Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 21870 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 21870 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a MELFI il 23/11/1972
avverso la sentenza del 15/05/2024 della Corte d’appello di Potenza;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del .-icorso; uditi gli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME in difesa di NOME COGNOME che hanno concluso per l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 16/12/2016 il Tribunale di Potenza aveva riconosciuto NOME COGNOME responsabile del delitto di estorsione ascrittogli al capo A) della rubrica (in esso ritenute assorbite le ipotesi contestate a titolo di tentati
e, ritenuta l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., l’aveva condannato alla pena di anni 8 di reclusione ed euro 4.000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali; aveva applicato le pene accessorie conseguenti all’entità di quella principale e lo aveva invece assolto dal delitto di cui al capo B) perché per il fatto non sussiste;
la Corte d’appello di Potenza, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermata per il resto, ha rideterminato la pena in quella di anni 6 e mesi 8 di reclusione ed euro 1.200 di multa;
ricorre per cassazione il COGNOME con due ricorsi a mezzo dei difensori che deducono:
3.1 l’Avv. NOME COGNOME
3.1.1 erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen. in relazione all’elemento costitutivo dei danno alla persona offesa; travisamento di entrambe le sentenze di merito: osserva che la sussistenza degli estremi del delitto di estorsione è stata individuata da un lato nel danno subito dalla persona offesa per la mancata percezione dell’utile e nella coartazione a concludere il contratto con l’imputato; evidenzia perciò il travisamento in cui sarebbero incorsi il Tribunale e la Corte d’appello con riguardo alla affermazione secondo cui l’operazione sarebbe stata effettuata al prezzo pari o di poco inferiore a quello di “costo” laddove era stato lo stesso COGNOME a riferire di un margine di guadagno mentre la sentenza di secondo grado ha erroneamente evocato la giurisprudenza formatasi in ordine alla c.d. estorsione contrattuale non essendovi alcuna prova del fatto che il COGNOME fosse stato coartato nel concludere il contratto con il COGNOME; osserva che, in ogni caso, il COGNOME aveva provveduto a saldare integralmente il dovuto, sia pure dopo l’arresto ma, comunque, prima del giudizio;
2.1.2 erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen. in relazione all’elemento costitutivo della minaccia: rileva che la Corte d’appello, a fronte della censura articolata con l’atto di gravame, ha affrontato l’aspetto della coartazione della volontà contrattuale ma non delle conseguenze che sarebbero derivate alla persona offesa dalla mancata adesione alle richieste dell’imputato;
2.1.3 erronea applicazione dell’art. 610 cod. pen. e dell’art. 7 del DL 152 del 1991: rileva che la appurata assenza di un danno patrimoniale per la persona offesa avrebbe dovuto portare a qualificare la condotta dell’imputato in termini, semmai, di violenza privata, delitto posto a presidio della libertà di autodeterminazione della vittima a fronte di quello di estorsione che tutela il patrimonio;
2.1.4 sulla prescrizione del reato di cui all’art. 629 cod. pen. – violazione dell’art. 157 cod. pen.: segnala che la Corte d’appello ha ritenuto infondata l’eccezione di prescrizione del reato invocando il disposto di cui all’art. 157, comma quarto, cod. pen., inserito nel codice di rito soltanto con la legge 251 del 2006 e, pertanto, inapplicabile ai fatti pregressi; segnala che, pertanto, considerato il termine massimo ed i periodi di sospensione del suo corso, il termine massimo di prescrizione sarebbe maturato in data 19.06.2023;
2.2 l’Avv. NOME COGNOME
