Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 29368 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 29368 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 26/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME nato a Carbonia il 19/05/1955
avverso la sentenza del 04/12/2024 della Corte d’appello di Cagliari visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME la quale ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata sia annullata con rinvio limitatamente alla pena pecuniaria;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 04/12/2024, la Corte d’appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza del 14/07/2023 del Tribunale di Cagliari: a) assolveva NOME COGNOME limitatamente all’episodio di estorsione ai danni di NOME COGNOME perché il fatto non sussiste; b) confermava la condanna dello stesso COGNOME per il reato di estorsione continuata ai danni di NOME COGNOME e di NOME COGNOME; c) rideterminava in tre anni e cinque mesi di reclusione ed € 850,00 di multa la pena irrogata al COGNOME per quest’ultimo reato continuato.
Secondo il capo d’imputazione, il reato di estorsione continuata era stato contestato al COGNOME «perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, quale titolare della Ditta RAGIONE_SOCIALE e datore di lavoro di COGNOME NOME e
NOME costringeva costoro a sottoscrivere buste paga nonostante l’indicazione di acconti detratti e non pagati, con la minaccia di non percepire alcuna retribuzione».
Avverso tale sentenza del 04/12/2024 della Corte d’appello di Cagliari, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore avv. NOME COGNOME NOME COGNOME affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., la violazione dell’art. 191, comma 1, cod. proc. pen., in relazione alla violazione dell’art. 499 dello stesso codice.
Il COGNOME denuncia che il Tribunale di Cagliari e la Corte d’appello di Cagliari avrebbero «violato i principi legali dell’assunzione della prova testimoniale».
Con riferimento, anzitutto, all’esame testimoniale di NOME COGNOME il ricorrente lamenta che, a fonte di risposte di tale testimone dalle quali «il Giudice ha preso da subito cognizione che la lavoratrice e così le sue colleghe non avessero ricevuto pressioni morali e/o patrimoniali da parte del COGNOME», lo stesso Giudice avrebbe formulato una domanda suggestiva «tesa a riempire la vacua ipotesi del reato contestato» della costrizione della COGNOME a sottoscrivere le buste paga, pena il mancato pagamento della retribuzione. Così facendo, il Giudice del Tribunale di Cagliari avrebbe violato l’art. 499 cod. proc. pen. e, per tale tramite, anche l’art. 191, comma 1, cod. proc. pen., «utilizzando la risposta oggetto della sua suggestione a base della sentenza».
Con riferimento, in secondo luogo, all’esame testimoniale di NOME COGNOME il ricorrente lamenta che il Giudice del Tribunale di Cagliari, dopo che tale testimone aveva affermato che «il quantum percepito ogni mese era stato concordato fin dall’origine del rapporto, talché nessuna costrizione veniva effettuata per la firma della busta paga» (così il ricorso) e che «non c’erano state discussioni alla firma periodica delle buste paga» (così il ricorso), lo stesso Giudice avrebbe formulato domande suggestive «indirizza la risposta della teste per farle dire che vi furono discussioni sul punto delle differenze retributive» (così i ricorso).
Ciò posto, il COGNOME deduce che la Corte d’appello di Cagliari, nel motivare il rigetto del suo motivo di appello al riguardo, non avrebbe «tenuto conto che le risposte non genuine hanno inciso sul complessivo risultato probatorio stante che le prove così raccolte hanno reso globalmente non utilizzabili le testimonianze delle due parti offese ai sensi dell’art. 191 c.p.p.»
2.2. Il secondo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ed è articolato in sei profili.
2.2.1. Sotto un primo profilo, il Mulas denuncia la «mancata pronuncia sulle censure mosse nell’atto di appello in ordine alle contraddittorie risposte delle testi
indotte da suggestioni poste in essere dal P.M. e Giudice in relazione agli artt. 125, 192 c.p.p.».
Il ricorrente deduce che la doglianza avanzata con il primo motivo «produce inevitabilmente conseguenze censorie anche in ordine al presente motivo giacché la sentenza d’appello non offre alcuna motivazione in ordine alle rilevate violazioni poste in essere sia dal P.M. che dal Giudice e del conseguente utilizzo delle testimonianze palesemente non genuine», considerato che la Corte d’appello di Cagliari avrebbe omesso di motivare circa «il comportamento decisamente suggestivo denunciato minuziosamente nell’atto di appello».
