Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 35853 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 35853 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/07/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
1.NOME NOME, NOME a Reggio Calabria il DATA_NASCITA
2.NOME NOME, NOME a Reggio Calabria il DATA_NASCITA
3.01lio NOME NOME a Reggio Calabria il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 22/02/2024 della Corte di appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugNOME e i ricorsi; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO COGNOME; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo il rigetto; udito l’AVV_NOTAIO, difensore di NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso; udito l’AVV_NOTAIO, difensore di NOME COGNOME , e in sostituzione dell’AVV_NOTAIO, difensore di NOME, che ha concluso
chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Reggio Calabria, decidendo in sede di rinvio a seguito di annullamento di questa Suprema Corte dell’11/12/2017, in parziale riforma della sentenza del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria del 29 maggio 2015, rideterminava la pena nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, accusati di avere tentato di estorcere a tale NOME COGNOME la somma di duemila euro, asseritamente dovuta da quest’ultimo a NOME COGNOME a saldo di un pregresso rapporto obbligatorio, con l’aggravante dell’utilizzo di “modalità mafiose”.
1.1. Con la sentenza rescindente, questa Suprema Corte segnalava carenza di motivazione quanto alla ritenuta inattendibilità della parte offesa e profili di illogicità quanto alla derubricazione del contestato delitto nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e alla esclusione della aggravante del metodo mafioso sulla base del rilievo che : «appariva del tutto illogico qualificare come concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante l’utilizzo di violenza sulle persone la condotta posta in essere, precedentemente e a prescindere dall’eventuale intervento del presunto titolare del credito , da terzi che erano sprovvisti di uno degli elementi essenziali ai fini dell’integrazione della fattispecie nei loro confronti, ovvero la titolarità del diritto» .
1.2. Hanno proposto ricorso gli imputati, con atti sottoscritti dai rispettivi difensori, formulando i motivi di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. NOME COGNOME ha dedotto:
2.1. violazione di legge, in relazione all’art. 629 cod. pen., e vizio di motivazione, per avere la Corte di appello ignorato i principi di diritto fissati dalle Sez. Un. con la sentenza “Filardo” e ribaditi dalla successiva giurisprudenza di legittimità ( Sez. 2, n 11856 del 31 marzo 2022) quanto alla distinzione tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni; per avere assertivamente individuato in capo ai coimputati un interesse ulteriore e diverso rispetto a quello vantato dal creditore; per non avere approfondito la quaestio facti della esistenza di un diritto di credito che lo COGNOME vantava nei confronti della presunta vittima di estorsione;
2.2. violazione di legge, in relazione all’art. 7 legge 12 luglio 1991, n. 203 (ora art. 416 bis. 1 cod. pen.), e vizio di motivazione, per omissione e illogicità, avendo la Corte distrettuale disatteso i principi sanciti dalle Sez. Un. con la sentenza “Chioccini”;
2.3. violazione di legge, in relazione agli artt. 133, 99 e 62 -bis, cod. pen., e vizio di motivazione per avere la Corte distrettuale riconosciuto in modo automatico la recidiva, senza motivare sul concreto pericolo di recidivanza, e per avere negato le circostanze attenuanti generiche.
3. NOME COGNOME ha dedotto:
3.1. violazione di legge, in relazione all’art. 629 cod. pen., e vizio di motivazione per avere la Corte di appello fondato la decisione di condanna sulle dichiarazioni “autoreferenziali” della presunta persona offesa e su video riprese inutilizzabili; per avere omesso di considerare che gli imputati avevano agito nella consapevolezza di recuperare un credito altrui, effettivamente esistente, non di conseguire un ingiusto profitto;
3.2. violazione di legge, in relazione all’art. 7 legge 12 luglio 1991, n. 203, per avere la sentenza impugnata ritenuto sussistente l’aggravante del metodo mafioso sulla scorta delle dichiarazioni del COGNOME, dell’assenza di metus in capo alla presunta vittima e dell’assenza di modalità evocative di forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo, non essendo al riguardo sufficiente il mero riferimento alla necessità di destinare la somma ai detenuti;
3.3. violazione di legge, in relazione all’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., e vizio di mancanza di motivazione, per avere la Corte ripercorso l’iter motivazionale censurato dalla Corte di cassazione nella sentenza rescindente, da un lato omettendo di valutare l’esistenza di un rapporto obbligatorio tra la presunta vittima e lo NOME e dall’altro valutando questioni su cui si era formato il giudicato implicito;
3.4. violazione di legge, in relazione agli artt. 132 e 133 cod. pen., e vizio di motivazione, per illogicità ed omissione, non avendo la Corte di appello motivato in ordine alla entità della pena irrogata.
