Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 9947 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 9947 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 07/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
GLYPH
COGNOME NOME
nato a Montagnana il 23/01/1974
Scolaro NOME COGNOME
nato a Cologna Veneta il 09/08/1975
avverso la sentenza del 13/02/2024 della Corte d’appello di Venezia visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto la inammissibilità dei ricorsi;
lette le conclusioni dei difensori Avv. NOME COGNOMEper COGNOME) e Avv. NOME COGNOME (per COGNOME), che hanno chiesto l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.
Con sentenza del 13 febbraio 2024 la Corte di appello di Venezia confermava la decisione con la quale il Tribunale di Padova aveva riconosciuto NOME COGNOME e NOME COGNOME colpevoli del reato di estorsione aggravata continuata in concorso e li aveva condannati alle pene, rispettivamente, di quattro anni, tre mesi di reclusione e 1.500 euro di multa e di due anni, quattro mesi di reclusione e 700 euro di multa; in parziale riforma della decisione del primo giudice, la Corte riduceva la pena inflitta a COGNOME a tre anni, sette mesi di reclusione e 900 euro di multa, confermando la sentenza nel resto.
Secondo la tesi accusatoria, recepita dai giudici di merito, i due imputati avevano in più occasioni costretto NOME COGNOME con minacce e violenze, a dare loro varie somme di denaro dopo averlo fraudolentemente indotto a consegnare il suo telefono cellulare, prospettandogli l’esecuzione, al prezzo di cinque euro, di alcuni aggiornamenti del dispositivo e della estensione della relativa memoria.
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso gli imputati, a mezzo dei rispettivi difensori, chiedendone l’annullamento.
Il ricorso proposto dall’Avv. NOME COGNOME nell’interesse di NOME COGNOME è articolato in nove motivi.
3.1. Violazione della legge penale (art. 629 cod. pen.) sulla ritenuta sussistenza dell’elemento oggettivo della contestata estorsione. Omessa e contraddittoria motivazione per travisamento della prova scientifica e dell’esame del consulente tecnico del Pubblico ministero. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sulla sussistenza dell’elemento oggettivo della estorsione, con particolare riferimento alla credibilità della persona offesa nonché alla ritenuta attendibilità intrinseca ed estrinseca del suo narrato, anche in relazione alle deposizioni testimoniali assunte.
La Corte di appello non ha spiegato come si può estorcere denaro a una persona attraverso l’utilizzo di dati sensibili della vittima che l’agente non possiede, non reperiti da alcuna parte, attraverso condotte di cui non vi sono tracce né come possa essere ritenuta attendibile la narrazione della persona offesa solo sulla base della sua asserita bassa scolarizzazione e in assenza di riscontri esterni.
Un riscontro non può essere costituito dal contenuto dell’elaborato del consulente tecnico né dal suo esame, travisato nella sentenza impugnata là dove ha ritenuto effettuato un backup del cellulare di Bissaro, non rinvenuto nel pc di
COGNOME a prescindere dalla confusione fatta dal consulente sugli account, il quale a dichiarato anche che l’ultimo – backup risaliva al 17 maggio 2019, pertanto a epoca precedente ai fatti contestati.
Inoltre, sul telefono della persona offesa non è stata rinvenuta traccia delle tante conversazioni con COGNOME, dalla stessa riferite, né dell’utilizzo della tecnica dello spoofing.
In definitiva, non vi è prova non solo delle condotte minacciose denunciate da COGNOME e delle sue dazioni di denaro, ma neppure del presupposto accusatorio di tali condotte, cioè l’aver carpito dati sensibili della stessa persona offesa.
La motivazione sul punto della credibilità di COGNOME è carente e manifestamente illogica, in quanto la paura che egli avrebbe provato a causa delle condotte di COGNOME non lo rende per ciò solo credibile.
La motivazione è apodittica e apparente anche in punto di attendibilità, ritenuta sulla base delle caratteristiche personali di Bissaro, indicato quale persona pacifica e onesta, ma smentita da una serie di dati ignorati nella sentenza: l’assenza di documenti attestanti i prelievi di denaro che la persona offesa ha dichiarato di avere consegnato ai Carabinieri, la mancanza di prova circa la vantata sua parentela con il comandante di una stazione dei Carabinieri, l’inverosimile e indimostrata attività di guardia del corpo di un Presidente della Repubblica quando egli era diciannovenne, la contraddittorietà di fondo nella narrazione di altre condotte riferite (in ordine ai contatti telefonici con COGNOME, alla conoscenza in capo al ricorrente del tragitto percorso per andare al lavoro, all’episodio nel quale si sarebbe verificata l’unica condotta violenta).
Neppure le dichiarazioni dei testi COGNOME e COGNOME costituiscono riscontri esterni al racconto della persona offesa, potendo le stesse tutt’al più provare i collegamenti dei loro cellulari e di quello di Bissaro al pc di COGNOME ma non le condotte estorsive. La sentenza impugnata, poi, ha omesso di valutare il profilo della inattendibilità dei due testi, dimostrata dai continui “non ricordo” espressi nel corso delle loro deposizioni.