Il COGNOME lamenta altresì che la Corte d’appello di Cagliari non avrebbe motivato neppure su quanto egli aveva prospettato nel proprio atto di appello in ordine al fatto che la sottoscrizione delle buste paga «era dovuta per consuetudine» e non era «una condizione sine qua non per ricevere lo stipendio», richiamando, a tale proposito, le dichiarazioni dei testimoni NOME COGNOMEispettrice del lavoro) e NOME COGNOME e NOME COGNOME (dipendenti di RAGIONE_SOCIALE.
2.2.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente denuncia la «arenza di motivazione in ordine alla violazione dell’art. 533 (1° comma) dedotta con i motivi di appello (pag. 16 dell’appello) relativamente agli innumerevoli dubbi e contraddizioni emersi dalle prove testimoniali delle parti offese (COGNOME e COGNOME)».
Secondo il COGNOME, la Corte d’appello di Cagliari non avrebbe motivato in ordine alla lamentata «erronea valutazione delle prove testimoniali, non utilizzate secondo il principio» per cui l’imputato è condannato se risulta colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio» (art. 533, comma 1, cod. proc. pen.).
La Corte d’appello di Cagliari aveva «dovuto gioco forza sì ammettere» l’insussistenza dell’episodio di estorsione ai danni di NOME COGNOME ma nulla avrebbe detto «circa il perché non ha ritenuto accoglibile la richiesta di assoluzione per l’assenza del reato anche per le altre colleghe giacché identico è stato il comportamento del COGNOME».
2.2.3. Sotto un terzo profilo, il ricorrente denuncia la «contraddittoria motivazione».
Ciò perché la Corte d’appello di Cagliari, da un lato, ha parzialmente accolto l’appello dell’imputato con riguardo all’episodio di estorsione ai danni di NOME COGNOME dall’altro lato, in modo asseritamente contraddittorio e/o illogico, ha confermato «la condanna per le altre identiche contestazioni estorsive nei confronti della COGNOME e COGNOME». Il COGNOME rappresenta al riguardo che «l’appello evidenziava da una parte che il COGNOME avesse tenuto la medesima condotta per tutte le dipendenti offrendone le minuziose motivazioni, mentre la Corte d’Appello ha ritenuto implicitamente non estensibile alle altre dipendenti quanto rilevato per la Milia».
Il COGNOME deduce ancora che, posto che il capo d’imputazione fa riferimento a «più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso», «la sentenza doveva mandare assolto l’imputato per l’intero disegno criminoso giacché attuato con la medesima condotta non illecita registrata per la Sig.ra NOMECOGNOME salvo incorrere in un’illogica e/o contraddittoria motivazione».
2.2.4. Il quarto profilo ha riguardo ad «assenza di motivazione della sentenza in relazione alla previsione di cui all’art. 1 – comma 913 Legge 27.12.2017, n. 205 e al difetto dell’elemento psicologico del reato».
Il ricorrente espone che, nel proprio atto di appello, aveva rappresentato che «la firma delle buste paga era una prassi amministrativa a riprova dell’avvenuta consegna della stessa, non già per conseguire un’indebita quietanza relativa alle voci in essa indicate» (così il ricorso).
Secondo il COGNOME, ciò sarebbe tanto vero che il legislatore, con l’art. 1, comma 913 (recte: 912), della legge n. 205 del 2017, avrebbe stabilito che «la firma sulla busta, anche se avesse l’indicazione per quietanza non ha alcun valore» (così il ricorso) e tale «principio» sarebbe stato affermato «con Ordinanza della Corte di Cassazione (Sezione Civile) del 6 settembre 2018, n. 21669».
Posto che la Corte d’appello di Cagliari avrebbe omesso di motivare in ordine a tali aspetti, il ricorrente deduce che sarebbe «di tutta evidenza che, se il comportamento specifico della firma della busta paga non rilevava in alcun modo sui diritti delle lavoratrici, la condotta illecita attribuita al COGNOME per costringer stesse alla firma è priva di effetto estorsivo giacché inutile. Pertanto, il tutto riverbera sull’assenza di dolo denunciato dall’appellante».
Nella sentenza impugnata mancherebbe la motivazione su quanto era stato dedotto dal COGNOME nel suo atto di appello circa il fatto che egli chiedeva alle lavoratrici di sottoscrivere le buste paga «in segno della loro ricezione», senza esercitare pressioni per ottenere la stessa sottoscrizione.
2.2.5. Sotto un quinto profilo, il ricorrente denuncia l’«erronea valutazione del fatto che la firma delle buste paga fosse atto idoneo a provare la costrizione di cui all’art. 629 c.p.».
