Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 8195 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 8195 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 04/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a RAFFADALI il 27/11/1948
avverso la sentenza del 24/04/2024 della CORTE APPELLO di PALERMO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Letto il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME
Lette le conclusioni scritte in data 20 gennaio 2025 con le quali il difensore della parte civile NOME COGNOME ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso e la liquidazione delle spese e degli onorari di fase di cui alla not contestualmente depositata.
Lette le conclusioni scritte in data 28 gennaio 2025 con le quali il difensore della parte civile NOME COGNOME ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso e la liquidazione delle spese e degli onorari di fase di cui alla nota contestualmente depositata.
Considerato che con un unico articolato motivo di ricorso la difesa dell’imputato deduce vizi di motivazione della sentenza impugnata in relazione all’intervenuta affermazione della penale responsabilità del COGNOME in relazione al reato di estorsione continuata: in particolare si contestano il mancato buon governo del contenuto delle conversazioni intercettate e la non corretta valutazione di attendibilità delle dichiarazioni delle persone offese;
che la sentenza impugnata risulta congruamente motivata proprio sotto i profili dedotti da parte ricorrente. Inoltre, detta motivazione, non è certo apparente, né “manifestamente” illogica e tantomeno contraddittoria;
che la Corte di merito con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha esplicitato le ragioni del proprio convincimento, evidenziando che: a) la mancanza di accertamenti sull’effettivo ammontare delle buste paga delle lavoratrici si giustifica in ragione della non tracciabilità delle operazioni, essendo le restituzioni indebite effettuate dalle persone offese nei confronti del ricorrente avvenute con il versamento di somme di denaro in contanti; b) le minacce di licenziamento da parte del COGNOME e le difficoltà economiche che costringevano le vittime a sottostare alle condotte criminose del ricorrente sono emerse da quanto riferito dalle persone offese in sede di escussione testimoniale; c) dalle dichiarazioni delle persone offese, peraltro ritenute pienamente credibili, è stata tratta la prova delle condotte estorsive poste in essere dal ricorrente al fine di ottenere indebitamente una parte della busta paga delle lavoratrici dipendenti della struttura, dietro minaccia di licenziamento;
che se è ben vero che nel capo A della rubrica delle imputazioni l’attività estorsiva è contestata sia sotto il profilo della “non assunzione” delle lavoratrici qualora non avessero accettato di sottostare alle condizioni economiche e lavorative imposte dal datore di lavoro, sia, in un momento successivo, allorquando il rapporto
di lavoro era già in atto, sotto il profilo della “interruzione del rapporto” (legga minaccia di licenziamento) se non si fosse dato seguito alla pretesa (v. pag. 24 della sentenza del Tribunale) di sottoscrivere buste paga per un importo superiore restituendo all’imputato l’importo dell’eccedenza in contanti, il tutto caratterizzato da rimproveri, ritorsioni e da un generale aggravio delle condizioni lavorative delle dipendenti stesse;
che, in punto di diritto, mentre è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che «Integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate» (Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017, Tessitore, Rv. 269905 – 01), è controverso nella stessa giurisprudenza se il predetto reato sia configurabile anche nel caso in cui la prospettazione dell’alternativa tra la rinunzia a parte della retribuzione e la perdit dell’opportunità di lavoro sia già stata effettuata al momento dell’assunzione (v. ex ceteris: sulla non configurabilità del reato Sez. 2, n. 6591 del 16/01/2024, Ferrara, Rv. 285934 – 01 ed in senso contrario Sez. 2, n. 8477 del 20/02/2019, COGNOME, Rv. 275613 – 01);
che, tuttavia, nel caso in esame, ci si trova in presenza di una attività da parte dell’imputato – così come ricostruita dei Giudici di merito – che è andata al di là delle mere prospettazioni iniziali di condizioni di lavoro particolarmente gravose e di una retribuzione iniqua (comunque inferiore a quella risultante dalle buste paga) ma che si è concretizzata, in costanza del rapporto di lavoro, mediante ulteriori condotte consistite, per l’appunto, non solo nella minaccia di licenziamento ma anche da una serie di condotte aventi chiara portata intimidatoria (attribuzione a titolo ritorsivo turni comportanti un complessivo aggravio delle condizioni lavorative, sospensioni della retribuzione per mesi) indubbiamente finalizzate all’ottenimento di un profitto economico ingiusto con pari danno delle lavoratrici qualora le stesse si fossero rifiutate di restituire parte del salario, situazioni queste che consentono chiaramente di qualificare la condotta tenuta dal COGNOME come di natura estorsiva;
che deve, ancora, osservarsi che parte ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’asseritamente connessa violazione di legge nella valutazione del materiale probatorio, tenta in realtà di sottoporre a questa Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito. Al Giudice di legittimità è infatti preclusa – in sede controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati da giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova disciplina introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, è – e resta giudice della motivazione. In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria d singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965);
che in tema di prove, la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, COGNOME, Rv. 257241) vizio non emergente nel caso in esame;
rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende;
Rilevato, infine, che non possono accogliersi le richieste di rifusione delle spese formulate nell’interesse delle parti civili NOME COGNOME e NOME COGNOME. Infatti, come da ultimo riaffermato nella sentenza delle Sezioni Unite “Sacchettino” di questa Corte (Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Rv. 283886 in motivazione), già nella sentenza delle Sezioni Unite “Gallo” (Sez. U, n. 5466 del 28/01/2004, Rv. 226716-01) si era chiarito che nel procedimento che si svolge dinanzi alla Corte di cassazione in camera di consiglio nelle forme previste dagli artt. 610 e 611 cod. proc. pen., ovvero con rito camerale c.d. “non partecipato”, quando il ricorso dell’imputato viene dichiarato, per qualsiasi causa, inammissibile, va disposta la condanna al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile,
purché, in sede di legittimità, la stessa parte civile abbia effettivamente esplicato, ne modi e nei limiti consentiti, un’attività diretta a contrastare la pretesa dell’imputa per la tutela dei propri interessi;
che nel caso in esame, in applicazione di tale condiviso principio di diritto, costantemente enunciato in riferimento a tutte le forme di giudizio camerale non partecipato, la liquidazione delle spese processali riferibili alla fase di legittimit favore delle parti civili sopra indicate non è dovuta, perché esse non hanno fornito alcun contributo, essendosi limitate a richiedere il rigetto o l’inammissibilità de ricorso, con vittoria di spese, senza contrastare specificamente i motivi di impugnazione proposti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Rigetta le richieste di liquidazione delle spese processuali delle parti civili NOME e COGNOME NOME.
Così deciso il 4 febbraio 2025.