Risultava poi evidente la decisività della perizia ex art. 196 cod. proc. pen. richiesta in appello per verificare la capacità a testimoniare di Bissaro, COGNOME e Bergamasco.
3.2. Violazione della legge penale (art. 629 cod. pen.), motivazione illogica e apparente sulla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo della contestata estorsione.
La sentenza impugnata ha omesso di motivare sullo specifico punto, cioè sulla rappresentazione e volontà dell’imputato di commettere il reato di estorsione, il cui dolo specifico deve reggere ogni momento della condotta.
La Corte di appello, invece, ha motivato, peraltro apoditticamente, solo il punto della ritenuta ingiustizia del profitto, nulla dicendo sugli aspetti precedenti la condotta che partiva da un servizio reso e da una richiesta di Bissaro.
3.3. Erronea applicazione della legge penale (artt. 629 e 393 cod. pen.), con conseguente errata qualificazione giuridica del fatto.
La stessa persona offesa, ritenuta attendibile dai giudici di merito, ha dichiarato che il ricorrente chiedeva il pagamento delle prestazioni svolte, non potendo un servizio tecnico-informatico essere pagato la miserevole somma di cinque o cinquantacinque euro. In ogni caso – secondo la sentenza Filardo delle Sezioni Unite – nel reato di cui all’art. 393 cod. pen. “la pretesa azionata per le vie di fatto è sostenuta dall’intimo e non assurdo convincimento di una ragione tutelabile”.
Pertanto, a tutto concedere, la condotta di COGNOME era mossa dalla richiesta di pagamento per il servizio reso, ragion per cui le concrete modalità dell’azione non rilevano, dovendosi indagare le ragioni per le quali essa sia stata commessa.
Il “crescendo” delle richieste di denaro, evocato nella sentenza, in disparte la relativa prova, nulla sposta sul punto dell’accertamento dell’elemento psicologico.
3.4. Erronea applicazione della legge penale (artt. 629 e 640 cod. pen.), con conseguente errata qualificazione giuridica del fatto.
Proprio la pronuncia di legittimità citata nella sentenza impugnata, in tema di differenza fra estorsione e truffa vessatoria, rende evidente come nel caso di specie non sia configurabile il primo grave reato, atteso che non vi era alcuna “alternativa ineluttabile” per Bissaro, ma solo la sua erronea convinzione di poter subire condotte del tutto impraticabili, viste le citate risultanze tecnicoscientifiche.
A tutto concedere, le dazioni di denaro, conseguenti a un servizio reso dal ricorrente, sarebbero avvenute spontaneamente, cosicché la persona offesa, tutt’al più, sarebbe stata indotta in errore e non coartata nella volontà. Sarebbe ravvisabile, dunque, una truffa, reato ipotizzato dal Pubblico ministero nel decreto di perquisizione e sequestro.
3.5. Erronea applicazione della legge penale (artt. 629, 610 e 612 cod. pen.), con conseguente errata qualificazione giuridica del fatto.
In appello si era evidenziato che dalle prove assunte erano emerse circostanze incompatibili con la configurabilità, nella fattispecie concreta, del reato di estorsione, mancando la prova delle minacce e delle dazioni di denaro, in difetto della quale la condotta avrebbe integrato reati meno gravi quali la violenza privata o la minaccia. La Corte territoriale ha travisato il motivo,
ritenendolo fondato su una “erronea ed indebita ‘parcellizzazione’ delle condotte”.
3.6. Mera apparenza nonché manifesta illogicità della motivazione sull’accoglimento solo parziale del motivo riguardante il trattamento sanzionatorio e mancata applicazione della sentenze della Corte costituzionale n. 120 del 2023 e n. 86 del 2024.
La sentenza non ha trattato il tema inerente alla circostanza aggravante delle più persone riunite e ha motivato in modo contraddittorio sul diniego delle attenuanti generiche.
La Corte d’appello non ha spiegato perché non ha ridotto la pena in forza delle citate pronunce, dopo avere affermato che la condotta di COGNOME, cui era stata riconosciuta l’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, non presentava “una specifica e maggiore gravità”, tale da infliggere una pena superiore al minimo edittale.
3.7. Mera apparenza nonché manifesta illogicità della motivazione sulla declaratoria di inammissibilità del motivo di appello in punto di pene accessorie applicate.
Detto motivo dubitava della legittimità costituzionale dell’automatismo fissato dall’art. 29 cod. pen. circa la durata della interdizione dai pubblici uffici e sollecitava una interpretazione costituzionalmente orientata.
3.8. Mancata assunzione di una prova decisiva; manifesta illogicità e mera apparenza della motivazione sul mancato accoglimento delle richieste istruttorie indicate nel primo motivo.
Sul punto è insufficiente la motivazione per relationem con rinvio interno a quanto argomentato per disattendere un altro motivo di gravame.