Il COGNOME contesta anzitutto che la Corte d’appello di Cagliari non avrebbe specificato quali minacce implicite o larvate sarebbero state da lui commesse, «non essendo sufficiente il riferimento alla firma delle buste paga data l’inidoneità della stessa a concretizzare il reato».
Il ricorrente deduce che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello di Cagliari, egli non aveva mai minacciato, né in forma implicita né in forma larvata, né di licenziare ingiustificatamente le due persone offese (dovendosi anche tenere conto che il licenziamento è «previsto solo nei casi codificati»), né di privare le stesse della retribuzione mensile.
La sentenza impugnata sarebbe «erronea perché non trova corrispondenza nella testimonianza della lavoratrici» là dove la Corte d’appello di Cagliari afferma che il COGNOME aveva detto alle persone offese che, se non accettavano quanto veniva loro imposto, «potevano andarsene».
Il ricorrente contesta anche le affermazioni della Corte d’appello di Cagliari che figurano nel primo e nel secondo capoverso della pag. 9 della sentenza impugnata, sulle considerazioni che: quanto a quella di cui al primo capoverso, «non è pensabile che le sole due dipendenti abbiano avuto un’estorsione mentre tutte le altre pur avendo ricevuto acconti in busta paga non risultano aver subito minacce collegate alla mancata firma delle buste consegnate mensilmente»; quanto all’affermazione di cui al secondo capoverso – secondo cui, oltre alle due persone offese, anche altre testimoni avevano confermato che la sottoscrizione delle buste paga era condizione per ricevere il pagamento dello stipendio -, l’erroneità della affermazione, atteso che, dalle deposizioni delle testimoni NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, «non è emersa alcuna costrizione alla firma».
2.2.6. Sotto un sesto e ultimo profilo, il ricorrente denuncia la «manifesta illogicità della sentenza in relazione all’interpretazione dell’accordo iniziale con le Sig.re COGNOME e COGNOME riferito all’ammontare della retribuzione concordata».
Il COGNOME sostiene che il principio affermato da Sez. 2, n. 34775 del 13/07/2023, COGNOME (non massimata), e richiamato dalla Corte d’appello di Cagliari (a pag. 9 della sentenza impugnata) non sarebbe applicabile al caso di specie «stante che a seguito dell’accordo iniziale del rapporto l’imputato non risulta aver minacciato nessuna delle dipendenti di licenziamento allorché non avessero firmato la busta paga e neppure proposto di voler ridurre quanto concordato».
Il ricorrente ribadisce che «Ella firma delle buste paga avveniva per prassi per tutte le dipendenti con il fine non di certo estorsivo né per conseguire una quietanza di pagamento».
Il COGNOME rappresenta ancora che «on risulta neppure che le lavoratrici abbiano chiesto formalmente o oralmente il pagamento delle menzionate differenze retributive, ragione sufficiente per escludere che le stesse abbiano avuto alcun condizionamento né iniziale né medio tempore e neppure al momento della cessazione del rapporto di lavoro che risulta avvenuta per cause diverse da quelle relative a differenze retributive».
I giudici del merito non avrebbero «effettuato il dovuto riscontro dell’effetto dannoso per le lavoratrici, ritenendolo presunto fin dal momento iniziale del rapporto di lavoro. Infatti, non hanno effettuato alcun confronto tra la situazione patrimoniale delle parti offese al momento dell’accordo iniziale (coincidente con la
prospettazione minacciosa), e quella conseguente alla realizzazione del male minacciato costituente profitto per l’agente».
Secondo il COGNOME, alla luce delle concrete modalità di instaurazione e di esecuzione dei rapporti di lavoro, risulterebbe che «difetta in primis il requisito della minaccia al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro e che non sussisteva un diritto delle aspiranti lavoratrici ad essere assunte a determinate condizioni, considerato che la legislazione del tempo (e tutt’ora) non prevede un salario minimo e l’esistenza in favore dei lavoratori subordinati di un diritto soggettivo alla parità di trattamento».
Sempre secondo il ricorrente, la Corte d’appello di Cagliari, «anche sotto l’aspetto del danno in capo alle lavoratrici, non ha eseguito alcun accertamento e non ha tenuto conto che le stesse prima del rapporto di lavoro si trovavano in stato di disoccupazione senza reddito. Pertanto, l’eventuale mancato conseguimento dell’opportunità dell’impiego, il quale costituisce un dato patrimoniale sicuramente positivo, non incide tuttavia in modo negativo sulla condizione reddituale del lavoratore». Il ricorrente richiama in proposito Sez. 2, n. 7128 del 10/11/2023, dep. 2024, COGNOME (non massimata), di cui riporta un ampio stralcio.
