Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 44230 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 44230 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 13/11/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
a norma dell’art. 52
d.lgs 196/03 in quanto:
D disposto d’ufficio
Da richiesta di parte
1.1 GLYPH S . I . GLYPH I, nato in i
GLYPH omissis
gmposto dalla legge
rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME di fiducia
2
.1 GLYPH
RAGIONE_SOCIALE l, nato mi GLYPH omissis
rappresentato ed assistito dall’avv. NOME COGNOME di fiducia avverso la sentenza in data 13/2/2024 della Corte di Appello di Trieste visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
preso atto che non è stata richiesta dalle parti la trattazione orale del procedimento; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME COGNOME
letta la requisitoria scritta con la quale il Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME ha chiesto, in parziale accoglimento del ricorso, la riqualificazione del fatto di cui al capo B della rubrica delle imputazioni ai sensi dell’art. 611 cod. pen. con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Trieste per la rideterminazione della pena nonché la dichiarazione di inammissibilità del ricorso nel resto.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 13 febbraio 2024 la Corte di Appello di Trieste ha confermato la sentenza in data 8 settembre 2022 con la quale, il Tribunale di Gorizia, per la parte che in questa sede interessa, aveva affermato la penale responsabilità di:
I. e di RAGIONE_SOCIALE in relazione ai reati di concorso in sequestro di persona ai danni di RAGIONE_SOCIALE E.B. RAGIONE_SOCIALE ex artt. 110, 605, commi 1 e 2 n. 1, 61, comma 1 n. 2 cod. pen. (capo A della rubrica delle imputazioni) e di estorsione (consumata e non tentata come da originaria contestazione) ex art. 629 cod. pen. ai danni della medesima persona offesa (capo B);
il solo RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE in relazione al reato di violenza sessuale ex artt. 609-bis e 609-ter, comma 1, nn. 4 e 5-quater, cod. pen. ai danni della medesima persona offesa (capo C);
condannandoli alle pene ritenute di giustizia oltre alle sanzioni accessorie di legge.
In estrema sintesi si contesta agli imputati di avere condotto la persona offesa
E.B. dalla Germania in auto sino a Monfalcone all’interno dell’abitazione della famiglia nonché, mediante violenza consistita nel costringere la donna all’interno dell’abitazione e minaccia da parte dell’ S.I. consistita nel proferire fras quali «se non scrivi che sono bugie le denunce che mi hai fatto in Germania ti uccido», costringevano la E.B. a redigere quattro fogli manoscritti in lingua italiana ed in lingua tedesca, contenenti dichiarazioni non vere ed autoaccusatorie, compiendo così atti finalizzati a procurare alli RAGIONE_SOCIALE un profitto consistito nella possibilità di utilizzare a suo vantaggio tali dichiarazioni nel procedimento giudiziale di separazione.
Come detto al solo sessuale aggravata per avere costretto ECOGNOME a subire un rapporto sessuale completo che provocava alla stessa lesioni esterne giudicate guaribili in giorni due. veniva anche contestato il reato di violenza RAGIONE_SOCIALE
Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza, con atti separati ma del tutto sovrapponibili per contenuto (fatta eccezione per il fatto che il GLYPH SA. non è chiamato a difendersi dal reato di violenza sessuale di cui al capo C), il difensore degli imputati, deducendo:
2.1. Art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per violazione di legge e vizi di motivazione in ordine alla credibilità della persona offesa ed alla mancata acquisizione del verbale di interrogatorio in data 2 maggio 2015.
Si duole, innanzitutto, la difesa del ricorrente del fatto che la persona offesa sia stata ritenuta credibile dai Giudici di merito – nonostante i problemi di natura psichiatrica lamentati nel periodo precedente e coevo ai fatti ed in relazione ai quali la Corte di appello sarebbe caduta in un travisamento nella collocazione temporale
degli stessi – nonché del fatto che le dichiarazioni della stessa siano state ritenute riscontrate dalle dichiarazioni dei testi’ GLYPH RAGIONE_SOCIALE
COGNOME , dal referto di pronto soccorso rilasciato alla persona offesa e dai fogli consegnati dall’avv. COGNOME ed acquisiti dagli inquirenti.