3.9. Violazione della legge penale processuale, con conseguente erronea applicazione dell’art. 545-bis cod. proc. pen., stante il mancato accoglimento della richiesta di pena sostitutiva formulata durante l’udienza di appello del 13 febbraio 2024.
La richiesta è stata ritenuta generica, ma era impossibile chiedere una pena sostitutiva specifica senza conoscere la pena finale che sarebbe stata inflitta a COGNOME condannato in primo grado a una pena superiore ai quattro anni.
La Corte di appello, dopo la lettura del dispositivo, avrebbe dovuto chiedere al difensore, munito di procura speciale, se avesse voluto la sostituzione della pena detentiva con una di quelle previste dall’art. 20-bis cod. pen.
Il ricorso proposto dall’Avv. NOME COGNOME nell’interesse di NOME COGNOME è articolato in quattro motivi, con i primi tre dei quali si è lamentata la “mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione” in tre diversi punti.
4.1. Pagg. 7-8 della sentenza.
– Come dichiarato da NOMECOGNOME egli fu presente solo alla prima cena a casa di Bergamasco, avendo conosciuto in quella occasione COGNOME il cui telefono fu aggiornato soltanto da COGNOME su richiesta della stessa persona offesa.
Non è stato accertato che la persona che trattenne per un braccio COGNOME, nell’episodio da quest’ultimo riferito, sia stato COGNOME all’epoca debilitato fisicamente, che mai ha telefonato all’altro.
Le considerazioni svolte dal consulente tecnico del P.M. sul ricorrente sono state inopportune e irrilevanti, mentre i dati tecnici escludono una qualsiasi sua partecipazione alla vicenda di cui si tratta, che sarebbe stata illogica in ragione delle modestissime somme in ipotesi pagate da COGNOME, a fronte della retribuzione percepita da COGNOME quale lavoratore dipendente.
La persona offesa ha reso dichiarazioni contraddittorie e le motivazioni delle sentenze di merito sono illogiche là dove le hanno ritenute attendibili; nulla di quanto COGNOME dichiarò ai Carabinieri è stato dimostrato.
Le deposizioni degli altri testi sono ininfluenti; la sorella della persona offesa ha riferito de relato, mentre i testi COGNOME e COGNOME hanno affermato di avere ricordi molto confusi e non hanno comunque reso dichiarazioni rilevanti.
4.2. Pag. 26 della sentenza.
La Corte di appello ha erroneamente affermato che COGNOME non era imputato, insieme a COGNOME, del reato ex art. 615-ter cod. pen.; egli, invece, lo è stato, nonostante la sua estraneità alle operazioni effettuate sul telefono di Bissaro.
4.3. Ancora pag. 26.
COGNOME non ha proferito o scritto alcunché nei confronti di Bissaro né lo ha mai seguìto. La motivazione a fondamento della condanna rimane illogica.
4.4. Con l’ultimo motivo il ricorrente lamenta la mancata applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2023, riferita al caso di estorsione di lieve entità quale quella ravvisabile nel caso di specie: COGNOME ignorava le condotte tenute da COGNOME e da esse COGNOME non ha tratto alcun vantaggio.
Disposta la trattazione scritta del procedimento in cassazione, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito nella legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile in forza di quanto disposto dall’art. 94, comma 2, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, come modificato dalla legge 23 febbraio 2024, n. 18, nella quale è stato convertito il decreto-legge 30 dicembre 2023, n. 215), in mancanza di alcuna richiesta di discussione orale, nei termini ivi previsti, il Procuratore generale e i difensori hanno depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di COGNOME va rigettato perché proposto con motivi non consentiti o infondati, mentre è inammissibile quello di COGNOME considerate la genericità e la manifesta infondatezza dei motivi.
Avuto riguardo a considerazioni generali svolte nei due ricorsi, è opportuno ricordare che il giudice di appello, in presenza di una doppia conforme anche nell’iter motivazionale, non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi in modo logico e adeguato le ragioni del proprio convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi.
Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, COGNOME, Rv. 281935 – 01; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593 – 01; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260841 – 01).
Neppure la mancata enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo all’accertamento dei fatti che si riferiscono all’imputazione, determina la nullità della sentenza di appello per mancanza di motivazione se tali prove non risultano decisive e se il vaglio sulla loro attendibilità possa comunque essere ricavato per relationem dalla lettura della motivazione, circostanza riscontrabile nella sentenza impugnata, che ha esaminato ed espressamente confutato le deduzioni difensive negli aspetti fondamentali.
In sede di legittimità, dunque, la sentenza non è censurabile ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per il silenzio su una specifica doglianza proposta con il gravame, quando il suo rigetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della motivazione (Sez. 4, n. 5396 del 15/11/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284096 – 01; Sez. 3, n. 43604 del 08/09/2021, COGNOME, Rv. 282097 – 01; Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275500 01; Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, COGNOME, Rv. 256340 – 01).