4. NOME ha dedotto:
4.1. violazione di legge, in relazione all’art. 629 cod. pen. e all’art. 393 cod. pen, e vizio di illogicità della motivazione, per avere la sentenza impugnata sussunto la fattispecie concreta nel delitto di estorsione nonostante NOME e NOME avessero agito per riscuotere il credito vantato dallo NOME e in assenza di interesse personale, assertivamente ritenuto esistente dai Giudici di merito;
4.2. violazione di legge, in relazione all’art. 416 bis.1 cod. pen., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, avendo la Corte di merito fatto applicazione di un principio di diritto superato dal diverso e maggioritario indirizzo della Corte di cassazione, secondo cui non è sufficiente la
sola esternazione dell’appartenenza ad una consorteria criminosa anche nelle zone in cui operano consorterie mafiose storiche, ma è necessario l’accertamento di un quid pluris, sollecitando una eventuale rimessione del contrasto giurisprudenziale alle Sezioni Unite.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi non superano il preliminare vaglio di ammissibilità.
1.1. Prioritario è l’esame del motivo sub 3.3. con cui si deduce la violazione dell’art. 627, comma 3, cod. proc. pen., atteso che il tema di indagine dell’odierno giudizio di legittimità – che fa seguito ad un precedente annullamento – consiste fondamentalmente nell’accertare se il giudice di rinvio abbia o meno osservato la regola dettata dall’anzidetta disposizione.
Il motivo è manifestamente infondato.
Dispone l’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. che “il giudice di rinvio si uniforma alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa”. E’ evidente, dalla stessa chiara dizione letterale del precetto, che l’ambito della autonomia di valutazione del giudice di rinvio è naturalmente delimitato: lo stesso, pur restando libero di determinare il proprio apprezzamento di merito mediante un’autonoma valutazione delle emergenze probatorie concernenti il punto annullato, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando vincolato ad una determinata valutazione delle risultanze processuali o al compimento di una certa indagine, in precedenza omessa, di determinante rilevanza ai fini della decisione (Sez. 6, n. 19206 del 10/01/2013, Rv. 255122; Sez. 5, n. 7567 del 24/09/2012, Rv. 254830; Sez. 1, n. 7963 del 15/01/2007, Rv. 236242). Ne consegue che gli spazi di valutazione spettanti al giudice in sede di rinvio sono inversamente proporzionali alla specificità dei princìpi di diritto e delle ulteriori statuizioni rassegnati da quello di legittimità con la sentenza di annullamento.
1.2. Nel caso di specie, la Corte di cassazione – nella sentenza rescindente – ha individuato vizi di motivazione, per omissione e illogicità, nel provvedimento che ha annullato, in ordine alla valutazione di attendibilità della persona offesa e alla derubricazione nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ed ha fissato stringenti principi di diritto che possono così sunteggiarsi:
«le dichiarazioni della persona offesa – cui non si applicano le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. – possono essere legittimamente poste a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa cui vengono sottoposte le dichiarazioni di
qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto»;
«i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza e minaccia alle persone e quello di estorsione si distinguono tra loro in relazione non già alla sussistenza o meno di una legittima pretesa creditoria alla base della condotta, bensì con riferimento alle modalità oggettive della richiesta, configurandosi il reato di estorsione in tutti i casi nei quali l’azione delittuosa è posta in essere non direttamente dal titolare del diritto, ma da soggetti terzi, che perseguono propri fini – di qualsiasi natura – che si sovrappongono a quelli del creditore, ovvero con modalità esecutive che esorbitano dalla esclusiva finalità dell’esercizio della pretesa creditoria, assumendo di per sè il carattere di ingiustizia»;
«integra la circostanza aggravante, prevista dall’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, la condotta di colui che, pur se estraneo ad organizzazioni criminali, chiede la dazione di somme di denaro con tipica metodologia mafiosa attraverso l’allusione ad esigenze di altri non ben precisati soggetti, facendo riferimento all’esistenza di amici in comune, a regali da fare ed alla necessità altrui come il mantenimento in carcere evocato dagli imputati»
1.3. Sulla base dei principi fissati dalla sentenza rescindente, la Corte di appello, con percorso logico-argomentativo esaustivamente delineato, ha scrutiNOME il profilo della attendibilità della persona offesa (pagg.4 -5 della sentenza impugnata) ed ha risolto la “quaestio facti” in ordine alla esistenza di un pregresso rapporto di dare ed avere inter partes, illustrando la incidenza che l’accertamento di un diritto di credito in capo allo NOME potesse avere sulla attendibilità della vittima, sulla tenuta logica del costrutto accusatorio e sulla qualificazione giuridica della vicenda “sub iudice” (pag. 6 della sentenza impugnata).