In particolare, evidenzia la difesa del ricorrente, i riscontri alle dichiarazion della persona offesa sarebbero costituiti da dichiarazioni de relato in quanto rese da soggetti che sono venuti a conoscenza degli accadimenti sulla base di un racconto agli stessi fatto dalla stessa persona offesa.
Anche il certificato di pronto soccorso sarebbe stato, poi, formato sulla base del racconto della stessa persona offesa e lo stesso non contiene elementi oggettivi a corroborare la narrata violenza.
Quanto al fatto, poi, che tutte le denunce presentate in Germania dalla persona offesa sono state archiviate, la Corte di appello si sarebbe limitata sbrigativamente ad affermare che tale elemento dimostrerebbe l’isolamento nel quale la donna era stata costretta durante la permanenza in quella nazione.
A ciò si aggiungono secondo la difesa altri elementi dai quali si evincerebbero contraddizioni nelle dichiarazioni della persona offesa, quali il verbale di Pronto Soccorso del 29 luglio 2015 nel quale si legge che non è stata riscontrata una subita violenza sessuale, né la presenza di droghe nel sangue, ed il verbale di dichiarazioni della donna reso in data 2 ottobre 2015 alla polizia tedesca dal quale si evincono circostanze del narrato divergenti da quelle rese innanzi ai Giudici italiani.
2.2. Art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per violazione di legge e vizi d motivazione in ordine alla mancata derubricazione del delitto di estorsione in quello di violenza privata.
Rileva la difesa del ricorrente come sia stato erroneamente ritenuto che la redazione degli scritti rilasciati dalla persona offesa abbia comportato un profitto per
il S .I . e contestualmente un danno per la donna in quanto tale valutazione si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza prevalente.
Il danno sarebbe, infatti, meramente potenziale e non ha neppure carattere patrimoniale atteso che dalle dichiarazioni della persona offesa si desume che gli scritti dalla stessa rilasciati potrebbero al più pregiudicarla con riferimento all’affi dei figli ma non sotto il profilo patrimoniale richiesto dall’art. 629 cod. pen.
Difetterebbero ; quindi nel caso in esame sia la patrimonialità che l’effettività del danno.
A ciò si aggiunge che non vi è prova di un successivo impiego da parte dell’imputato delle dichiarazioni scritte rilasciate dalla persona offesa il che rileva si sotto il profilo dell’assenza nei documenti di un’obbligazione patrimoniale, sia della concretizzazione di tale profitto con la conseguenza che l’azione incriminata potrebbe essere al più ricondotta a livello di tentativo.
2.3. Art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per violazione di legge e vizi di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Osserva parte ricorrente che le invocate circostanze attenuanti generiche non sono state riconosciute dalla Corte territoriale nonostante che tra le parti sia intervenuta una transazione con la quale gli imputati hanno concordato il pagamento rateale della somma liquidata dal tribunale a favore della costituita parte civile il che connoterebbe di illogicità e di incoerenza la motivazione della decisione adottata sul punto.
Contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello, osserva la difesa, la transazione sarebbe stata concordata con largo anticipo rispetto alla celebrazione del processo e l’elevato numero di rate ivi indicate è semplicemente legato alla scarsa capacità economica degli imputati. Per il resto gli imputati non avrebbero tenuto una negativa condotta processuale ma si sarebbero limitati a difendersi in giudizio presentando le proprie istanze ed allegazioni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo comune motivo di ricorso nel quale si deducono violazione di legge e vizi di motivazione in ordine alla attendibilità della persona offesa ed alla mancata acquisizione del verbale di interrogatorio in data 2 maggio 2015 è manifestamente infondato.
Deve, innanzitutto, essere doverosamente ricordato che «Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione» (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595).
