Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 32828 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 32828 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a PALERMO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 29/10/2024 della CORTE di APPELLO di PALERMO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; udito l’AVV_NOTAIO per le parti civili COGNOME NOME e COGNOME NOME, che ha chiesto il rigetto del ricorso riportandosi alla memoria depositata; udito l’AVV_NOTAIO per il ricorrente COGNOME NOME, che si è
riportata ai motivi di ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 29 ottobre 2024 la Corte d’Appello di Palermo confermava la sentenza emessa il 19 aprile 2022 dal Tribunale di Palermo, con la quale l’imputato COGNOME NOME era stato dichiarato colpevole del delitto di estorsione continuata pluriaggravata e condannato alle pene di legge.
i
In particolare, al COGNOME era stato contestato di avere, nella sua qualità di datore di lavoro e mediante minaccia di licenziamento, costretto alcune lavoratrici a svolgere attività lavorativa a tempo pieno, pur essendo le stesse state assunte a tempo parziale, a non fruire dell’integralità delle ferie e dei permessi spettanti e ad accettare retribuzione inferiori a quelle previste dalla legge e dai contratti collettivi e indicate in busta paga.
Avverso tale sentenza proponeva due distinti ricorsi per cassazione l’imputato, per il tramite dei propri difensori, chiedendone l’annullamento.
Con il primo ricorso articolava due motivi di doglianza.
Con il primo motivo deduceva violazione dell’art. 629 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di estorsione.
Assumeva che la difformità fra le ore di lavoro effettuate e quelle indicate in contratto e inoltre la difformità relativa all’ammontare della retribuzione corrisposta erano il frutto delle trattative intervenute fra le parti prima della sottoscrizione del contratto di lavoro, in forza della libera determinazione della volontà delle presunte vittime.
Osservava che un conto era minacciare di licenziamento un dipendente già assunto in caso di mancata accettazione di prassi a lui sfavorevoli, altro era proporre determinate condizioni in sede di stipula del contratto di lavoro che, seppur illecite dal punto di vista civilistico, erano comunque il frutto di un’autonoma decisione del lavoratore.
Con il secondo motivo deduceva violazione della legge processuale nonché contraddittorietà, manifesta illogicità e mancanza di motivazione in relazione alla ritenuta attendibilità delle persone offese, assumendo che le stesse in un primo momento avevano dichiarato che le condizioni a loro sfavorevoli in punto di retribuzione e di orario di lavoro erano state pattuite con il datore al momento della conclusione del contratto, e che successivamente avevano affermato, in maniera contraddittoria, che il ricorrente le aveva costrette ad accettare una busta paga che indicava un importo maggiore rispetto a quello percepito, costituendo in realtà tale situazione solo il naturale svolgimento di quanto pattuito inizialmente.
Con il secondo ricorso venivano dedotti i medesimi motivi dedotti con il primo e venivano sviluppate anche le medesime argomentazioni a sostegno.
In data 2 luglio 2025 le parti civili depositavano memoria conclusiva chiedendo il rigetto del ricorso e la liquidazione delle spese del grado.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo dedotto con entrambi i ricorsi è manifestamente infondato e pertanto deve essere dichiarato inammissibile.
Ed invero, la Corte d’Appello, richiamando quanto argomentato dal giudice di primo grado (il richiamo è del tutto legittimo, vertendosi in ipotesi di cosiddetta “doppia conforme”), ha enucleato in maniera puntuale la condotta estorsiva posta in essere dall’imputato, costituita nel “trattenere illegittimamente parte delle retribuzioni mensili spettanti alle lavoratrici dipendenti della propria azienda … mediante la minaccia di licenziamento” (v. pagg. 2 e 3 del provvedimento impugnato).
Dunque il giudice del merito ha posto l’accento sul momento dell’esecuzione del rapporto di lavoro, rinvenendo (v. pag. 4 della sentenza impugnata) la condotta estorsiva “allorquando il datore di lavoro costringa i suoi dipendenti, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate” (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 3724 del 29/10/2021, Lattanzio, Rv. 282521 – 01, secondo cui integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con minacce larvate di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alla prestazioni effettuate).