Al cospetto di tanto, i ricorsi – nel prospettare la violazione del citato precetto – da un lato non hanno illustrato in modo specifico i punti di frizione e di contrasto tra la sentenza rescissoria e quella rescindente e, dall’altro lato, hanno evocato concetti neutri e poco pertinenti rispetto al devolutum.
2. Ciò posto, è necessario osservare come – ai sensi dell’art. 627, comma 3, cit.- il giudice di rinvio sia tenuto a uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per quanto riguarda ogni questione di diritto con essa decisa. Tale obbligo è assoluto e inderogabile anche quando, a seguito di tale decisione, sia intervenuto un mutamento di giurisprudenza, pur se determiNOME da una pronuncia delle Sezioni Unite, considerata l’immodificabilità del giudicato già perfezioNOMEsi sul punto di diritto deciso dalla sentenza di annullamento con rinvio
e la conseguente sussistenza del vincolo proprio del giudizio rescissorio. ( ex multis, Sez.1 n 464 del 22/09/2020 Di Leo Rv. 280213-01; Sez.5. , n 41334 del 19/09/2013 , Rv 257941-01).
2.1. Questo punto di approdo impone di disattendere tutte le doglianze individuate nei motivi sub 2.2., 3.3.,in parte, e 4.2. – con i quali i difensori hanno svolto deduzioni finalizzate a proporre una differente interpretazione della “quaestío iuris” già decisa nella sentenza rescindente e coperta dal giudicato, richiamando approdi di altre Sezioni semplici della Corte di cassazione e persino a sollecitare la rimessione alle Sezioni Unite.
Possono essere trattati congiuntamente i motivi sub 1.1., 2.1.e 3.1. per la sovrapponibilità del thema decidendum.
E’ inammissibile, perché genericamente formulata e volta alla rivalutazione del fatto, come tale articolata con censure irricevibili nel giudizio di cassazione, la doglianza secondo cui la Corte distrettuale avrebbe ricostruito la vicenda “sub iudice” sulla base delle dichiarazioni “autoreferenziali” di NOME COGNOME e dei fotogrammi estrapolati dal sistema di video-ripresa installato sul “tocus commissí delíctr.
I Giudici di merito, in modo succinto ma congruo, hanno fornito una valutazione logica della res ludicanda e fatto corretta applicazione dei consolidati principi di diritto in punto di verifica della credibilità della persona offesa.
Si è al riguardo chiarito che: a) NOME COGNOME non aveva alcun motivo per muovere accuse calunniose nei confronti degli imputati, né del resto i difensori avevano allegato alcunchè; b) egli non era mosso da sentimenti di rivalsa, avendo rimesso la querela e non avanzato pretese risarcitorie; c)i fatti, nella loro oggettiva storicità e materialità, erano nella sostanza pacifici, avendo gli stessi imputati riferito dell’incontro avuto con il COGNOME, della causale dello stesso ( i.e. richiesta di una somma di danaro per un pregresso credito dello NOME), della reazione della vittima e della evoluzione della vicenda in termini esattamente corrispondenti a quanto oggetto di denuncia-querela ( pag. 4 e 5 della sentenza impugnata).