La Corte d’appello di Cagliari non avrebbe neppure fatto alcun accertamento «in ordine all’esistenza concreta di una situazione di mercato del lavoro a vantaggio del datore di lavoro, omettendo la pur minima motivazione ritenendo per presunzione che al momento dell’assunzione la situazione economica del luogo fosse depressa e non offrisse alcuna alternativa alle lavoratrici».
Egli non avrebbe in definitiva «conseguito un ingiusto profitto stante che non risulta aver preteso modificazioni degli accordi contrattuali che abbiano ridotto i diritti delle lavoratrici».
Sotto un ulteriore ultimo aspetto, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Cagliari non avrebbe «fornito alcun elemento necessario di riscontro circa l’esistenza di condotte di minacce e pressioni psicologiche da parte del ricorrente, messe in atto e dirette all’instaurazione del rapporto di lavoro o costringere la lavoratrice a vedere ridotte ulteriormente le attuali e correnti condizioni, sia pure deteriori previste ab initio del rapporto»
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza o l’erronea applicazione degli artt. 62bis e 81 cod. pen., con riguardo all’irrogazione della pena pecuniaria di C 850,00 di multa (in luogo della pena pecuniaria di C 900,00 di multa che era stata inflitta dal Tribunale di Cagliari).
Il COGNOME espone che, con una propria memoria, aveva rappresentato alla Corte d’appello di Cagliari che la pena base pecuniaria di C 300,00 di multa che era stata
indicata nella sentenza di primo grado avrebbe dovuto essere diminuita, per le concesse circostanze attenuanti generiche, a € 200,00 di multa, da aumentare poi di € 100,00 di multa per la continuazione, per una pena finale pecuniaria di C 300,00 di multa.
Tanto esposto, NOME COGNOME lamenta che, nonostante egli avesse indicato tale percorso di determinazione della misura della pena pecuniaria, la Corte d’appello di Cagliari, «ritenendo che sussistesse un errore materiale, sostituendosi al Primo Giudice, ha ritenuto inopinatamente che la pena base che il tribunale ha inteso applicare era di C 1.200,00».
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è manifestamente infondato.
Si deve infatti in proposito osservare che, secondo l’orientamento consolidato della Corte di cassazione, in tema di esame testimoniale, la violazione del divieto di porre domande suggestive non comporta né l’inutilizzabilità né la nullità della deposizione, atteso che tali sanzioni non sono previste dall’art. 499 cod. proc. pen. e non possono essere desunte dal disposto dell’art. 178 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 39482 del 02/07/2024, T., Rv. 287016-01; Sez. 3, n. 49993 del 16/09/2019, R., Rv. 277399-01; Sez. 3, n. 42568 del 25/06/2019, B., Rv. 277988-01).
In mancanza di una precisa sanzione processuale, la domanda suggestiva può rilevare solo sul piano della valutazione della genuinità della dichiarazione, che può risultare compromessa solo se inficia la stessa dichiarazione nel suo complesso e non soltanto, come potrebbe essere, la risposta che è stata fornita alla domanda suggestiva, ben potendo il giudizio di attendibilità del testimone essere fondato sulla base delle risposte alle altre domande.
Ne discende che, per predicare l’assenza di genuinità della prova, non è perciò sufficiente affermare e comprovare che una o più domande che sono state rivolte al testimone abbiano in ipotesi suggerito la risposta, ma è necessario estendere l’analisi all’affidabilità della prova nel suo complesso, pervenendo alla conclusione che l’uso di una metodologia non corretta nello svolgimento dell’esame testimoniale ha inciso sul risultato della prova in maniera da rendere il materiale raccolto globalmente inidoneo a essere valutato (Sez. 3, n. 49993 del 16/09/2019, R., cit.).
Posti tali principi, si deve rilevare che la Corte d’appello di Cagliari ha effettuato tale valutazione della complessiva genuinità delle deposizioni delle testimoni NOME COGNOME e NOME COGNOME sicché si deve ritenere che la stessa Corte abbia correttamente risposto al motivo di appello del COGNOME sul punto.
Tale conclusione vale anche a prescindere dall’ulteriore e dirimente considerazione che, tenuto conto che il ricorrente ha denunciato la natura
suggestiva di domande che sono state poste dal Giudice del Tribunale di Cagliari, secondo l’orientamento largamente prevalente della Corte di cassazione, il divieto di porre domande suggestive non opera con riguardo al giudice, il quale, agendo in una posizione di terzietà, può rivolgere al testimone tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l’accertamento della verità, a esclusione di quelle atte ad incidere sulla sincerità della risposta (Sez. 6, n. 8307 del 13/01/2021, G., Rv. 280710-01; Sez. 3, n. 21627 del 15/04/2015, E., Rv. 263790-01; Sez. 1, n. 44223 del 17/09/2014, COGNOME, Rv. 260899-01).