2.2.1 erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen. e mancata applicazione dell’art. 610 cod. pen.; vizio di motivazione sulla sussistenza del delitto di estorsione: richiama l’impostazione dell’accusa segnalando che le frasi attribuite al COGNOME erano state pronunciate in un contesto del tutto diverso e con finalità ed in tempi precedenti e distanti rispetto alla transazione commerciale oggetto del processo; rileva, infatti, che il riferimento alla appartenenza dell’imputato ad un clan malavitoso era avvenuta nell’ambito di una conversazione dedicata a tutt’altro come quello al pregresso stato detentivo era intervenuto con la proposta dell’imputato di coinvolgere la persona offesa in una attività truffaldina; aggiunge che le ulteriori condotte percepite dal COGNOME come intimidatorie si erano perfezionate in un periodo successivo alla trattativa commerciale e, anche, all’arresto dell’imputato;
2.2.2 violazione di legge con riguardo all’art. 416-bis.1 cod. pen. e vizio di motivazione quanto all’intervenuta prescrizione: segnala che il riferimento operato dal COGNOME alla sua appartenenza ad un non meglio precisato sodalizio – opposto a quello operante in Melfi – era intervenuto soltanto per giustificare l’impossibilità di rivolgersi alla RAGIONE_SOCIALE, riferibile al sodalizio COGNOME e che, in ogni caso non sono emersi mezzi e metodiche minatorie particolari laddove le visite dei fratelli dell’imputato erano avvenute dopo il suo arresto; rileva che l’esclusione dell’aggravante “mafiosa” avrebbe imposto la declaratoria di prescrizione del reato;
2.2.3 violazione di legge con riferimento all’art. 629 cod. pen. come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 120 del 2023, agli artt. 62bis, 132 e 133 cod. pen.; vizio di motivazione: segnala che la Corte non ha motivato sul perché i precedenti penali dell’imputato sarebbero ostativi al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in quanto prevalenti sulla irrisorietà del danno patrimoniale considerato tale, invece, per giustificare una riduzione della pena detentiva nel minimo edittale e che avrebbe anzi potuto fondare la “lieve entità” di origine costituzionale;
la Procura Generale, pur in presenza di una istanza di trattazione in presenza del processo, ha trasmesso la requisitoria scritta concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono, nel complesso, infondati.
Va in primo luogo premesso che la sentenza qui impugnata è stata resa dalla Corte d’appello di Potenza a seguito dell’annullamento della precedente decisione pronunciato da questa stessa Sezione per ragioni tuttavia di mero “rito”, avendo dichiarato la nullità del giudizio per omessa traduzione dell’imputato detenuto.
Proprio la natura processuale del vizio rilevato dalla sentenza rescindente comporta, dal punto di vista tabellare, che il presente giudizio possa e debba essere trattato dalla medesima Sezione.
Tanto premesso, rileva il collegio che NOME COGNOME era stato tratto a giudizio e riconosciuto responsabile, nei due gradi di merito, del delitto estorsione in danno di tale NOME COGNOME in quanto “… con la minaccia implicita di attivare altrimenti strumenti di coercizione violenta, minaccia attuata prospettando alla persona offesa le proprie pendenze giudiziarie per estorsione (…) e la propria appartenenza ad un sodalizio criminoso dicendosi parte di una organizzazione contraria ed opposta a quella rappresentata dal defunto COGNOME…) rinnovata con visite con cadenza quasi quotidiana presso l’esercizio commerciale della vittima, dapprima costringeva COGNOME NOME (…) a vendergli e consegnargli, al prezzo unitario di euro 8,00 al mq., sensibilmente inferiore a quello di listino, pari ad euro 10,50, piastrelle … per mq. 73,30, poi lo costringeva a vendergli ed a consegnargli, in sostituzione del precedente non di suo gradimento, al prezzo unitario di euro 10,50, sensibilmente inferiore a quello di listino, pari ad euro 13,00 al mq., piastrelle (…) per mq. 73,30, quindi l costringeva a vendergli ed a consegnargli, in sostituzione di quello Chis (…) pure trovato non di suo gradimento, al prezzo unitario di euro 10,50 al mq., enormemente inferiore a quello di listino, pari ad euro 26,00 al mq, piastrelle parma Iris per mq. 73,30, infine … poneva in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere il COGNOME ad accettare in pagamento delle piastrelle (…) marca Iris una somma inferiore di euro 390,00 persino al prezzo delle piastrelle di qualità inferiore marca Energy”.