Il “silenzio” serbato dalla persona offesa sul pregresso “rapporto di collaborazione” con lo NOME, che nella stessa sentenza rescindente veniva ritenuto fatto poco significativo, non indeboliva del resto la vis probatoria delle dichiarazioni rese e non sviliva la credibilità del COGNOME: spiegavano al riguardo i giudici di merito come non vi fosse alcun motivo logico perchè il COGNOME in sede di denuncia dovesse parlare di un rapporto lavorativo irregolare, conclusosi tra gli anni 2007/2008, ossia circa sei anni prima rispetto ai fatti di causa (sent. pag.5).
La logicità intrinseca che caratterizza la trama motivazionale della sentenza non è destrutturata dalle generiche illazioni difensive di “autoreferenzialità” delle
dichiarazioni del COGNOME o dalla eccepita inutilizzabilità delle videoriprese. In disparte ogni preliminare osservazione sulla ammissibilità e sulla manifesta infondatezza della questione, trattandosi di prove documentali acquisibili ex art. 234 cod. proc. pen. (Sez. 2 n 6515 del 04/02/2015 Rv. 263432)- è sufficiente infatti osservare come la prova in oggetto non sia stata valorizzata dai Giudici di merito nella ricostruzione fattuale della vicenda.
3.1. La prospettazione difensiva circa la esistenza di un diritto di credito in capo allo NOME e l’intervento ad adiuvandum di NOME e NOME è stata oggetto di puntuale scrutinio da parte del giudice di merito, che, nell’illustrare le ragioni per le quali il complessivo modus agendi degli imputati fosse inconciliabile con una pretesa lecita, non si è sottratto all’onere di rendere una congrua e logica motivazione (cfr pag. 5 della sentenza).
Del resto, la Corte distrettuale si è premurata anche di svolgere una ulteriore verifica, non esonerandosi dal compito di analizzare i possibili risvolti sul piano delle responsabilità penali degli imputati in caso di effettiva esistenza inter partes di un pregresso rapporto obbligatorio ex contractu.
Con argomentazioni saldamente ancorate al dato probatorio, ha spiegato infatti come l’invio da parte dello NOME di intermediari per formulare minacce nei confronti di RAGIONE_SOCIALE per soddisfare un credito (anche se effettivamente esistente) e il solerte intervento miNOMErio di NOME e NOME non consentissero in ogni caso di inquadrare la fattispecie nel paradigma normativo del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Tanto alla stregua dei vincolanti principi di diritto fissati nella sentenza rescindente. Lo COGNOME, dopo anni dalla chiusura del rapporto di lavoro con il COGNOME, decideva ex abrupto di recuperare il saldo in modo poco ortodosso, rivolgendosi a NOME NOME NOME, persone non munite di particolari competenze e con le quali non risultava avere un rapporto di particolare confidenzialità o di stretta amicizia, tanto è vero che NOME e NOME non conoscevano nemmeno il numero di telefono dello NOME: costoro, in tale contesto, accettavano il rischio di porre in essere una condotta comunque non penalmente irrilevante, recandosi dal COGNOME, in compagnia di una terza persona che rimaneva all’esterno fungendo da palo, formulando minacce- circostanziate e precise- e vantando contiguità con la criminalità organizzata, pur di recuperare il credito altrui.
3.2. A fronte di tale adeguato apparato argomentativo, da un lato i ricorrenti non hanno realmente “dialogato” con gli argomenti che il giudice di merito ha posto a fondamento della propria decisione, riproponendo in modo generico questioni già congruamente scrutinante, dall’altro lato hanno sollecitato una ricostruzione dei fatti alternativa rispetto a quella privilegiata nel provvedimento impugNOME, preclusa come tale in sede di legittimità. Costituisce, infatti, ius
receptum il principio secondo cui la sentenza non può essere annullata sulla base di mere prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’assunzione di nuovi parametri di ricostruzione e di valutazione dei fatti, da preferire rispetto a quelli adottati dal giudice di merito. Nel sindacato sui vizi di motivazione, il giudice non può sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, essendo il suo compito circoscritto alla verifica dell’esame di tutti gli elementi a disposizione, della corretta interpretazione di essi, della risposta alle deduzioni delle parti e della applicazione delle regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (così, ex multis, Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; Sez. 6., n 2256 del 26/04/2006, COGNOME, Rv.234148)
4. Manifestamente infondate devono ritenersi le censure comuni ai ricorrenti sub punti 1.2., 2.2.e 3.2, relative alla contestazione dell’aggravante del metodo mafioso.