Ha ulteriormente precisato la Corte territoriale che in sede di trattative “nulla era stato specificato in ambito contrattuale in merito ad una busta paga con importo maggiore rispetto a quello pattuito” e che la pratica di “gonfiare” le buste paga era stata confermata, oltre che dalle persone offese COGNOME NOME e COGNOME NOME, esaminate all’udienza del 27 ottobre 2020, anche da COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Il rilievo dato dalla Corte d’Appello al momento dell’esecuzione del contratto di lavoro, corredato dalla precisa indicazione delle fonti di prova utilizzate al riguardo, fa perdere di significato alle considerazioni difensive tese a valorizzare, invece, l’aspetto genetico del rapporto, e dunque la fase delle trattative intervenute fra le parti prima della sottoscrizione del contratto di
lavoro, nel corso delle quali, secondo l’assunto difensivo, le lavoratrici si sarebbero liberamente determinate ad accettare condizioni di lavoro deteriori.
Del pari inammissibile, in quanto manifestamente infondato, è il secondo motivo, anch’esso dedotto con entrambi i ricorsi, con il quale si contesta l’attendibilità del narrato delle persone offese.
La Corte di appello, invero, nella sentenza impugnata risulta avere però debitamente spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto configurabile il reato addebitato all’imputato COGNOME NOME. Dopo avere correttamente ricordato che secondo la giurisprudenza di legittimità «Le dichiarazioni della persona offesa – cui non si applicano le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. – possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone e corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto» (Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104 – 01) la Corte territoriale ha motivatamente espresso un giudizio di piena attendibilità delle dichiarazioni delle persone offese osservando che le stesse non erano animate da motivi secondari, legati a sentimenti di astio, che potessero andare oltre le legittime aspettative risarcitorie, e precisando altresì che dette dichiarazioni avevano trovato riscontro in quelle degli altri testi escussi.
Osserva l’odierno Collegio che la sentenza impugnata risulta congruamente motivata proprio sotto i profili dedotti in questa sede dalla difesa del ricorrente e che la motivazione adottata al riguardo non è certo apparente, né “manifestamente” illogica e tantomeno contraddittoria. Per contro deve osservarsi che parte ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’asseritamente connessa violazione di legge nella valutazione del materiale probatorio, tenta in realtà di sottoporre a questa Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito. Deve tuttavia essere ricordato che a questa corte di legittimità è infatti preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa.
Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova
disciplina introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, è – e resta – giudice della motivazione. In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965). Parte ricorrente sostanzialmente critica la valutazione di attendibilità del dichiarato delle persone offese ma è appena il caso di ricordare che «In tema di prove, la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, Terrusa, Rv. 257241), vizio, quest’ultimo, non rinvenibile nel caso in esame. Deve inoltre essere ricordato che nel caso in esame la versione fornita dall’imputato tende a proporre una ricostruzione alternativa a quella operata dalla Corte di appello, ma, in materia di ricorso per Cassazione, perché sia ravvisabile la manifesta illogicità della motivazione considerata dall’art. 606 primo comma lett. e) cod. proc. pen., la ricostruzione contrastante con il procedimento argomentativo del giudice, deve essere inconfutabile, ovvia, e non rappresentare soltanto un’ipotesi alternativa a quella ritenuta nella sentenza impugnata in sentenza (cfr. con riferimento a massime di esperienza alternative, Sez. 1, n. 13528 del 11/11/1998, COGNOME, Rv. 212054) dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioè desunti dai dati acquisiti al processo, e non ad elementi meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili (Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, COGNOME, Rv. 259204; Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, Rv. 260409).
Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile.
Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
L’imputato, inoltre, deve essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle part, civili COGNOME NOME e COGNOME NOME, spese che devono essere liquidate in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle part, civili COGNOME NOME e COGNOME NOME che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 02/07/2024
GLYPH
Il Consigliere estensore
Il Presidente