Con l’atto d’appello la difesa dell’imputato aveva sollecitato l’assoluzione dal delitto di estorsione sul rilievo secondo cui la merce sarebbe stata comunque venduta, dal Frascolla, ad un prezzo pari a quello di costo non essendosi prodotto, perciò, un reale pregiudizio patrimoniale; secondo la difesa, dunque, non sarebbero stati integrati gli estremi del delitto di estorsione – caratterizzato, pe l’appunto, da un pregiudizio patrimoniale eziologicamente legato alla condotta violenta o minatoria dell’agente – ma, semmai, ed al più, quelli del più lieve delitto di violenza privata.
3.1 Sul punto, osserva il collegio, e con specifico riguardo ai rilievi articolati nel primo e nel terzo motivo del ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME, la motivazione della Corte d’appello è assolutamente incensurabile perché puntualmente ancorata alle emergenze istruttorie e, per altro verso, a corrette premesse in punto di diritto.
I giudici potentini, infatti, hanno chiarito che, sulla scorta degli elementi acquisiti nel corso del dibattimento, era emerso che il materiale era stato infine venduto dal Frascolla ad un prezzo “pari o di poco inferiore a quello di costo” (cfr., pag. 5 della sentenza impugnata) aggiungendo, poi, che “il bene giuridico compromesso fu la libertà negoziale della vittima, oltre che la possibilità per il venditore di trarre dall’operazione commerciale il guadagno atteso e giusto praticando prezzi di listino” (cfr., ancora, ivi).
Si tratta di considerazioni assolutamente coerenti con le premesse in fatto e, come detto, corrette in diritto.
Questa Corte, come è noto, ha più volta ribadito che nel delitto di estorsione c.d. contrattuale – che si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente o con altri soggetti l’elemento dell’ingiusto profitto con correlativo altrui danno deve ritenersi implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia stato costretto a rapportarsi contrattualmente con l’agente, in violazione della propria autonomia negoziale, essendogli impedito di perseguire i propri interessi economici nel modo da lui ritenuto più opportuno (cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 12434 del 19/02/2020, COGNOME, Rv. 278998 – 01; Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 269364 – 01; Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana, Rv. 258168 – 01; Sez. 6, n. 9185 del 25/01/2012, COGNOME, Rv. 252283 – 01).
È vero che, proprio in tema di estorsione “contrattuale”, è ravvisabile, nella giurisprudenza di legittimità, un orientamento apparentemente difforme (cfr., ad esempio, Sez. 2, n. 27556 del 17/05/2019, Amico, Rv. 276118 – 01, in cui si affermò che configura il delitto di violenza privata, e non quello di estorsione, nel
caso in cui la minaccia posta in essere dall’agente abbia ad oggetto la richiesta di riassunzione presso un cantiere di lavoro dal quale era stato precedentemente licenziato atteso che tale minaccia, pur essendo diretta al conseguimento di un ingiusto profitto, non arreca alcun danno ingiusto alla vittima, che dovrebbe retribuire l’attività lavorativa che si intende effettivamente prestare, ma si limita a comprimerne l’autonomia contrattuale con l’imposizione di una posizione lavorativa regolare).
E, tuttavia, è sufficiente rilevare che, nel caso che ci occupa, l’estorsione “contrattuale” non è stata affatto “neutra” dal punto di vista patrimoniale avendo comportato, per il COGNOME, la mancata realizzazione del legittimo e congruo margine di guadagno ordinariamente derivante da quel tipo di transazioni e che sarebbe stato conseguito ove la vendita del materiale fosse avvenuta senza alcuna costrizione ovvero in favore di terzi.