Fermo quanto già rilevato sulla inammissibilità di una interpretazione che si discosti dal principio di diritto sancito nella sentenza rescindente e la assoluta non pertinenza della giurisprudenza richiamata nel ricorso dello COGNOME, che è chiaramente riferita alla diversa circostanza aggravante- nel caso non contestatadell’agevolazione mafiosa, si osserva come le censure genericamente formulate dai ricorrenti non destrutturino la intrinseca logicità dell’apparato motivazionale, essendo ius receptum il principio secondo cui la reazione della vittima non esclude ex se ed eo ipso la mafiosità del metodo (Sez. 1, n 14951 del 06/03/2009 , Rv 243731-01).
Nel caso di specie, poi, NOME e NOME, nel richiedere il danaro, avevano evocato l’interesse di soggetti detenuti e, in un territorio caratterizzato dalla presenza di mafie storiche, posto in risalto la contiguità con contesti mafiosi, segnalando di avere in passato risolto “problemi di guerre di’ ndrangheta” e così ventilando la possibilità di un intervento delle predette organizzazioni criminali.
4.1. Il percorso argomentativo è indenne dai prospettati vulnus motivazionali e si pone in piena linea di continuità con i principi di diritto fissati dalla Corte di cassazione nella sentenza rescindente, ove si è richiamato il principio secondo cui la circostanza aggravante del metodo mafioso prevista dall’art. 7 del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n 203 (oggi art. 416bis.1 cod. pen) è integrata dalla condotta di colui che « pur se estraneo ad organizzazioni criminali, chiede la dazione di somme di danaro con tipica metodologia mafiosa, attraverso l’allusione ad esigenze di altri non ben precisati
soggetti , facendo riferimento all’esistenza di un amico in comune, a regali da fare e/ a necessità altrui come il mantenimento dei carcerati evocato dagli imputati».
In punto di trattamento sanzioNOMErio le doglianze, presentate nel solo interesse di COGNOME e di COGNOME, sono inammissibili perché proposte all’infuori del perimetro normativo di riferimento.
Quanto alla doglianza relativa alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e all’applicazione di una pena superiore al minimo edittale, si osserva che dette statuizioni implicano una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito e quindi sfuggono al sindacato di legittimità, se non frutto di mero arbitrio o di ragionamento manifestamente illogico: aspetti di negatività, nel caso di specie, assenti.
La Corte territoriale, in modo congruo ed esaustivo, ha fatto riferimento alla gravità dei fatti commessi, al curriculum vitae di COGNOME, all’assenza di elementi fattuali meritevoli di positivo apprezzamento. Quanto poi allo scollamento dal minimo edittale, la pena base – sebbene determinata in misura superiore al minimo edittale – è stata comunque contenuta entro la media edittale, di guisa che non era richiesta una argomentazione dettagliata, essendo all’uopo sufficiente il richiamo alla gravità dei fatti e alla negativa personalità dei ricorrenti (così, ex multis, Sez. 3, n 38251 del 15/06/2016, Rignanese, Rv. 267949).
In relazione alla censura inerente alla mancanza di motivazione in ordine at riconoscimento della recidiva in capo allo NOME, il devolutum nei termini proposti “sfugge” al vaglio della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 609, comma 3, cod. proc. pen. La norma citata, precipitato logico-giuridico del principio devolutivo, circoscrive la cognizione della Corte di cassazione entro il limite segNOME dai motivi dedotti nell’atto di appello e preclude al giudice ad quem di estendere d’ufficio, salvo le eccezioni ex lege previste, la cognizione a questioni non prese in esame dal giudice a quo. Pertanto, per potere invocare una lacuna motivazionale o un vizio di illogicità è necessario che il giudice a quo sia stato posto in grado di conoscere e di esaminare la censura.
Nel caso in esame, lo COGNOME, con l’atto di appello, aveva solo genericamente chiesto la esclusione della recidiva. Pertanto, in ragione della evidente inammissibilità del motivo, la Corte distrettuale era esonerata da ogni valutazione al riguardo.
Alla inammissibilità dei ricorsi segue – ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. – la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si stima equo fissare in tremila
euro, non ravvisandosi una loro assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (vedi Corte Costit., sent. n 186 del 13 giugno 2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 03/07/2024.