Ciò doverosamente premesso, va detto subito che, al di là delle questioni sulla corretta qualificazione del reato di estorsione di cui al capo B della rubrica delle imputazioni del quale si dirà nel paragrafo successivo, i ricorsi (come detto dai contenuti del tutto sovrapponibili) non contengono alcuna contestazione in ordine alla configurabilità in diritto dei reati di sequestro di persona e di violenza sessuale, ruotando invece esclusivamente sulla valutazione di attendibilità del narrato della persona offesa COGNOME E.B. COGNOME in ordine ai fatti de quibus.
Il Tribunale e la Corte di appello con decisioni in c.d. “doppia conforme”, con motivazioni logiche e non certo contraddittorie, hanno formulato una valutazione di
assoluta attendibilità della persona offesa, richiamando i racconti effettuati dalla stessa e giungendo ad affermare che GLYPH E.B. GLYPH è «intrinsecamente credibile, avendo la stessa riferito i fatti in maniera coerente e dettagliata» (pag. 14 della sentenza impugnata) e, ancora, che «la p.o. ha dimostrato di non provare rancore nei confronti degli imputati, nonostante soffra ancora anche a causa dei fatti oggetto del presente processo» (pag. 18).
Tale valutazione risulta poi confortata dagli altri elementi adeguatamente richiamati dalle sentenze di merito, in primis dalle dichiarazioni testimoniali raccolte in dibattimento in relazione alle quali neppure la difesa dei ricorrenti pone in dubbio l’attendibilità limitandosi ad osservare che si tratta di dichiarazioni de relato in quanto trattasi di fatti appresi dal racconto della stessa persona offesa.
Ora, fermi restando i principi secondo cui «Le dichiarazioni del soggetto danneggiato dal reato che si sia costituito parte civile possono essere legittimamente poste da sole a fondamento della responsabilità dell’imputato, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 1 commi 3 e 4, cod. proc. pen., purché il narrato sia soggetto ad un più rigoroso controllo di attendibilità, opportunamente corroborato dall’indicazione di altri elementi di riscontro» (ex ceteris: Sez. 4, n. 410 del 09/11/2021, dep. 2022, Aramu, Rv. 282558) e secondo cui «Il giudice può assumere come prova della responsabilità dell’imputato la sola testimonianza della persona offesa, anche quando questa si riferisce ad unico episodio, a condizione che proceda, in tal caso, ad effettuare una valutazione unitaria e non frazionata delle dichiarazioni e che, ove ritenga di utilizzare – come riscontri esterni – eventuali dichiarazioni “de relato”, parimenti operi un apprezzamento delle stesse nella loro totalità» (Sez. 3, n. 19495 del 05/06/2015, dep. 2016, D., Rv. 266752),tali criteri valutativi risultano certamente rispettati nel caso in esame.
Non sfugge, infatti, dalla mera lettura degli stralci delle dichiarazioni riportate nelle sentenze di merito che i racconti fatti dalla persona offesa e dai testimoni sono coerenti con lo sviluppo dei fatti e che neppure la difesa dei ricorrenti si è spinta ad indicare plausibili ragioni per le quali la ERAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto inventarsi falsi accadimenti e raccontarli in modo logico e dettagliato non solo ai Giudici ma anche ad altri soggetti.
La difesa dei ricorrenti tende poi ad evidenziare il fatto che la persona offesa è persona necessitante di un supporto psicologico o psichiatrico, situazione della quale di fatto prendono atto anche i Giudici di merito (v. pagg. 16 e 17 della sentenza impugnata), ma anche in questo caso dai passi delle dichiarazioni riportati nella stessa sentenza risulta che la persona offesa ha lucidamente spiegato quali sono le problematiche che si è trovata e si trova ad affrontare anche per effetto delle evidenziate controversie familiari, ma nulla emerge – ne è stato evidenziato dalla
difesa degli imputati – che tali problematiche di salute hanno avuto una qualsivoglia incidenza sulla veridicità del narrato della donna.
Al di là, poi, delle dichiarazioni testimoniali, i Giudici di merito hanno altres adeguatamente indicato altri elementi di riscontro che confortano il narrato della persona offesa.