Si deve infine osservare che, posto che l’eccezione circa la proposizione di domande suggestive deve essere proposta al giudice innanzi al quale si forma la prova, essendo rimessa al giudice dei gradi successivi soltanto la valutazione in ordine alla motivazione del provvedimento di accoglimento o di rigetto della stessa eccezione (Sez. 5, n. 27159 del 02/05/2018, H., Rv. 273233-01; Sez. 3, n. 47084 del 23/10/2008, COGNOME, Rv. 242255-01), e non può essere sollevata per la prima volta con l’atto di impugnazione (Sez. 6, n. 13791 del 10/03/2011, COGNOME, Rv. 249890-01), nel caso di specie il ricorrente non ha dedotto di avere tempestivamente formulato l’eccezione davanti al Giudice del Tribunale di Cagliari.
Il secondo motivo non è fondato.
La Corte di cassazione ha già avuto modo di affermare – enunciando un principio che il Collegio, condividendo le argomentazioni che sono state poste a suo fondamento, intende ribadire – che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolar consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate (Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017, Tessitore, Rv. 269905-01; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 261553-01. Si veda anche: Sez. 2, n. 3724 del 29/10/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282521-01).
Il Collegio ritiene che la Corte d’appello di Cagliari si sia correttamente conformata a tale principio, valorizzando il contenuto delle convergenti deposizioni testimoniali delle due persone offese NOME COGNOME e NOME COGNOME – che la stessa Corte d’appello ha motivatamente ritenuto soggettivamente e oggettivamente credibili -, le quali hanno entrambe riferito che, alla loro richiesta di chiarimenti sulla consegna di buste paga che recavano l’indicazione di acconti detratti ancorché mai corrisposti, il COGNOME rispondeva loro che se non avessero accettato ciò, anche firmando le buste paga, non avrebbero ricevuto alcuna retribuzione (dichiarazioni di NOME COGNOME riportate alla nota 3 della pag. 4 della
sentenza impugnata: «Certo, se non firmi la busta paga non percepisci lo stipendio»; «piuttosto che nulla si firmava certo»; il COGNOME le diceva che «se voleva quei soldi lei quelle buste paga doveva firmare») e «potevano andarsene» (NOME COGNOME, pag. 4 della sentenza impugnata; NOME COGNOME, pag. 5 della sentenza impugnata, là dove è riportata la dichiarazione della sig.ra COGNOME secondo cui, quando fece presente al COGNOME che dalle buste paga risultavano acconti che lei non aveva mai percepito, il COGNOME le aveva risposto: «Quella è la porta, se non ti va bene quella è la porta», oppure, «se ti va bene è quello, altrimenti vai», e che lei «acconsentiva» a sottoscrivere comunque le buste paga perché la situazione del mercato del lavoro era di crisi e aveva «bisogno» di lavorare).
A fonte di tale corretta applicazione del rammentato principio affermato dalla Corte di cassazione, le doglianze del ricorrente appaiono manifestamente prive di fondamento.
2.1. Quanto a quella di cui al primo profilo del motivo (punto 2.2.1. del “Ritenuto in fatto”), nella parte di tale profilo che riguarda l’asserita mancata risposta, da parte della Corte d’appello di Cagliari, alle censure che erano state avanzate nell’atto di appello in ordine all’utilizzo di dichiarazioni testimoniali no genuine perché «indotte da suggestioni», la manifesta infondatezza di tale doglianza discende direttamente da quanto si è argomentato con riguardo al primo motivo, tenuto anche conto che, anche secondo la prospettazione del ricorrente, la medesima doglianza costituisce una conseguenza di quella avanzata con il primo motivo.
Quanto alla parte dello stesso profilo con la quale il ricorrente ha sostenuto che la sottoscrizione delle buste paga «era dovuta per consuetudine» e non era «una condizione sine qua non per ricevere lo stipendio», la manifesta infondatezza di essa discende dalle dichiarazioni di segno esplicitamente contrario della persona offesa NOME COGNOME – che, come si è detto, la Corte d’appello di Cagliari ha motivatamente ritenuto credibili – che si sono testualmente riportate al punto 2.1.
