Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20753 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20753 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA a NAPOLI avverso l’ordinanza in data 03/01/2024 del TRIBUNALE DI GENOVA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; sentita la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; sentita l’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha illustrato i motivi d’impugnazione e ne ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
COGNOME NOME, per il tramite del proprio difensore, impugna l’ordinanza in data 03/01/2024 del Tribunale di Genova, che ha confermato l’ordinanza in data 21/12/2023 del G.i.p. del Tribunale di La Spezia, che aveva disposto la misura cautelare della custodia in carcere per il reto di estorsione aggravata dall’essere stata commessa nei confronti di persona ultrasessantacinquenne.
Deduce:
Violazione di legge in relazione agli artt. 640 e 629 cod. pen..
Il ricorrente sostiene che il fatto in esame andrebbe più correttamente qualificato come truffa aggravata dall’avere ingenerato il timore di un pericolo immaginario piuttosto che come estorsione.
A sostegno dell’assunto -dopo avere riassunto le differenze strutturali tra i
due reati- illustra la dinamica del fatto ed evidenzia come il sedicente impiegato delle Poste avesse indotto in errore la vittima rappresentandogli un pericolo immaginario ed eventuale, indicato nella necessità di denunciare il figlio della vittima e dalla prospettazione della perdita del ristorante ove non avesse pagato il debito.
Rimarca come, a fronte di tale stato di fatto, non sia possibile rintracciare una coartazione nei confronti della vittima, con la conseguenza che manca uno degli elementi costitutivi dell’estorsione.
Aggiunge che il tribunale ha omesso di considerare che l’utenza da cui proveniva la telefonata era differente rispetto a quelle rinvenuta nella disponibilità di COGNOME, così emergendo che non poteva essere stato lui a profferire la minaccia.
Violazione di legge e vizio di manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione agli artt. 274, lett. c), 275, comma 3 cod. proc. pen..
A tale proposito il ricorrente osserva che l’aggravante del fatto commesso in danno di persona ultrassessantacinquenne non è soggetta ad automatismi e deve essere valutata caso per caso. Sostiene, dunque, che il tribunale ha omesso di considerare che la vittima del reato si è dimostrata lucida, con la conseguenza che non può ritenersi configurata l’aggravante in questione.
Osserva altresì che non può essere valorizzato a carico dell’imputato il fatto di essersi avvalso della facoltà di non rispondere, essendo questo l’esercizio di un legittimo diritto; che la motivazione risulta apodittica quanto alle condizioni economiche della vittima; che il tribunale non ha considerato la giovane età di NOME e ha del tutto congetturalmente ritenuto che questi potesse commettere reati anche in ipotesi di una sua restrizione in un domicilio delocalizzato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile, perché manifestamente infondato e perché propone questioni non consentite in sede di legittimità.
1.1. La manifesta infondatezza attiene alla qualificazione giuridica del fatto.
Questo -grazie alle dichiarazioni della persona offesa- è stato pacificamente ricostruito nel senso che COGNOME NOME (nata il DATA_NASCITA), nel pomeriggio del 19.12.2023, riceveva sull’utenza domestica una telefonata da una donna, la quale le chiedeva dei soldi per saldare i rilevanti debiti del marito e del figlio. COGNOME rispondeva di non avere soldi e chiudeva il telefono. Seguivano, però, ulteriori telefonate, questa volta provenienti da un uomo che pure si qualificava come impiegato delle poste e le intimava di pagare i debiti, minacciando che in caso contrario le avrebbero portato via il ristorante e avrebbero denunciato il figlio. A fronte di ciò, la malcapitata (che intanto aveva ricevuto altra telefonata da un uomo che diceva di essere suo figlio e le diceva di consegnare soldi e oro) consegnava del denaro e dei soldi, riposti in una scatola che consegnava a un giovane.