Va d’altra parte osservato che, recentemente, le stesse SS.UU. di questa Corte, nel risolvere un contrasto insorto sul punto, hanno chiarito la nozione di danno patrimoniale rilevante ai fini della configurabilità del delitto ritenendo che in essa debba essere compresa anche anche la perdita di una seria e consistente possibilità di conseguire un bene o un risultato economicamente valutabile, la cui sussistenza deve essere provata sulla base della nozione di causalità propria del diritto penale (cfr., Sez. U, n. 30016 del 28/03/2024, COGNOME, Rv. 286656 01; conf., sulla scia del principio affermato dalle SS.UU., Sez. 2, n. 44230 del 13/11/2024, S., Rv. 287217 – 01).
3.2 Con il secondo motivo del ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME e con il primo motivo del ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME, le difese del COGNOME insistono, inoltre, sulla mancanza di prova dell’esistenza di una condotta minatoria eziologicamente collegata al perfezionamento della transazione commerciale in danno della persona offesa.
Più in particolare, il motivo di censura articolato nel ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME denunzia violazione di legge e travisamento del fatto in cui sarebbero incorsi entrambi i giudici di merito nell’evocare, a tal fine, gli accenni del COGNOME alla sua militanza criminale che, invece, erano intervenuti in tutt’altro contesto e con tutt’altra finalità.
Ebbene, entrambi i ricorsi, sulla premessa di una non corretta ricostruzione della vicenda, denunziano il vizio di violazione di legge sotto il profilo dell’erroneo inquadramento del fatto: le censure, tuttavia, per come articolate, finiscono in realtà per contestare il giudizio di responsabilità, ovvero il risultato probatorio cui sono approdati i giudici di merito che, con valutazione conforme delle medesime
emergenze istruttorie, sono stati concordi nel ritenere sussistenti e pienamente riscontrati all’esito della ricostruzione delle concrete vicende processuali gli elementi costitutivi della fattispecie contestata; è appena il caso di ribadire che il motivo di ricorso fondato sulla lett. b) dell’art. 606 cod. proc. pen. deve essere invero articolato sotto il profilo della contestazione della riconducibilità del fatto così come ricostruito dai giudici di merito – nella fattispecie astratta delineata dal legislatore; altro, invece, come accade sovente ed anche nel caso di specie, è mettere in dubbio o contestare che le emergenze istruttorie acquisite consentano di ricostruire la condotta di cui si discute in termini idonei a ricondurla al paradigma legale.
Vero, poi, che tra i vizi riconducibili al novero di quelli denunziabili ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. vi è quello del “travisamento” che, come è noto, è ravvisabile nel caso di contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ovvero da altri atti del processo indicati nei motivi di gravame, ovvero dall’errore cosiddetto revocatorio, che cadendo sul significante e non sul significato della prova, si traduce nell’utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio ovvero nella omessa valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (cfr., Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, COGNOME, Rv. 250168; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017, COGNOME, Rv. 272406; Sez. 2, n. 27929 del 12/06/2019, PG c/COGNOME, Rv. 276567).
E, tuttavia, il vizio di “travisamento” allude, in realtà, all’esistenza di un prova che non sia stata affatto valutata ovvero che sia stata considerata dal giudice di merito in termini incontrovertibilmente difformi (non già dal suo “significato” ma) dal suo “significante” e che, proprio per questo, deve essere individuata specificamente e “puntualmente” come idonea, se valutata e considerata nel suo reale contenuto, a disarticolare il ragionamento su cui si fonda ia decisione impugnata.
È necessario, peraltro, che la relativa deduzione abbia un oggetto definito e inopinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione (o di altro elemento di prova) e quello tratto dal giudice, con conseguente esclusione della rilevanza di presunti errori da questi commessi nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (cfr., Sez. 5, n. 8188 del 4/12/2017, COGNOME; cfr., Sez. 2, n. 27929 del 12/06/2019 n. 27.929, COGNOME; cfr., anche, Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, S, Rv. 277758, secondo cui il vizio di travisamento della prova è ravvisabile ed efficace solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento
probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio).