2.2. Quanto alle doglianze di cui al secondo e al terzo profilo del motivo (punti 2.2.2 e 2.2.3 del “Ritenuto in fatto”) – le quali, avendo a oggetto questioni che in parte si sovrappongono, possono essere esaminate congiuntamente – si deve anzitutto rilevare l’assoluta genericità di quella secondo cui la Corte d’appello di Cagliari non avrebbe motivato in ordine alla censura, che il COGNOME aveva sollevato con il proprio atto di appello, di «erronea valutazione delle prove testimoniali, non utilizzate secondo il principio» del «al di là di ogni ragionevole dubbio», atteso che il ricorrente ha del tutto omesso di specificare quale sarebbe stata la contestata «erronea valutazione delle prove testimoniali» in ordine alla quale la Corte d’appello di Cagliari non avrebbe motivato.
Il ricorrente ha poi lamentato, nell’ambito sia del secondo sia del terzo profilo, il vizio motivazionale che deriverebbe dal fatto che la Corte d’appello di Cagliari, da un lato, ha accolto l’appello dell’imputato con riguardo all’episodio di estorsione ai danni di NOME COGNOME dall’altro lato, ha confermato la condanna per gli episodi estorsivi ai danni di NOME COGNOME e di NOME COGNOME. La manifesta infondatezza di tale censura discende dal fatto che, contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, l’indicata diversità di esiti non integra alcuna contraddizione né illogicità, tanto meno manifesta, atteso che, come risulta dalla lettura della sentenza impugnata, la medesima diversità consegue logicamente dalla circostanza che, differentemente che nei casi di NOME COGNOME e di NOME COGNOME le quali avevano riferito delle minacce di cui erano state destinatarie da parte del COGNOME, NOME COGNOME nella sua deposizione testimoniale, non aveva fatto cenno ad alcuna minaccia e, anzi, aveva affermato di avere sempre percepito quanto le spettava.
Alla luce di ciò, la diversità dei due esiti si appalesa, all’evidenza, come del tutto logica.
2.3. Quanto alle doglianze di cui al quarto profilo del motivo (punto 2.2.4 del “Ritenuto in fatto”), si deve anzitutto osservare che, posto che il comma 912 dell’art. 1 della legge n. 205 del 2017 è entrato in vigore oltre cinque anni dopo i fatti per cui si procede, la Corte di cassazione, Sezione lavoro, ha enunciato il principio, di segno opposto rispetto a quello asserito dal ricorrente, secondo cui la sottoscrizione della busta paga con la dicitura “per ricevuta-quietanza” fa gravare sul lavoratore l’onere della prova della non corrispondenza tra le annotazioni ivi riportate e la retribuzione effettivamente corrisposta (Sez. L, n. 27749 del 03/12/2020, Rv. 659954-01).
In ogni caso, appare di tutta evidenza, alla luce delle già ricordate dichiarazioni delle persone offese, che le minacce di “mancata retribuzione” o di “licenziamento” che il COGNOME rivolgeva alle stesse persone offese affinché, anche firmando le buste paga, accettassero una retribuzione inferiore a quella da loro apparentemente percepita sulla base delle medesime buste paga, non potesse logicamente trovare altra spiegazione se non nell’intento dell’imputato di procurarsi dei documenti che avrebbero creato alle sue due dipendenti delle difficoltà di ordine probatorio nel caso in cui esse avessero inteso avanzare delle rivendicazioni nei suoi confronti.
Da ciò la manifesta infondatezza anche della doglianza con la quale il ricorrente asserisce che, poiché la firma della busta paga «non rilevava in alcun modo sui diritti delle lavoratrici», le sue minacce per costringerle a firmare buste paga dalle quali risultava una retribuzione superiore a quella da esse percepita
sarebbero state «inutil», con la conseguente asserita insussistenza anche del dolo del reato.
2.4. Quanto alle doglianze di cui al quinto profilo del motivo (punto 2.2.5 del “Ritenuto in fatto”), si è già visto al punto 2 come la Corte d’appello di Cagliari abbia congruamente argomentato, sulla base delle motivatamente ritenute credibili dichiarazioni delle persone offese, come le minacce rivolte alle stesse dal COGNOME, qualora non avessero accettato, anche sottoscrivendo le più volte menzionate buste paga, di percepire somme inferiori a quelle che risultavano dalle medesime buste paga, erano consistite nella “mancata retribuzione” e nel “licenziamento”.