Si pensi, innanzitutto, alla valutazione contenutistica dei fogli che la donna ha dichiarato di aver coattivamente dovuto compilare-e che sono poi stati consegnati all’avv. I COGNOME D.B. GLYPH rche la Corte di appello ha commentato alle pagg. 18 e 19 della sentenza impugnata evidenziando come dake: stessi emergono elementi che lasciano chiaramente intendere che ci si trova in presenza di scritti dal contenuto distonico rispetto a quella che sarebbe stata la semplice volontà di chiedere una separazione coniugale e comunque rispetto all’interesse che la persona offesa ha manifestato nei confronti dei figli.
Si pensi ancora – diremmo soprattutto – alla questione relativa alla violenza sessuale di cui al capo C della rubrica delle imputazioni i cui riscontri alla narrazione della persona offesa sono stati rinvenuti dai Giudici di merito non solo nelle dichiarazioni dei parenti della stessa GLYPH B.N. GLYPH e I GLYPH B.S. GLYPH I) che hanno descritto quanto era sconvolta la donna quando fu accompagnata presso di loro e raccontò ‘ della violenza subita, al punto da vedersi necessitati ad accompagnarla al Pronto Soccorso (dove la stessa raccontò anche ai sanitari di essere stata vittima di violenza sessuale) ma anche nello stesso racconto dell’imputato NOMECOGNOME che ha ammesso di aver avuto un rapporto sessuale, seppure “consensuale”, con la persona offesa, affermazione, quella relativa ad un rapporto intimo “consensuale”, ritenuta, con motivazione logica (v. pagg. 23 e 24 della sentenza impugnata), non credibile alla luce dei rapporti intercorrenti in quel periodo tra le parti.
In conclusione, alla luce di quanto fin quei evidenziato, ritiene l’odierno Collegio che la sentenza impugnata risulta congruamente motivata proprio sotto i profili dedotti dalla difesa dei ricorrenti. Inoltre, deve essere ribadito che detta motivazione, non è certo apparente, né “manifestamente” illogica e tantomeno contraddittoria.
Per contro deve osservarsiTla difesa dei ricorrenti, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’asseritamente connessa violazione di legge nella valutazione del materiale probatorio, tenta in realtà di sottoporre a questa Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito.
Al Giudice di legittimità è infatti preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito
perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova disciplina introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, è – e resta – giudice della motivazione.
In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965).
Sul punto/deve altresì ricordarsi che «In tema di prove, la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che, come tale, non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni» (Sez. 2, n. 41505 del 24/09/2013, COGNOME, Rv. 257241) situazione certamente non ravvisabile nel caso in esame.
Resta solo da dire che la difesa dei ricorrenti, nel motivo di ricorso in esame, lamenta in modo del tutto generico la mancata acquisizione agli atti del dibattimento di un verbale di dichiarazioni rese dalla persona offesa in data 2 ottobre 2015 alla polizia tedesca (si noti che nell’intestazione del motivo di ricorso si fa menzione di un verbale in data 2 maggio 2005 ma, in assenza di ulteriori richiami a quest’ultimo verbale, appare logico ritenere che ci si trova in presenza di un mero errore nell’indicazione della data).
La Corte di appello ha chiarito (pag. 14 della sentenza impugnata) che «l’istanza formulata ex art. 603 cod. proc. pen. di acquisizione del predetto verbale non ha potuto essere accolta avendo gli appellanti prodotto solo uno stralcio dell’interrogatorio non consentendo così di apprezzare la deposizione della p.o. e le eventuali rettifiche o spiegazioni rispetto alle frasi valorizzate dall’appellante».
Ritiene l’odierno Collegio che anche in questo caso ci si trova in presenza di una motivazione corretta con la conseguenza che nessuna ulteriore valutazione può essere effettuata in relazione al contenuto di un atto che non ha avuto ingresso nel materiale probatorio.
Anche il secondo congiunto motivo di ricorso nel quale si contesta la riconducibilità alla fattispecie di cui all’art. 629 cod. pen. della condotta descritta a
capo B della rubrica delle imputazioni e si invoca al più la riconduzione della condotta nell’alveo della fattispecie di cui all’art. 610 cod. pen. è manifestamente infondato.