Fatta questa premessa, è allora agevole rendersi conto del fatto che i denunziati “travisamenti” si risolvono, in realtà, nella contestazione dell’esito della lettura che delle prove acquisite al processo – indiscutibilmente valutate dai giudici di merito – sia stata operata e sia stata trasfusa nelle sentenze di primo e di secondo grado.
È sufficiente rilevare come già il Tribunale (cfr., pag. 6 della sentenza di primo grado) avesse dato conto del fatto che il riferimento del COGNOME alla sua appartenenza ad un clan antagonista rispetto a quello “COGNOME” era intervenuto nell’ambito del discorso che era stato avviato con il COGNOME circa la richiesta di aiuto che l’imputato aveva avanzato a costui per reinserirsi nel mondo del lavoro a seguito dei suoi trascorsi giudiziari; il primo giudice aveva inoltre spiegato che le stesse minacce del COGNOME, “condite” anche in tal caso con il richiamo al suo pregresso stato di detenzione, erano state profferite contestualmente alla richiesta di coinvolgere il COGNOME nella attività di riciclaggio di assegni di dubbia provenienza.
I giudici di merito, dunque, non hanno affatto trascurato o omesso di valutare il contesto in cui l’imputato aveva richiamato la sua dimensione criminale ma, nel contempo, e con valutazione prettamente “di merito”, ne hanno considerato la rilevanza ai fini della richiesta di acquistare il materiale a condizioni di particolare ed ingiustificato favore.
In particolare, la Corte d’appello ha considerato come il messaggio veicolato al Frascolla, sia pure in un diverso contesto, fosse stato comunque utilizzato per realizzare la condotta estorsiva in danno della persona offesa, abilmente attuata con alternanza di atteggiamenti “imploranti” rispetto ad espliciti riferimenti ai trascorsi criminali (cfr., pag. 5 della sentenza di primo grado) e con atteggiamento comunque ben inteso dal commerciante che, infine, si era determinato a convenire sulle condizioni – per lui certamente sfavorevoli richieste dall’odierno ricorrente.
Giova d’altra parte ribadire che, ai fini della configurabilità del delitto di estorsione, sono indifferenti la forma o il modo della minaccia, potendo questa essere manifesta o implicita, palese o larvata, diretta o indiretta, reale o figurata, orale o scritta, determinata o indeterminata, purché comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore ed a coartare la volontà del
soggetto passivo; la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l’elemento strutturale del delitto di estorsione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi una effettiva intimidazione del soggetto passivo (cfr., tra le tante, Sez. 2, n. 2702 del 18/11/2015, dep. 2016, Nuti, Rv. 265821 – 01; cfr., anche, Sez. 2, n. 11922 del 12/12/2012, dep. 2013. Rv. 254797 – 01 e Sez. 2, n. 36698 del 19/06/2012, COGNOME, Rv. 254048 – 01, in cui la Corte ha chiarito che, ai fini della configurabilità del reato di estorsione, il caratt minaccioso della condotta e la idoneità della stessa a coartare la volontà del soggetto passivo vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, non rendendosi necessario che si sia verificata l’effettiva intimidazione del soggetto stesso; cfr., Sez. 5, n. 556 del 06/10/2003, dep. 12/01/2004, COGNOME, Rv. 227660 – 01, secondo cui, in tema di minaccia, anche un mero comportamento può presentare i connotati della minaccia, in quanto, da un lato, la condotta si inserisca in un contesto reiterato di espressioni di nequivoco contenuto minaccioso e, dall’altro, esso risulti oggettivamente caratterizzato da atteggiamenti marcatamente minacciosi).