Minacce che, in vero, non risultano neppure troppo larvate, tali non apparendo né quella, rivolta dal COGNOME alla COGNOME, che «se voleva quei soldi lei quelle buste paga doveva firmare», né quella che, se non avessero accettato le reali condizioni retributive che le stesse buste paga dissimulavano, «potevano andarsene». Ciò tenuto conto dell’evidente senso di tale frase, la quale pone il lavoratore di fronte all’alternativa di accettare le condizioni retributive deteriori impostegli dal dator di lavoro o di perdere il lavoro, risultando indifferente, per quanto qui rileva, che tale evenienza si possa realizzare per una decisione “volontaria” del lavoratore o a iniziativa dello stesso datore di lavoro (Sez. 2, n. 3724 del 29/10/2021, dep. 2022, COGNOME, cit.).
Inoltre: a) non appare né contraddittorio né manifestamente illogico ritenere, come ha fatto la Corte d’appello di Cagliari (nel contestato primo capoverso della pag. 9 della sentenza impugnata), che le due persone offese abbiano subito un’estorsione, come risultava dalle loro dichiarazioni, mentre altre dipendenti di RAGIONE_SOCIALE avevano affermato di avere ricevuto acconti dal proprio datore di lavoro e di non avere subito minacce per sottoscrivere le buste paga mensili; b) a fonte delle chiare e ritenute attendibili dichiarazioni delle due persone offese, non risulta decisivo stabilire se altre dipendenti avessero o no affermato che la sottoscrizione della busta paga era condizione per ricevere il pagamento dello stipendio.
2.5. Il sesto profilo del motivo è incentrato sulla tesi secondo cui, poiché tra l’imputato e le due lavoratrici persone offese vi era stato un accordo iniziale, cioè concluso in sede di instaurazione del rapporto di lavoro, con il quale, in assenza di alcuna minaccia, esse avevano accettato le deteriori condizioni retributive di cui si tratta, e poiché tali condizioni non erano state successivamente modificate dal Mulas in senso peggiorativo rispetto al medesimo accordo iniziale, difetterebbero gli elementi costituitivi dell’estorsione della minaccia e del danno altrui.
Tale tesi, a sostegno della quale il ricorrente invoca Sez. 2, n. 7128 del 10/11/2023, dep. 2024, COGNOME, cit., tenuto conto delle connotazioni della fattispecie, non può essere condivisa.
Si deve in proposito osservare che, nel caso in esame, all’imputato non è stato contestato di avere messo in atto delle minacce dirette all’instaurazione dei rapporti di lavoro con condizioni retributive deteriori per le due lavoratrici, cioè una condotta relativa alla fase genetica dei rapporti di lavoro – fattispecie con riguardo alla quale la menzionata sentenza “Bonafede” ha escluso che sussistano gli elementi costitutivi dell’estorsione della minaccia e del danno altrui – bensì una condotta intervenuta nella fase di esecuzione dei già instaurati rapporti di lavoro.
In particolare, al COGNOME è stato attribuito di avere, a fronte delle contestazioni delle due lavoratrici per la consegna di buste paga che recavano l’indicazione di acconti detratti ancorché mai corrisposti e, quindi, dell’implicita ma del tutto evidente rivendicazione delle stesse lavoratrici di ottenere il trattamento retributivo che risultava dalle medesime buste paga (verosimilmente corrispondente a quello del contratto collettivo o, comunque, al minimo garantito dall’art. 36, primo comma, Cost.) – rivendicazione che il lavoratore ben può legittimamente avanzare in qualsiasi momento dell’esecuzione del contratto di lavoro – minacciato le due lavoratrici di “mancata retribuzione” o di “licenziamento” affinché, firmando le buste paga, accettassero una retribuzione inferiore a quella da loro apparentemente percepita sulla base delle medesime buste paga.
In tale fattispecie, si devono ritenere sussistenti tutti gli elementi costitutiv del reato di estorsione, in particolare quelli: a) della minaccia di “mancata retribuzione” o di “licenziamento” (quest’ultima integrante una facoltà del datore di lavoro che lo stesso però in tale caso strumentalizza come mezzo di coercizione della volontà altrui per ottenere una finalità illecita); b) del profitto, che consis nell’impiegare dipendenti con condizioni contrattuali apparentemente rispettose della normativa (di legge e contrattuale) a tutela dei diritti dei lavoratori; c) de danno per la vittima lavoratore, il quale risulta percettore di redditi in misura superiore a quella reale, con i connessi obblighi tributari.