Inoltre, la presenza di una criticità su una delle molteplici valutazioni contenute nel provvedimento impugnato, qualora le restanti offrano ampia rassicurazione sulla tenuta del ragionamento ricostruttivo, non può comportare l’annullamento della decisione per vizio di motivazione, potendo lo stesso essere rilevante solo quando, per effetto di tale critica, all’esito di una verifica sull
completezza e globalità del giudizio operato in sede di merito, risulti disarticolato uno degli essenziali nuclei di fatto che sorreggono l’impianto della decisione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M., Rv. 271227 – 01; Sez. 6, n. 3724 del 25/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 267723 – 01; Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Reggio, Rv. 254988 – 01; Sez. 2, n. 37709 del 26/09/2012, COGNOME, Rv. 253445 – 01).
Nel contempo va ribadito che è preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova (Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rezzuto, Rv. 285504 – 01; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos COGNOME, Rv. 283370 – 01; Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747 – 01; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601 – 01; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217 – 01).
3. Ricorso COGNOME.
3.1. Il punto centrale dell’impugnazione, ripreso in vari motivi, attiene alla valutazione della credibilità della persona offesa effettuata dai giudici di merito.
3.1.1. Già il Tribunale aveva articolato sul tema una motivazione puntuale e specifica (pagg. 5-7), evidenziando in primo luogo la credibilità di COGNOME, che non solo non si è costituito parte civile, ma che neppure risulta avere mai chiesto agli imputati la restituzione delle somme versate o il risarcimento del danno patito, in assenza di alcun concreto elemento indicativo della sua volontà di mentire accusando falsamente i due ricorrenti.
Le dichiarazioni della persona offesa, ingenua e con scarsa capacità critica, sono state precise e coerenti negli snodi essenziali della vicenda e sono state corroborate da quelle rese dai testi COGNOME e COGNOME su aspetti assai rilevanti (fra i quali: i due incontri a casa del primo, l’offerta di COGNOME presentatosi con false credenziali e un profilo “oscuro”, il ritiro di tutti i cellular nonché dalla deposizione della sorella di COGNOME, cui quest’ultimo si rivolse per chiedere del denaro in prestito, con fare inizialmente elusivo, prima del racconto fatto in famiglia di quanto realmente accaduto.
La sentenza impugnata ha esaminato analiticamente (sub 2.2.1.) le doglianze difensive sul punto e le ha disattese applicando correttamente il principio affermato dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale occorre effettuare un rigoroso riscontro della credibilità soggettiva ed oggettiva della persona offesa, specie se costituita parte civile, accertando l’assenza di elementi che facciano dubitare della sua obiettività, senza la necessità, però,
della presenza di riscontri esterni, stabilita dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. per il- dichiarante coinvolto -nel fatto (Sez. U, n. -41461 del 19/07/2012, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 253214 – 01; Sez. 4, n. 410 del 09/11/2021, dep. 2022, Aramu, Rv. 282558 – 01; Sez. 5, n. 12920 del 13/02/2020, COGNOME, Rv. 279070 – 01; Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 – 01; Sez. 2, n. 41751 del 04/07/2018, COGNOME, Rv. 274489 – 01).
Con logica argomentazione la Corte territoriale ha ritenuto fisiologico il fatto che COGNOME, a distanza di tre anni dalla vicenda, abbia evidenziato alcune imprecisioni nei ricordi, rendendo necessarie contestazioni in aiuto alla memoria, circostanza che non comporta la inattendibilità delle dichiarazioni, rimaste comunque inalterate nel loro nucleo centrale e avvalorate dalle altre deposizioni.
La sentenza impugnata ha evidenziato vari profili indicativi della veridicità e spontaneità della narrazione del teste e nella motivazione non emergono contraddizioni o illogicità. Va ricordato che «la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni» (così Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, cit.; più di recente v. Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609 – 01), circostanza come detto – assente nel caso di specie.
Avuto riguardo alle criticità segnalate dalla difesa su affermazioni relative a dettagli marginali e soprattutto a circostanze avulse dalla vicenda di cui si tratta, va ricordato altresì il principio della frazionabilità della valutazione del narrato della persona offesa, che – secondo la costante giurisprudenza di questa Corte «è legittima sempre che non sussista un’interferenza fattuale e logica tra la parte di esso ritenuta inattendibile e le rimanenti parti e che l’inattendibilità non sia talmente macroscopica, per accertato contrasto con altre sicure risultanze di prova, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante» (così Sez. 6, n. 3015 del 20/12/2010, dep. 2011, COGNOME, Rv. 249200 – 01; in senso conforme vds. Sez. 5, n. 25940 del 30/06/2020, M., Rv. 280103 – 01; Sez. 4, n. 21886 del 19/04/2018, COGNOME, Rv. 272752 – 01; Sez. 5, n. 46471 del 19/10/2015, COGNOME, Rv. 265874 – 01; Sez. 6, n. 20037 del 19/03/2014, L., Rv. 260160 – 01).
