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Estorsione del datore di lavoro: la firma della busta paga

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per estorsione del datore di lavoro che costringeva le dipendenti a firmare buste paga attestanti retribuzioni superiori a quelle effettivamente percepite. Secondo la Corte, la minaccia di non pagare lo stipendio o di licenziare integra il reato di estorsione, creando un danno per la lavoratrice e un ingiusto profitto per l’imprenditore, a prescindere da eventuali accordi iniziali per una paga inferiore.

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Pubblicato il 27 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Estorsione del datore di lavoro: la firma sulla busta paga non veritiera integra il reato

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha ribadito un principio fondamentale in materia di estorsione del datore di lavoro, stabilendo che costringere un dipendente a firmare una busta paga che attesta il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente ricevute, sotto la minaccia di non corrispondere alcuna retribuzione, costituisce reato. Questa decisione offre importanti chiarimenti sulla tutela dei lavoratori in situazioni di vulnerabilità.

I fatti del caso

Un imprenditore, titolare di un’azienda calzaturiera, è stato condannato in primo e secondo grado per il reato di estorsione continuata ai danni di due sue dipendenti. Secondo l’accusa, il datore di lavoro le costringeva a sottoscrivere buste paga che riportavano acconti e somme superiori a quelle reali. Quando le lavoratrici chiedevano spiegazioni, la risposta era inequivocabile: o firmavano, accettando la paga inferiore, oppure non avrebbero ricevuto nulla e avrebbero potuto “andarsene”.

L’imprenditore ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo diverse tesi difensive. In particolare, ha lamentato che le testimonianze delle lavoratrici non fossero genuine, in quanto influenzate da domande suggestive poste dal giudice. Ha inoltre affermato che la firma sulla busta paga era una mera prassi amministrativa senza valore di quietanza e che, in ogni caso, mancava una vera e propria minaccia idonea a configurare il reato di estorsione.

L’estorsione del datore di lavoro e la decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la condanna. Gli Ermellini hanno chiarito che la condotta del datore di lavoro integra pienamente il delitto di estorsione. Approfittando della situazione di debolezza delle lavoratrici e della condizione del mercato del lavoro, l’imprenditore le ha costrette, con la minaccia larvata di licenziamento o di mancato pagamento, ad accettare condizioni retributive deteriori e a firmare documenti non veritieri.

La validità delle testimonianze

In primo luogo, la Corte ha respinto la censura relativa alle domande suggestive. Ha ricordato che, secondo un orientamento consolidato, la violazione del divieto di porre tali domande non rende inutilizzabile la testimonianza, ma incide solo sulla sua valutazione complessiva. Inoltre, il divieto non opera per il giudice, che agisce in una posizione di terzietà per accertare la verità.

La configurazione del reato di estorsione del datore di lavoro

Il cuore della sentenza risiede nella qualificazione giuridica dei fatti. La Cassazione ha spiegato che la minaccia non deve essere necessariamente esplicita. Frasi come “se non ti va bene, quella è la porta” o “se vuoi questi soldi, devi firmare” sono sufficienti a integrare la minaccia estorsiva, poiché pongono il lavoratore di fronte all’alternativa tra subire un’ingiustizia e perdere il posto di lavoro.

Le motivazioni

La Corte ha motivato la sua decisione evidenziando la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di estorsione (art. 629 c.p.):

1. La minaccia: La prospettiva di non ricevere alcuno stipendio o di essere licenziati è una minaccia grave che limita la libertà di autodeterminazione del lavoratore.
2. L’ingiusto profitto: Il profitto per il datore di lavoro è ingiusto perché consiste nel risparmiare sul costo del lavoro pagando meno di quanto formalmente dichiarato, e nell’ottenere documenti (le buste paga firmate) che creerebbero difficoltà probatorie al lavoratore in un eventuale contenzioso.
3. Il danno altrui: Il danno per il lavoratore è duplice. Da un lato, percepisce una retribuzione inferiore a quella dovuta. Dall’altro, risulta formalmente percettore di un reddito superiore a quello reale, con possibili conseguenze negative a livello fiscale e contributivo.

La Corte ha inoltre specificato che è irrilevante un eventuale accordo iniziale per una paga inferiore. Il reato si configura nella fase esecutiva del rapporto, quando il datore di lavoro, di fronte alla richiesta di pagamento corretto, usa la minaccia per imporre le sue condizioni illecite.

Le conclusioni

Questa sentenza rafforza la tutela penale dei lavoratori contro gli abusi datoriali. Si afferma con chiarezza che lo squilibrio di potere nel rapporto di lavoro non può essere sfruttato per imporre condizioni contrattuali illegittime. La firma della busta paga non è una formalità, ma un atto che dovrebbe certificare la verità della retribuzione corrisposta. Quando la firma è ottenuta con la minaccia di un danno ingiusto, come la perdita del salario o del lavoro, si entra a pieno titolo nel campo dell’estorsione. Per i datori di lavoro, questa decisione rappresenta un monito a rispettare non solo formalmente, ma anche sostanzialmente, i diritti retributivi e la dignità dei propri dipendenti.

Quando la richiesta di firmare una busta paga non veritiera diventa estorsione?
Diventa estorsione quando il datore di lavoro accompagna la richiesta con una minaccia, anche velata, di un danno ingiusto per il lavoratore (come non pagare lo stipendio o licenziarlo) al fine di ottenere un profitto illecito, costringendo il dipendente ad accettare condizioni retributive peggiori di quelle documentate.

Un accordo iniziale tra datore di lavoro e lavoratore per una paga inferiore a quella contrattuale esclude il reato di estorsione?
No. Secondo la Corte, il reato si configura nel momento in cui, durante l’esecuzione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro usa la minaccia per costringere il dipendente a continuare ad accettare tali condizioni o a firmare documenti falsi. L’accordo iniziale illecito non giustifica la successiva condotta estorsiva.

Le domande suggestive poste dal giudice a un testimone rendono la testimonianza nulla o inutilizzabile?
No, la Corte di Cassazione ha stabilito che la violazione del divieto di porre domande suggestive non comporta né la nullità né l’inutilizzabilità della deposizione. Tale circostanza può rilevare solo sul piano della valutazione della genuinità e dell’attendibilità complessiva della dichiarazione del testimone.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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