A margine del fatto, va rammentato che tale consegna avveniva sotto l’osservazione della polizia giudiziaria, che aveva notato questo giovane in nervosa in attesa e -insospettitasi dall’atteggiamento- l’aveva seguito e lo aveva visto prendere la scatola di legno della donna e, quindi, prontamente fermato.
1.2. Così ricostruito il fatto, va ricordato che l’induzione in errore costituente l’elemento costitutivo della truffa si inserisce nel procedimento di formazione della volontà del soggetto passivo, ed è la chiave attraverso cui il soggetto agente ottiene dalla vittima il compimento consensuale di un atto patrimoniale.
Vale rimarcare come, invece, nell’estorsione il compimento dell’atto patrimoniale è il frutto della coartazione provocata dalla necessità di evitare il male minacciato.
Da ciò discende che, quando il pericolo immaginario venga prospettato al fine di pretendere una condotta non voluta, si configura una coartazione della volontà e non un’interferenza o una deviazione nel procedimento della sua formazione, così che, in tale ipotesi, ci si trova al di fuori del paradigma della truffa, ricadendosi negli elementi strutturali dell’estorsione. In questo caso, infatti, l’atto patrimoniale non è voluto dalla vittima, che -invece- lo compie soggiacendo e cedendo alla richiesta dell’agente soltanto perché intimorita dalle conseguenze malevoli prospettatagli dall’agente e al solo fine di evitare le stesse.
Con maggior sintesi, si può osservare che nella truffa l’ingiusto profitto viene realizzato con il consenso della vittima, mentre nell’estorsione esso viene realizzato contro la sua volontà, che viene piegata proprio dal timore di subire le conseguenze prospettate dall’agente in caso di mancata realizzazione della condotta, del comportamento o dell’atto patrimoniale richiesto.
Tanto è accaduto nel caso in esame, dove la vittima ha consegnato il denaro contro la sua volontà, in ciò costretta dalla minaccia (sia pure di un male ingiusto immaginario) profferita dagli autori del fatto delittuoso, che evocavano la perdita del ristorante e la denuncia del figlio.
Da ciò la manifesta infondatezza dell’assunto difensivo, in palese contrasto con l’insegnamento di questa Corte, che ha più volte spiegato che «Il criterio distintivo tra il delitto di estorsione mediante minaccia e quello di truffa cd. vessatoria consiste nel diverso atteggiarsi del pericolo prospettato, sicché si ha truffa aggravata ai sensi dell’art. 640, comma secondo, n.2, cod. pen. quando il danno viene prospettato come possibile ed eventuale e mai proveniente direttamente o indirettamente dall’agente, di modo che la persona offesa non è coartata nella sua volontà, ma si determina all’azione od omissione versando in stato di errore, mentre ricorre il delitto di estorsione quando viene prospettata l’esistenza di un pericolo reale di un accadimento il cui verificarsi è attribuibile, direttamente o indirettamente, all’agente ed è tale da non indurre la persona offesa
in errore, ma, piuttosto, nell’alternativa ineluttabile di subire lo spossessamento voluto dall’agente o di incorrere nel danno minacciato», (Sez. 2 – , Sentenza n. 24624 del 17/07/2020, COGNOME, Rv. 279492 – 01).
1.3. Va rilevato come il ricorrente, sia pure in seno al motivo relativo alle esigenze cautelari, evoca argomentazioni riconducibili al requisito dei gravi indizi di colpevolezza, in quanto con esse si fa presente che nessuno dei telefoni in possesso di COGNOME è risultato essere tra quelli da cui provenivano le telefonate minatore.
A parte la natura meramente valutativa della deduzione -e per ciò solo inammissibile- va comunque rimarcato come il ricorrente sia stato arrestato nella flagranza del reato, in quanto la polizia giudiziaria lo vedeva ricevere dalla vittima la scatola contenente i soldi e i monili, ossia l’ingiusto profitto dell’estorsione.