3.1.2. La Corte territoriale ha motivato la scelta di non disporre perizia sulla capacità a testimoniare di Bissaro (e degli altri due testi) che senza fondamento è stata indicata quale prova decisiva.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito sul punto che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la
perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità -delle parti e rimesso -alla discrezionalità del giudice, poiché il suddetto articolo, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, n. 39746 del 22/03/2017, A., Rv. 270936 – 01, in un caso di perizia richiesta per accertare la capacità a testimoniare di un minore vittima di violenza sessuale).
Inoltre, la idoneità a rendere testimonianza implica la capacità di comprensione delle domande e di adeguamento delle risposte, in uno ad una sufficiente memoria circa i fatti oggetto di deposizione e alla piena coscienza di riferirne con verità e completezza, sicché non ogni comportamento contraddittorio, ma solo una situazione di abnorme mancanza nell’escutendo di ogni consapevolezza in relazione all’ufficio ricoperto determina l’obbligo per il giudice di disporre accertamenti sulla sua capacità di testimoniare (Sez. 3, n. 24365 del 14/03/2023, G., Rv. 284670 – 02; Sez. 1, n. 6969 del 12/09/2017, dep. 2018, S., Rv. 272605 – 01).
3.1.3. Non è fondata neppure la doglianza con la quale la difesa ha lamentato il travisamento della prova scientifica, costituita dalla consulenza tecnica svolta ex art. 360 cod. proc. pen. dall’ing. COGNOME, esperto incaricato dal Pubblico ministero.
Va ribadito, infatti, che nel giudizio di legittimità un accertamento di natura tecnica può essere oggetto di esame critico da parte del giudice solo nei limiti del travisamento della prova, che sussiste nel caso di assunzione di una prova inesistente o quando il risultato probatorio sia diverso da quello reale in termini di evidente incontestabilità (Sez. 1, n. 51171 del 11/06/2018, COGNOME, Rv. 274478 – 01; Sez. 1, n. 47252 del 17/11/2011, COGNOME, Rv. 251404 – 01; da ultimo vds. Sez. 1, n. 26204 del 09/04/2024, Marino, non mass.), circostanza non ravvisabile nel caso di specie.
La difesa ha asserito che nessun backup del telefono di Bissaro sarebbe stato eseguito da COGNOME, ma il rilievo risulta assertivo e contrasta con quanto affermato dalla Corte di appello sulla base sia dell’elaborato scritto (pagg. 70 e 80) sia dell’esame dibattimentale (pagg. 43-45 delle trascrizioni): sebbene le risultanze informatiche non dimostrano con certezza che fu eseguito un backup completo del cellulare della persona offesa, si può comunque dedurre che almeno in parte il backup fu effettuato attraverso una sincronizzazione dello smartphone con il software installato sul portatile del ricorrente.
Il dato, invero, non è neppure decisivo, considerato che – nella conforme ricostruzione dei giudici di merito – l’aspetto fondamentale è costituito da ciò che
COGNOME fece credere a Bissaro, dopo avere pattuito (solo) la pulizia e l’ampliamento della memoria del cellulare, operazione poi non eseguita.
Il ricorrente, infatti, chiese reiteratamente alla persona offesa la consegna di somme di denaro, minacciandolo in caso contrario di gravi ritorsioni nei confronti suoi e dei familiari, asserendo di avere il totale controllo sui suoi spostamenti e sulle sue attività, affermazione che a Bissaro poteva apparire tutt’altro che inverosimile proprio perché egli aveva consegnato il cellulare a Crivellaro.
Ciò che rileva, dunque, è l’idoneità delle minacce rivolte a Bissaro, costretto a pagare agli imputati quanto indebitamente richiestogli.
3.2. La positiva valutazione sulla motivazione dei giudici di merito in punto di attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa comporta di conseguenza la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso riguardanti la qualificazione giuridica del fatto, correttamente ritenuto una estorsione continuata.
Si è ora detto delle minacce subite da COGNOME, a fronte delle quali in più occasioni egli si determinò a versare somme di denaro agli imputati, arrivando persino a chiederle in prestito alla sorella. Nella ricostruzione delle sentenze di merito si trattò di una minaccia del tutto idonea a incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, considerate le circostanze concrete, la personalità dell’agente e soprattutto le condizioni soggettive della vittima (in proposito cfr., ad es., Sez. 2, n. 3724 del 29/10/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282521 – 01; Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017, Tessitore, Rv. 269905 – 01; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 261553 – 01; Sez. 2, n. 11922 del 12/12/2012, dep. 2013, COGNOME, Rv. 254797 – 01).
In una occasione, poi, COGNOME fu aggredito anche fisicamente dai due imputati. Dopo il secondo incontro a casa di Bergamasco – ha rimarcato la sentenza impugnata – COGNOME si allontanò ma fu raggiunto da COGNOME e COGNOME, che pretendevano il pagamento della ulteriore somma di cento euro, “ormai svincolata da qualsiasi pretesto di retribuzione di qualsiasi operazione tecnica asseritamente compiuta”, al pari di altre successive richieste alle quali la persona offesa cedette in ragione del forte timore conseguente alle minacce e anche alla violenza subite: quella sera, infatti, COGNOME fu colpito al volto con uno o due schiaffi da COGNOME mentre COGNOME lo teneva fermo.