Si è già detto sopra delle modalità con le quali gli imputati, mediante violenze e minacce, si sono procurati una dichiarazione scritta della persona offesa che avevano all’evidenza intenzione di produrre in un giudizio civile di separazione tra coniugi al punto da averla consegnata ad un avvocato.
Il Tribunale (v. pag. 9 della relativa sentenza) ha, innanzitutto, osservato che il fatto di cui al capo B della rubrica delle imputazioni è stato erroneamente qualificato come estorsione “tentata” e, richiamando un principio enunciato dalla Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 19 del 27/10/1999, PM in proc. COGNOME, Rv. 214642) secondo cui «in tema di estorsione, il delitto deve considerarsi consumato e non solo tentato allorché la cosa estorta venga consegnata dal soggetto passivo all’estorsore», ha qualificato il predetto reato come “consumato” ritenendo, poi, del tutto irrilevante il fatto che le dichiarazioni estorte alla vitti non fossero state utilizzate nella causa di divorzio intrapresa dal SRAGIONE_SOCIALE
Quanto poi al “profitto” relativo all’azione posta in essere dagli imputati lo stesso Tribunale ha evidenziato che.attraverso la costrizione della persona offesa ad assumere ogni addebito rispetto alla separazione dal marito, quest’ultimo poteva ottenere condizioni più favorevoli nella separazione medesima, con pari danno, anche di natura patrimoniale, della donna.
La Corte di appello investita della medesima questione ha così testualmente motivato: «la condotta degli imputati descritta nel capo B integra il delitto consumato di estorsione, avendo gli imputati costretto con minaccia la persona offesa a redigere le dichiarazioni con le quali, tra l’altro, assumendosi la responsabilità della separazione, ponevano i presupposti per ottenere una separazione con addebito ai danni della persona offesa che, così, non avrebbe potuto pretendere nulla a titolo di mantenimento, ottenendo, quindi, S.I. , con il concorso dei correi, il vantaggio patrimoniale di non essere costretto a mantenere la moglie, che all’epoca non lavorava, con correlativo danno patrimoniale per la donna».
Ritiene l’odierno Collegio che la soluzione giuridica alla quale sono giunti i Giudici di merito sia assolutamente corretta.
Come è noto, il reato di estorsione presuppone, tra l’altro, per la sua configurabilità l’intenzione del soggetto agente di procurarsi un ingiusto profitto con danno della persona offesa.
E’ altresì diffusa l’opinione secondo cui il danno, quale centro dell’offesa “criminale” sulla quale è imperniato il delitto di estorsione, debba avere un contenuto patrimoniale, determinando una effettiva diminuzione del patrimonio della persona offesa.
La definizione della nozione di danno, pertanto, deve essere determinata in correlazione funzionale a quella di patrimonio, che ne costituisce il presupposto logico-giuridico necessario al fine di individuare il momento effettuale del risultato pregiudizievole della condotta costrittiva.
La questione verte allora sul corretto inquadramento della figura del “danno patrimoniale” e, in particolare, se entro tale concetto possa essere ricompreso non solo il danno patrimoniale diretto ed immediato derivante dall’azione ma anche un danno potenziale, pur sempre di natura patrimoniale, consistente nella c.d. perdita dell’aspettativa di conseguire un vantaggio economico (“perdita di chance”).
A dirimere un contrasto giurisprudenziale sul punto sono intervenute di recente le Sezioni Unite di questa Corte Suprema che, con un assunto che anche l’odierno Collegio condivide, hanno affermato che «In tema di estorsione, nella nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto rientra anche la perdita di una seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale» (Sez. U, n. 30016 del 28/03/2024, COGNOME, Rv. 286656 – 01).
Il Supremo Consesso di questa Corte ha altresì ricordato che il danno patrimoniale da perdita di chance è stato riconosciuto dalla giurisprudenza civile di questa Corte sin dagli anni ’80 del secolo scorso e che l’assunto fondamentale sul quale viene imperniata la costruzione teorica del danno da perdita di chance è quello secondo cui può dar luogo a un danno risarcibile anche la perdita della sola possibilità di conseguire un risultato vantaggioso, ovvero di evitarne uno sfavorevole.
