge penale in ordine alla riqualificazione giuridica del fatto, avuto riguardo alla erronea valutazione dell’elemento psicologico del reato.
La Corte di appello ha errato nell’operare la riqualificazione del fatto nel più grave reato di tentata estorsione richiamando un messaggio inviato dall’imputato dal contenuto minaccioso riguardante un’altra persona, presumibilmente il figlio della persona offesa.
La condotta di NOME fu tesa a persuadere e a costringere NOME COGNOME, la quale reagì con minacce, prospettando all’imputato un ricorso strumentale alle forze di polizia, al fine di costringerlo a rinunciare alla propria legittima pretesa d vedersi restituita una somma che lui le aveva affidato.
La persona offesa non è risultata credibile, tant’è che il Tribunale ha disposto la trasmissione degli atti al Pubblico ministero per il reato di calunnia.
2.2. Violazione della legge processuale penale e vizio della motivazione in ordine alla non corretta disposta rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
La Corte di appello ha ritenuto necessario disporre la rinnovazione, ai sensi dell’art. 603, commi 3 e 3-bis, cod. proc. pen., stante l’impossibilità di decidere allo stato degli atti per poi accertare la completa inutilità della testimonianza assunta, peraltro illegittimamente in quanto il teste non era mai stato sentito in primo grado nonostante il suo nominativo fosse emerso in dibattimento.
Si è proceduto alla trattazione scritta del procedimento in cassazione, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito nella legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile in forza di quanto disposto dall’art. 94, comma 2, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, come modificato dal decreto-legge 22 giugno 2023, n. 75, convertito nella legge 10 agosto 2023, n. 112), in mancanza di alcuna tempestiva richiesta di discussione orale, nei termini ivi previsti; il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato, avuto riguardo al primo motivo, inerente alla riqualificazione giuridica del fatto.
È privo di fondamento, invece, il secondo motivo, relativo alla disposta rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
A prescindere da ogni altra considerazione, non è dato cogliere quale interesse abbia il ricorrente a dolersi dell’assunzione in appello di una nuova testimonianza, resa da un agente di polizia giudiziaria, della quale la stessa difesa ha evidenziato “la completa inutilità”.
È poi incontroverso che la riqualificazione del fatto da esercizio arbitrario delle proprie ragioni, reato per il quale l’imputato era stato condannato in primo grado, nel più grave delitto di tentata estorsione è stata operata dalla Corte di appello non già sulla base di una diversa valutazione delle prove dichiarative (e, in particolare, delle dichiarazioni della persona offesa) bensì su un differente giudizio in diritto della ricostruzione del fatto da parte del Tribunale di Ancona, pienamente condiviso nella sentenza impugnata.
Per questa ragione non è ravvisabile alcuna violazione del disposto dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., non applicabile – secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. ad es., Sez. 2, n. 49984 del 16/11/2023, Bonzo Rv. 285618; Sez. 4, n. 31541 del 22/06/2023, COGNOME, Rv. 284860; Sez. 2, n. 5045 del 17/11/2020, dep. 2021, Fano, Rv. 280562; Sez. 3, n. 36905 del 13/10/2020, COGNOME, Rv. 280448; Sez. 5, n. 17782 del 30/01/2019, Mi, Rv. 276764) – quando il giudice di appello si sia limitato a una diversa valutazione in termini giuridici di circostanze di fatto non controverse, senza porre in discussione le premesse fattuali della decisione riformata.
Non risulta necessario, pertanto, esaminare la questione inerente alla sussistenza o meno dell’obbligo di rinnovazione in caso di mera riqualificazione in un reato più grave, sulla quale, invece, vi è contrasto nella giurisprudenza di legittimità (da ultimo, in senso affermativo, v. Sez. 6, n. 14444 del 21/02/2023, P., Rv. 284579; contra Sez. 5, n. 36824 del 13/07/2023, C., Rv. 284913).
È opportuno ricordare che le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito che «i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole,
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anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia» e che nell’estorsione «l’agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli» (Sez. U, n. 295401 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-02).
La stessa pronuncia ha escluso che la sproporzione o la particolare gravità della violenza o minaccia sia ostativa alla configurabilità del meno grave delitto, considerato soprattutto che l’art. 393, terzo comma, cod. pen. prevede una circostanza aggravante («se la violenza o la minaccia alle persone è commessa con armi»), potendosi solo trarre dalla speciale veemenza del comportamento violento o minaccioso un elemento sintomatico del dolo di estorsione.