Risulta evidente, dunque, che correttamente la Corte di appello ha disatteso le doglianze difensive, in questa sede pedissequamente riproposte, intese a ottenere una riqualificazione giuridica del fatto in una più favorevole fattispecie.
Proprio il succedersi nel tempo di esose richieste, del tutto avulse dalle presunte operazioni eseguite sul cellulare, finalizzate a ottenere un profitto palesemente ingiusto, ha consentito al giudice di appello di confermare la impossibilità di ravvisare nella condotta contestata il reato di esercizio arbitrario
delle proprie ragioni, previsto dall’art. 393 cod. pen., configurabile solo quando l’agente sia-animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente: pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, essa non può essere del tutto arbitraria ovvero sfornita di una possibile base legale, come ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027 – 02).
È altresì consolidato il principio, pure richiamato nella sentenza impugnata, secondo il quale l’elemento atto a differenziare la condotta estorsiva da quella di truffa aggravata “vessatoria” va colto nelle modalità della condotta, valutata ex ante, che può qualificarsi come estorsiva se connotata – come nel caso di specie – dalla minaccia di un male concretamente realizzabile ad opera dello stesso agente e altresì idonea a coartare la volontà della vittima, ponendola di fronte al bivio di sottostare al ricatto o subire le conseguenze dannose del male minacciato (Sez. 2, n. 24624 del 17/7/2020, COGNOME, Rv. 279492 – 01; Sez. 2, n. 46084 del 21/10/2015, COGNOME, Rv. 265362 – 01; Sez. 2, n. 7662 del 27/01/2015, COGNOME, Rv. 262574-01; da ultimo cfr. Sez. 2, n. 44940 del 13/11/2024, COGNOME, non mass.).
Poiché la coartazione da parte degli imputati fu diretta a procurarsi un ingiusto profitto con altrui danno, con una connotazione di ordine patrimoniale, la Corte territoriale ha escluso che nella fattispecie fossero configurabili il solo reato di minaccia ovvero quello di violenza privata (in proposito v. Sez. 2, n. 17288 del 18/01/2019, COGNOME, Rv. 276622 – 04; Sez. 5, n. 8639 del 20/01/2016, COGNOME, Rv. 266079 – 01; Sez. 2, n. 49388 del 04/12/2012, COGNOME, Rv. 253914 – 01; Sez. 6, n. 38661 del 28/09/2011, COGNOME, Rv. 251052 – 01).
3.3. Anche le doglianze in tema di aggravante e attenuanti, proposte con il sesto motivo di ricorso, non sono fondate.
3.3.1. In ordine alla sussistenza della circostanza aggravante ex artt. 629, secondo comma, e 628, terzo comma, n. 1, cod. pen., la persona offesa secondo la incensurabile ricostruzione dei giudici di merito – subì minacce e violenza quando erano presenti entrambi gli imputati e quindi da più persone riunite (Sez. U, n. 21837 del 29/03/2012, COGNOME, Rv. 252518 – 01).
Peraltro, vi è anche un difetto di interesse sul punto, perché l’attenuante ex art. 62, primo comma, n. 4, cod. pen. è stata ritenuta prevalente su detta aggravante: secondo l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza di legittimità, non vi è interesse – nel caso di specie neppure indicato – a ottenere l’esclusione di una circostanza aggravante quando la stessa sia stata già ritenuta subvalente nel giudizio di comparazione (cfr., ad es., Sez. 2, n. 3880 del 24/11/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284309 – 01; Sez. 1, n. 43269 del 25/09/2019, R., Rv.
277144 – 01; Sez. 4, n. 20328 del 11/01/2017, B., Rv. 269942 – 01; Sez. 4, n. 27101 del 21/04/2016, Debilio, 267442 – 01).
3.3.2. Non vi è alcuna contraddittorietà nella motivazione relativa al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, che può essere legittimamente giustificato con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo (Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, COGNOME, Rv. 283489 – 01; Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, COGNOME, Rv. 281590 – 01; Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, COGNOME, Rv. 270986 – 01).
La Corte territoriale ha ritenuto di ridurre la pena al minimo edittale, ma di confermare il diniego delle attenuanti generiche con una scelta legittima, in quanto non sussiste un rapporto di necessaria interdipendenza fra le due statuizioni che, pur richiamandosi ai criteri ex art. 133 c.p., si fondano su presupposti diversi (Sez. 4, n. 36352 del 15/09/2021, M., Rv. 281888 – 01; Sez. 3, n. 2268 del 15/11/2017, dep. 2018, S., Rv. 272022 – 01; Sez. 5, n. 12049 del 16/12/2009, dep. 2010, COGNOME, Rv. 246887 – 01).