La chance non deve, poi, essere valutata in relazione al risultato atteso, ma alla perdita della possibilità di conseguirlo (Sez. 3 civ., n. 12906 del 26/06/2020, Rv. 658177; Sez. 3 civ., n. 5641 del 09/03/2018, cit.).
Orbene, tali principi, sono stati da questa Corte di legittimità trasposti anche nel giudizio penale seppure con la doverosa precisazione che in ordine agli elementi che descrivono l’offesa propria del danno “criminale”, occorre dimostrare in termini di certezza l’esistenza di un nesso causale tra la condotta colpevole e l’evento di danno, inteso quale possibilità perduta di ottenere un risultato migliore o più favorevole, distinguendo i profili della seria ed apprezzabile possibilità dalla mera speranza o dalla generica aspettativa del conseguimento di un risultato positivo.
Ritiene l’odierno Collegio che la prova del predetto nesso causale possa ritenersi pacificamente esistente nel caso di specie in quanto desumibile proprio dalla condotta degli imputati come accertata dai Giudici di merito, non potendosi certo revocare in dubbio che la costrizione della persona offesa a sottoscrivere la dichiarazione de qua (poi consegnata come detto ad un avvocato) fosse finalizzata
ad ottenere una separazione coniugale “con addebito” con le evidenti conseguenze (anche) patrimoniali che ne derivano sulla base del disposto dell’art. 156 del codice civile.
Ne consegue che la natura “patrimoniale” del danno patito dalla persona offesa consente pertanto di ricondurre – come hanno fatto i giudici di entrambi i gradi di merito – l’azione compiuta dagli imputati nell’alveo dell’art. 629 cod. pen. e non certo in quello di cui all’art. 610 cod. pen.
Dato, poi, che il reato si è compiutamente realizzato, anche sotto il profilo del danno, al momento del rilascio da parte della persona offesa dello scritto di cui si è detto ,,i1 reato è da ritenersi consumato e non tentato.
Infine,anche il terzo congiunto motivo di ricorso con il quale si contesta il mancato riconoscimento agli imputati delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen. è manifestamente infondato.
Il Tribunale (v. pag. 10 della relativa sentenza) ha negato agli imputati il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche rilevando che dal punto di vista oggettivo non è sufficiente per il riconoscimento del beneficio l’incensuratezza degli stessi e, comunque, sottolineando che non si ravvisa in atti alcun elemento di fatto favorevole agli autori degli illeciti ed idoneo ad attenuare la gravità dei reati riducendone il disvalore.
La Corte di appello a sua volta (v. pag. 26 della relativa sentenza) ha evidenziato, con riguardo all’invocato riconoscimento delle circostanze attenuanti 4ver generiche,di nony’dare peso alla transazione prodotta in giudizio e comportante l’assunzione di un impegno economico degli imputati nei confronti della persona offesa costituita parte civile, rilevando che tale impegno è stato sottoscritto solo in un momento prossimo alla celebrazione dell’udienza di appello ed è apparso strumentalmente finalizzato in vista dell’udienza stessa e che comunque tale atto non è dimostrativo dell’assenza di resipiscenza da parte degli imputati.
Ritiene l’odierno Collegio che le motivazioni adottate sul punto dai Giudici di merito vadano esenti da critiche rilevabili in questa sede alla luce, da un lato, del principio secondo cui «Il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente giustificato con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica dell’art. 62 bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente non è più sufficiente lo stato di incensuratezza dell’imputato» (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986; Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini, Rv. 260610) e, dall’altro, sul rilievo che «Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti
gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti,
rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, ! , n.
28535 del 19/03/2014, COGNOME, Rv. 259899).
4. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
Alla inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, quanto a ciascuno di essi, ai sensi dell’art.
616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dai ricorsi (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186) al
versamento della somma ritenuta equa di euro tremila in favore della Cassa delle
Ammende.
5. La natura dei fatti in contestazione impone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle
parti a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/03.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 13 novembre 2024.