Circostanza del tutto trascurata nel ricorso e che risulta altamente significativa del diretto coinvolgimento dell’indagato nella vicenda estorsiva in esame.
1.4. Risulta manifestamente infondata anche l’ulteriore obiezione della difesa, secondo cui l’aggravante di cui all’art. 628, comma terzo, n. 3-quinquies, cod. pen. necessita di una previa verifica sulla effettiva vulnerabilità della vittima.
In realtà, questa Corte ha già avuto modo di affermare che «La circostanza aggravante speciale, prevista, per il delitto di rapina, dall’art. 628, comma terzo, n. 3-quinquies, cod. pen., è correlata al dato del superamento dell’età di sessantacinque anni da parte della persona offesa, e non alla presunzione relativa di maggior vulnerabilità della vittima in ragione dell’età, cui fa, invece, riferimento la circostanza aggravante comune prevista dall’art. 61, n. 5, cod. pen. (In motivazione, la Corte ha precisato che ricorre l’aggravante dell’età della vittima di cui all’art. 628, terzo comma, n. 3-quinquies, cod. pen. nel caso di rapina commessa in danno di persona ultrasessantacinquenne, senza che sia necessaria una specifica indagine sull’effettiva incidenza dell’età della parte lesa sulla consumazione della condotta criminosa, ovvero senza possibilità di dimostrare l’irrilevanza, nel caso specifico, del dato anagrafico)» (Sez. 2 – , Sentenza n. 17320 del 09/12/2022 Ud., dep. il 2023, COGNOME, Rv. 284527 – 01).
Quanto alle esigenze cautelari, alla loro attualità e alla loro concretezza oltre che alla scelta della misura adeguata a contenerla, il tribunale ha valorizzato sia la professionalità dimostrata da COGNOME nella perpetrazione dell’estorsione (preceduta da uno studio sulla composizione della famiglia della vittima), sia la pervicacia delinquenziale dimostrata dall’indagato che per perpetrare il delitto è giunto in Liguria partendo dalla Campania.
La valorizzazione di tutti tali elementi dimostra che il tribunale ha solo marginalmente considerato a fini cautelari l’esercizio della facoltà di non rispondere, così risultando smentita l’asserzione difensiva secondo cui la misura cautelare
sarebbe stata fondata sull’esercizio della facoltà di non rispondere.
Quanto alla misura, il tribunale ha osservato che tutti gli elementi già illustrati facevano ritenere che gli arresti domiciliari, sia pure con braccialetto elettronico, non sarebbero stati idonei a contenere la spinta delinquenziale rinvenuta in COGNOME.
Va dunque rilevato come dalla lettura del complessivo apparato argomentativo non emergano vizi riconducibili alla manifesta illogicità ovvero alla contraddittorietà, mentre, d’altro canto, le censure sviluppate con l’impugnazione si risolvono in un’interpretazione degli elementi fattuali antagonista a quella dei giudici del merito.
Va a tal proposito ricordato che in tema di misure cautelari personali «il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito» (Sez. 2, Sentenza n. 31553 del 17/05/2017, Paviglianiti, Rv. 270628 – 01; Sez. 4, Sentenza n. 18795 del 02/03/2017, COGNOME, Rv. 269884 – 01; Sez. 6, Sentenza n. 11194 del 08/03/2012, Lupo Rv. 252178).
Quanto COGNOME esposto COGNOME porta COGNOME alla COGNOME declaratoria COGNOME di COGNOME inammissibilità dell’impugnazione, cui segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
Una copia del presente provvedimento deve essere trasmessa, a cura della Cancelleria, al Direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma 1- ter, disp. att. cod. proc. pen., in quanto dalla sua pronuncia non consegue la rimessione in libertà del detenuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma iter, Disp. Att. Cod. Proc. Pen..
COGNOME
Così deciso il 3 aprile 2024 Il Consigliere estensore
Il Presidente