3.3.3. É inammissibile, in quanto non consentito perchè proposto per la prima volta in sede di legittimità, il motivo inerente all’applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 24/5-15/6/2023, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità (mentre la successiva sentenza del Giudice delle leggi, richiamata nel ricorso, non è pertinente al caso di specie, riguardando il reato di rapina).
La difesa, infatti, né nell’atto di appello, depositato in data 8 luglio 2023, né nelle richieste conclusive all’udienza del 13 febbraio 2024, ha chiesto l’applicazione della nuova circostanza attenuante.
Questa Corte, con principio condiviso dal Collegio, ha da ultimo statuito che non è deducibile con ricorso per cassazione l’omessa motivazione del giudice di appello in ordine al denegato riconoscimento di tale attenuante ove la questione, già proponibile in quella sede, non sia stata prospettata nel secondo grado di giudizio con motivi aggiunti ovvero in sede di formulazione delle conclusioni (Sez. 2, n. 19543 del 27/03/2024, G., Rv. 286536 – 01).
Il principio risulta coerente con quanto affermato dalla Sezioni Unite nella sentenza Salerno (n. 22533 del 25/10/2018, dep. 2019, Rv. 275376 – 01), là dove si è affermato che la peculiarità della deroga prevista dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen. al principio devolutivo, enunciato dal comma 1 dello stesso articolo, risiede nella sua eccezionalità «che si coniuga con la discrezionalità del
giudice nell’ordinare i benefici previsti dagli artt. 163, 164 e 175 cod. pen., avuto riguardo, in entrambi i casi, alle circostanze indicate nell’art. 133 cod. pen., e con lo scrutinio di merito postulato dal riconoscimento di nuove circostanze attenuanti – comuni, generiche, ad effetto speciale (artt. 62, 62-bis e 63, terzo comma, cod. pen.) – con eventuale giudizio di comparazione».
Hanno osservato le Sezioni Unite che il potere-dovere attribuito al giudice dall’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., «non postula, per definizione, la necessaria iniziativa o sollecitazione di parte, espressa in una richiesta specifica anche solo in sede di conclusioni nel giudizio di appello. E, tuttavia, l’esercizio di esso va correlato sia al suo fondamento normativo, che lo pone come “eccezione” al generale principio devolutivo che governa il giudizio di appello, sia al contenuto “discrezionale” del suo oggetto, che postula, ai fini dell’applicazione dei benefici come del riconoscimento di attenuanti, valutazioni di puro merito. Lo stretto nesso tra ufficiosità, eccezionalità e discrezionalità del potere-dovere attribuito al giudice di appello esclude che il suo mancato esercizio possa configurare un vizio deducibile in cassazione. In particolare, la non decisione sul punto non costituisce violazione di norma penale sostanziale (art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.) e, neppure, violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (art. 606, comma 1, lett. c, cod. proc. pen.), tale non essendo l’art. 597, comma 5, cod. proc. pen.».
Neppure l’assenza di alcuna motivazione sul mancato riconoscimento di un beneficio o di un’attenuante «può costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, se l’effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello, ovvero, nei casi in cui intervenga condanna la prima volta in appello, neppure con le conclusioni subordinate proposte dall’imputato nel giudizio di primo grado».
Pertanto, solo nel caso in cui in cui l’intervento additivo della Corte costituzionale sia successivo alla sentenza impugnata, l’imputato potrà legittimamente dolersi per la prima volta dinanzi al giudice di legittimità della mancata applicazione dell’attenuante con il ricorso principale, ovvero con i motivi aggiunti e anche con una semplice memoria se la pronuncia di incostituzionalità risulta essere stata emessa dopo la scadenza dei termini per la proposizione del ricorso principale o dei motivi nuovi.
Peraltro, la descritta ricostruzione del fatto da parte dei giudici di merito, avuto riguardo alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione, non avrebbe lasciato alcuno spazio per una nuova valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della ulteriore circostanza attenuante introdotta nell’ordinamento a seguito della sentenza della
Corte costituzionale (mentre, quanto alla tenuità del danno, è già stata applicata – come detto – l’attenuante prevista dall’art. 62, primo comma, n. 4 cod. pen.).
3.4. Premesso che la inequivoca disposizione dell’art. 29 cod. pen. non consente in alcun modo di ipotizzare che la durata della pena accessoria sia diversa da quella ivi indicata, la questione di incostituzionalità di detto articolo è stata formulata in termini del tutto generici ed è comunque manifestamente infondata.
Questa Corte ha di recente affrontato il tema e ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, primo comma, cod. pen, nella parte in cui prevede la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque, sollevata in relazione agli artt. 3, 27, 41, 111 e 117 Cost., trattandosi di una sanzione inserita in un meccanismo punitivo graduale che differenzia la durata della pena accessoria in rapporto a due soglie distinte (tre anni di reclusione per l’interdizione temporanea e cinque per l’interdizione perpetua) e che, agganciandosi alla entità della pena principale inflitta, presuppone una valutazione in concreto della gravità del fatto rimessa al potere discrezionale del giudice, sicché, escluso ogni automatismo, la norma non è irragionevole né distonica rispetto al principio di personalizzazione ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio (Sez. 6, n. 9062 del 16/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284417 – 02).