3.3 Infondato è, ancora, il secondo motivo del ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME
Vero che la Corte d’appello, a fronte del motivo di gravame concernente l’aggravante “mafiosa”, si è limitata a segnalare che “il COGNOME fece chiaro riferimento ai suoi pregressi periodi di carcerazione e all’ambiente delinquenziale organizzato con cui interagiva …” (cfr., pag. 7 della sentenza impugnata) omettendo, come si è visto, di dar conto – come invece aveva fatto il Tribunale che ciò era avvenuto in un contesto diverso; e, tuttavia, come pure già accennato, la complessiva lettura delle due sentenze di merito è coerente nel segnalare che, comunque, il “messaggio” era stato recapitato e che il COGNOME era stato reso edotto del fatto di confrontarsi e rapportarsi con un soggetto legato ad ambienti criminali e le cui pretese, per questa ragione, era per lui certamente preferibile assecondare.
È appena il caso di richiamare il principio per cui la circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione con le caratteristiche di cui all’art. 416-bis, cod. pen. ovvero la appartenenza dell’imputato ad un sodalizio di quel tipo, essendo sufficiente, ai fini della sua applicazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza
intimidatrice “tipica” dell’agire mafioso essendo perciò l’aggravante configurabile tanto con riferimento ai reati-fine commessi nell’ambito di un’associazione criminale comune, che nel caso di reati posti in essere da soggetti estranei al reato associativo (cfr., Sez. 6, n. 41772 del 13.6.2017, Vicidomini; Sez. 5, n. 21530 dell’8.2.2018, Spada).
La circostanza del metodo mafioso è, pertanto, configurabile anche a carico di soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere anzidetto (cfr., Sez. 2, n. 38094 del 5.6.2013, De Paola; Sez. 2, n. 16053 del 25.23.2015, Campanella; Sez. 1, n. 5881 del 4.11.2011, COGNOME; Sez. 2, n. 322 dei 2.10.2013, COGNOME).
Quel che rileva non è la effettiva e reale esistenza di un sodalizio riconducibile a quelli connotati dalle caratteristiche proprie di cui all’art. 416-b cod. pen. e, per altro verso, ovvero che il reo ne faccia effettivamente parte, ma il fare ricorso a metodi propri e simili a quelli utilizzati nell’ambito di que consorterie criminali, connotate per l’appunto dalla forza intimidatrice promanante per l’appunto dalla consapevolezza, da parte delle vittime, che la condotta criminosa di cui sono destinatarie non è riconducibile esclusivamente all’autore materiale della condotta in quel momento da essi subita ma, ben diversamente, che costui possa contare sull’apporto di terzi in grado di sostenerne l’azione, di vendicarlo se occorre, comunque di intervenire in suo aiuto anche con metodi violenti; con l’effetto, così, di ridurre, per ciò solo, i margini di “resistenza” d persona offesa in tal modo indotta ad accondiscendere “spontaneamente” ed a non reagire rispetto alle illegittime pretese avanzate nei suoi confronti.
Come è stato chiarito, è sufficiente, cioè, che l’esistenza di un sodalizio appaia sullo sfondo, perché evocato dall’agente, inducendo perciò la vittima sia spinta ad adeguarsi al volere dell’aggressore – o ad abbandonare ogni velleità di difesa – per timore di più gravi conseguenze; ciò in quanto “la ratio della disposizione di cui al/’art. 7 D. L. 152/1991 non è soltanto quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando metodi mafiosi o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino da mafiosi, oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle
organizzazioni della specie considerata” (cfr., così, Sez. 6, n. 582 del 19.2.1998, Primasso).