Quanto, in particolare, al profitto, esso si deve considerare ingiusto, atteso che al datore di lavoro non è riconosciuto alcun potere di agire in giudizio per fare valere la pretesa al rispetto di un accordo che preveda condizioni contra legem, segnatamente, la corresponsione di una retribuzione inferiore a quanto risulta formalmente nella busta paga (o anche, eventualmente, una retribuzione inferiore alle ore effettivamente lavorate o condizioni contrarie ai contratti collettivi, ove applicati dal datore di lavoro).
Si è del resto espressa in tale senso anche Sez. 2, n. 7128 del 10/11/2023, dep. 2024, COGNOME, cit., invocata dal ricorrente, là dove è stato precisato che «MI vantaggio perseguito (costituente ingiusto profitto) può essere rappresentato non solo da modificazioni delle pattuizioni contrattuali che riducano o eliminino diritti del lavoratore (ciò che costituisce il danno subito dalla persona offesa), consentendo al datore di lavoro risparmi di spesa o minori esborsi, ma anche dall’imposizione di formule contrattuali che, simulando la regolamentazione del rapporto in termini difformi da quelli reali e riconoscendo al dipendente livelli retributivi e indennità in realtà non corrisposte, comporta per il datore di lavoro il vantaggio di impiegare dipendenti con condizioni contrattuali apparentemente rispettose delle norme inderogabili a tutela dei diritti dei lavoratori, mentre costoro sono costretti a subire conseguenze patrimoniali negative (ad esempio, risultando percettori di redditi in misura superiore a quella reale, con i connessi obblighi tributari » (secondo capoverso della pag. 7, corsivo aggiunto. In senso analogo, in precedenza: Sez. 2, n. 29047 del 05/04/2023, COGNOME, non massimata. Si veda anche Sez. 2, n. 21789 del 04/10/2018, dep. 2019, Roscino, Rv. 27578301).
Quanto, infine, alla censura che la Corte d’appello di Cagliari non avrebbe compiuto alcun accertamento «in ordine all’esistenza concreta di una situazione di mercato del lavoro a vantaggio del datore di lavoro, omettendo la pur minima motivazione ritenendo per presunzione che al momento dell’assunzione la situazione economica del luogo fosse depressa e non offrisse alcuna alternativa alle lavoratrici», si deve osservare che l’affermata esistenza, nel Sulcis-Iglesiente, all’epoca delle vicende per cui è causa, di un mercato del lavoro favorevole alla parte datoriale per la prevalenza dell’offerta sulla domanda di lavoro si deve ritenere corrispondere a una comune cognizione, perciò riconducibile alla categoria del fatto notorio – per la quale non vi è pertanto la necessità di dimostrazione del probandum -, oltre a essere stata confermata da quanto è stato dichiarato dalla lavoratrice persona offesa NOME COGNOME la quale, come si è visto al punto 2, aveva dichiarato che «acconsentiva» a sottoscrivere comunque le buste paga perché la situazione del mercato del lavoro era di crisi e aveva «bisogno» di lavorare.
3. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Nella motivazione della sentenza di primo grado, il Tribunale di Cagliari aveva scritto: «pena base anni 5 di reclusione ed C 300,00 di multa, diminuita di 1/3 ex art. 62 bis c.p. = anni 3 mesi 4 di reclusione ed C 800,00 di multa».
La Corte d’appello di Cagliari ha ritenuto che la pena base indicata in tale motivazione della sentenza di primo grado si dovesse ritenere quella di cinque anni di reclusione (sulla quale non vi è questione) ed C 1.200,00 di multa, «come si
desume inequivocabilmente dal complessivo percorso motivazionale sul calcolo della pena, mentre il riferimento a 300,00 euro di multa costituisce un evident
palese mero errore materiale».
Il Collegio ritiene che la Corte d’appello di Cagliari abbia ritenuto ciò del correttamente.
Infatti, posto che la pena pecuniaria per il delitto di estorsione va
1.000,00 a C 4.000,00 di multa, il fatto che il Tribunale di Cagliari, applicando pena base pecuniaria la diminuzione di un terzo per le circostanze attenuan
generiche, fosse pervenuta al risultato di C 800,00 di multa, rende palese che stessa pena base si doveva ritenere essere C 1.200,00 di multa – atteso che 80
costituisce, appunto, i 2/3 di 1.200 (cioè 1.200 meno 1/3) e non di 300 -, con conseguenza che l’indicazione della pena base di C 300,00 di multa è stat
correttamente ritenuta dal giudice dell’impugnazione come il frutto di un mero errore materiale commesso dal giudice di primo grado nell’indicazione della stess
pena base pecuniaria.
4. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna d ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento d spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spes processuali.
Così deciso il 26/06/2025.