3.5. È generico, infine, l’ultimo motivo in tema di sanzioni sostitutive.
La Corte d’appello, infatti, non ha considerato di per sé la genericità della richiesta di sostituzione della pena detentiva formulata in sede di conclusioni dalla difesa dell’imputato, in via di subordine, qualora una rideterminazione della pena in misura non superiore a quattro anni di reclusione – come poi accaduto lo avesse consentito (“chiede l’applicazione di eventuali pene sostitutive qualora ne ricorrano i presupposti”), ma ha anche escluso “l’idoneità in concreto della pena richiesta al reinserimento sociale del condannato e la presunzione di adempimento delle prescrizioni connesse”, così esercitando il proprio potere discrezionale, tenendo conto dei criteri indicati nell’art. 133 cod. pen. (in proposito, da ultimo, vds. Sez. 3, n. 9708 del 16/02/2024, Tornese, Rv. 286031 – 01 nonché Sez. 2, n. 8794 del 14/02/2024, Pesce, Rv. 286006 – 01).
Con questa motivazione il ricorrente non si è confrontato, non deducendo neppure con il ricorso sulla base di quali circostanze di fatto la Corte territoriale avrebbe dovuto esprimere una valutazione di segno opposto.
4. Ricorso COGNOME.
Il ricorso va dichiarato inammissibile.
4.1. Con il primo motivo il ricorrente ha nella sostanza reiterato tutte doglianze già proposte in appello, disattese dalla Corte territoriale con risposte specifiche e puntuali con le quali la difesa non si è confrontata.
Va ribadito in proposito che sono inammissibili i motivi che riproducono pedissequamente le censure dedotte in appello, al più con l’aggiunta di espressioni che contestino, in termini meramente assertivi e apodittici, la correttezza della sentenza impugnata, laddove difettino di una critica puntuale al provvedimento e non prendano in considerazione, per confutarle in fatto e/o in diritto, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non sono stati accolti (Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521 – 01; Sez. 6, n. 17372 del 08/04/2021, COGNOME, Rv. 281112 – 01; Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710 – 01; Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, COGNOME, Rv. 276970 – 01; Sez. 6, n. 34521 del 27/06/2013, COGNOME, Rv. 256133 – 01).
Il motivo è tutto in “fatto”, come significativamente premesso nel ricorso e si sostanzia in una confusa esposizione di alcune risultanze probatorie, secondo la prospettazione difensiva, seguita da un paragrafo rubricato “giurisprudenza”, senza un effettivo confronto con le ampie argomentazioni della sentenza impugnata e, comunque, in contrasto con il principio in precedenza richiamato (sub § 2.) in ordine alle doglianze proponibili in sede di legittimità, ove non è possibile sollecitare una diversa lettura delle risultanze probatorie acquisite, in presenza di una motivazione immune da contraddittorietà o illogicità.
4.2. Non è ravvisabile alcun interesse in ordine alla deduzione del secondo motivo.
Effettivamente la Corte d’appello ha erroneamente affermato che COGNOME non era imputato, insieme a COGNOME, del reato ex art. 615-ter cod. pen., in relazione al quale il Tribunale ha dichiarato non doversi procedere in difetto di querela; tuttavia, il rilievo è stato del tutto incidentale e non ha avuto alcuna influenza sulla decisione in merito al reato di estorsione.
4.3. Anche il terzo motivo è del tutto generico.
Dopo avere riportato un breve stralcio della motivazione della sentenza impugnata, nel ricorso si legge soltanto che l’imputato “mai ha proferito o scritto alcunché nei confronti del sig. COGNOME pertanto anche in ciò è estraneo alla motivazione a fondamento della condanna che rimane illogica; quanto nel seguito la motivazione prosegue dando credito al fatto che il sig. COGNOME si sentisse seguito, e mai il sig. COGNOME ha perpetrato detta attività”.
Si tratta di affermazioni apodittiche, prive di un confronto con le argomentazioni con le quali la Corte d’appello ha evidenziato il concorso del ricorrente nell’attività estorsiva posta in essere da COGNOME, a fianco del quale egli era sempre presente con un ruolo attivo in occasione delle minacce rivolte a
COGNOME vittima – come si è detto – anche di violenza, quando COGNOME lo colpì con schiaffi mentre COGNOME lo teneva stretto.
4.4. In ordine all’ultimo motivo, proposto per la prima volta con il ricorso, inerente all’applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2023, si richiama integralmente quanto osservato in precedenza trattando della impugnazione del coimputato (sub 3.3.3.).
Al rigetto della impugnazione proposta da NOME COGNOME segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
All’inammissibilità della impugnazione proposta da NOME COGNOME segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di COGNOME NOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso di COGNOME NOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 07/01/2025.