3.4 Il quarto motivo del ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME è, a sua volta infondato.
In materia di reati aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen. trova applicazione la disciplina della prescrizione disposta dall’art. 160, comma terzo, cod. pen. che, per i reati richiamati dall’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen., non prevede, di fatto, un termine massimo di prescrizione che, in questi casi, matura soltanto se, da ciascun atto interruttivo, sia decorso il termine stabilito dall’art. 157, cod. pen., e, pertanto, in presenza di plurimi atti interrutt è potenzialmente suscettibile di ricominciare a decorrere all’infinito (cfr., Sez. 2, n. 4822 del 15/11/2022, dep. 2023, Cristiano, Rv. 284389 – 02; Sez. 2, n. 40855 del 19/04/2017, COGNOME, Rv. 271164 – 01).
Si tratta di una disciplina che, introdotta con la legge 251 del 2005, è indubbiamente sfavorevole rispetto al regime previgente essendo peraltro assolutamente pacifico che, riguardando un aspetto sostanziale della risposta punitiva al reato, non possa pertanto trovare applicazione a fatti – come quello per cui si procede – commessi prima della sua entrata in vigore (cfr., per un profilo analogo, Sez. 6, n. 31877 del 16/05/2017, B., Rv. 270629 – 01; conf., Sez. 4, n. 16026 del 20/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275711 – 01).
È allora opportuno ribadire che, in materia di successione nel tempo di leggi penaii, il giudice, una volta individuata la disposizione complessivamente più favorevole, deve applicarla nella sua integralità, senza poter combinare un frammento normativo di una legge e un frammento normativo dell’altra legge secondo il criterio del “favor rei”, atteso che in tal modo verrebbe ad applicare una terza fattispecie di carattere intertemporale non prevista dal legislatore con violazione del principio di legalità (cfr., Sez. 4, n. 7961 del 17/01/2013, COGNOME, RL 255103 – 01; Sez. 4, n. 42496 del 19/09/2012, Mercuri, Rv. 254613 – 01; Sez. 4, n. 11198 del 17/01/2012, COGNOME, Rv. 252170 – 01).
Ma è proprio in forza della disciplina previgente l’entrata in vigore della legge 251 del 1991 – da applicare nella sua interezza – che il reato non sarebbe comunque prescritto: il tempo necessario al maturare della prescrizione, infatti, va calcolato alla luce del combinato disposto degli artt. 157, comma primo e comma terzo, 160, comma secondo, cod. pen..
Si tratta, infatti, di reato per il quale, nella forma non aggravata, era ed è prevista una pena detentiva pari a 10 anni di reclusione, da aumentare, tuttavia, della metà, per la contestata aggravante, ai sensi del comma terzo dell’art. 157
cod. pen. (che, come pure è noto, recitava nel senso che “per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo al massimo della pena stabilita dalla legge
per il reato … tenuto conto dell’aumento massimo di pena stabilito per le circostanze aggravanti …”) e dell’art. 7 del D. 152 del 1991 che, per l’appunto,
stabilisce un aumento della pena, per l’aggravante “mafiosa” da un minimo di un terzo alla metà.
Tenuto conto, pertanto, dei fatti interruttivi pacificamente intervenuti prima del maturarsi della prescrizione “intermedia”, si perviene ad un tempo necessario
a prescrivere il reato che ci occupa che è pari a 22 anni e 6 mesi, pacificamente ad oggi non decorsi.
3.5 Il terzo motivo del ricorso a firma dell’Avvocato COGNOME è infondato.
Questa stessa sezione della Corte (cfr., Sez. 2, n. 32569 del 16/06/2023,
COGNOME, Rv. 284980 01) ha già recentemente e condivisibilmente avuto modo di affermare che in tema di estorsione, ove ricorra l’aggravante di cui all’art. 416-
bis.1 cod. pen., non può trovare applicazione l’attenuante della lieve entità del fatto, introdotta, in relazione a tale delitto, con sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2023 (cfr., tra le non massimate, Sez. 2, n. 9631 del 07/01/2025, NOME; Sez. 2. n. 41822 del 19/09/2024, COGNOME; Sez. 2. n. 27388 del 08/05/2024, COGNOME).
Il rigetto dei ricorsi comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P . Q . M .
rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 04/03/2025.