Le Sezioni Unite hanno poi ribadito sul tema altri princìpi che erano consolidati nella giurisprudenza di legittimità: ai fini della integrazione del delitt di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, «la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere» (in precedenza v. Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, COGNOME, Rv. 268362; Sez. 2, n. 8096 del 04/02/2016, COGNOME, Rv. 266203; Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 263589).
Inoltre, è configurabile il delitto di estorsione e non quello di “ragion fattasi” nei casi in cui l’agente abbia esercitato la pretesa con violenza e/o minaccia in danno di un terzo assolutamente estraneo al rapporto obbligatorio esistente inter partes, dal quale scaturisce la pretesa azionata, per costringere il debitore e/o il terzo ad adempiere (nello stesso senso, in precedenza, v. Sez. 2, n. 5092 del 20/12/2017, dep. 2018, Gatto, Rv. 272017; Sez. 2, n. 45300 del 28/10/2015, Imnnordino, Rv. 264967; Sez. 2, n. 33870 del 06/05/2014, COGNOME, Rv. 260344; Sez. 2, n. 16658 del 16/01/2014, COGNOME, Rv. 259555).
Questo ultimo principio è stato richiamato nella sentenza impugnata trattando in generale del criterio distintivo fra i due delitti, ma non è su questo che si è fondata la riqualificazione. Infatti, il messaggio intimidatorio ritenuto
dirimente dalla Corte di appello riguardava il figlio della persona offesa, quindi un terzo soggetto, ma la minaccia aveva pur sempre quale destinataria la stessa NOME COGNOME.
La sentenza non ha neppure escluso che – come ritenuto dal primo giudice con ampie argomentazioni (pagg. 17-18) – vi fosse coincidenza fra la somma pretesa dall’imputato e quella affidata in custodia alla persona offesa, ritenendo irrilevanti “l’entità del presunto credito e l’accertamento preciso del quantitativo di denaro posseduto dalla COGNOME” (pag. 5), ma ha concluso che la condotta tenuta da NOME COGNOME si estrinsecò “nella costrizione della vittima attraverso l’annullamento della sua capacità volitiva” in ragione della “cruenta e raccapricciante minaccia di tagliare un orecchio al figlio della vittima” (“quanto costa un orecchio di bambino in Romania???'”) espressa in un messaggio telefonico.
L’estorsione, dunque, è stata configurata nella sentenza impugnata in ragione delle “modalità minacciose con cui il denaro veniva preteso” (pag. 5).
In questi termini dalla motivazione non si evince se la Corte territoriale si sia adeguata ai princìpi espressi nella pronuncia delle Sezioni Unite (non richiamata in sentenza), tanto più che il Tribunale aveva ampiamente motivato per escludere la gravità di tale specifica minaccia, sintomatica dell’assenza del dolo di estorsione, sulla base di una serie di circostanze non considerate dal giudice di secondo grado.
Anche la riqualificazione in peius del fatto richiede che il giudice di appello fornisca adeguata e puntuale motivazione, confrontandosi con le argomentazioni del primo giudice e con i complessivi risultati probatori dallo stesso valutati per pervenire all’inquadramento giuridico della fattispecie concreta.
Il Tribunale, infatti, con una ricostruzione dei fatti pienamente condivisa dalla Corte di appello (che aveva ritenuto la prima pronuncia “dettagliata, precisa e puntuale nella ricostruzione della vicenda e nell’analisi dei dati salienti emersi dall’istruttoria dibattimentale” – pag. 3), aveva anche osservato che il testo del messaggio in questione non appariva “eccentrico ed abnorme rispetto al complessivo tenore della conversazione” e che la frase fu “scritta dall’imputato dopo che aveva scambiato numerosi messaggi con la COGNOME“, il cui contenuto era “caratterizzato da espressioni volgari e scurrili, reciproci insulti e persino anche qualche minaccia da parte della donna” (pag. 19).
5. La sentenza impugnata, dunque, va annullata con rinvio alla Corte di appello di Perugia.
Il giudice del rinvio, sulla base dei princìpi sopra enunciati, fornirà adeguata motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto cui riterrà di dover pervenire.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Perugia.
Così deciso il 15/02/2024.