Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 23118 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 23118 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
1.NOME nato a NAPOLI il 03/08/1983
2.COGNOME NOME nato a NAPOLI il 09/03/1991
avverso la sentenza del 17/06/2024 della CORTE di APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso di COGNOME NOME e l’inammissibilità del ricorso di COGNOME NOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 17 giugno 2024 la Corte d’Appello di Napoli confermava la sentenza emessa in data 8 giugno 2023 dal Tribunale di Napoli con la quale gli imputati NOME COGNOME NOME e COGNOME NOME erano stati dichiarati colpevoli dei reati di estorsione aggravata in concorso loro rispettivamente ascritti, e, esclusa la recidiva contestata all’NOME e concesse le circostanze attenuanti generiche a tutti gli imputati, i medesimi erano stati condannati, ciascuno, alla pena di anni cinque di reclusione ed euro 1.000,00 di multa.
n
Avverso detta sentenza proponevano ricorso per cassazione, con distinti atti, i soli imputati COGNOME NOME e COGNOME NOMECOGNOME per il tramite dei rispettivi difensori, chiedendone l’annullamento.
La difesa del COGNOME articolava un unico motivo di doglianza con il quale deduceva contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto esaustive le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria ai fini di rintracciare la parte offesa COGNOME resosi irreperibi considerato che non erano state effettuate ricerche in territorio estero, che non erano stati ascoltati i prossimi congiunti del COGNOME, che non erano stati effettuati accertamenti di natura informatica, che non era stata acquisita la localizzazione GPS del telefono cellulare del COGNOME, che non era stato accertato un eventuale ricovero del medesimo in nosocomi, che non erano state acquisite informazioni da ex dipendenti dell’esercizio commerciale di cui il COGNOME era titolare.
Richiamava l’orientamento del Giudice di legittimità secondo il quale le dichiarazioni predibattimentali erano utilizzabili ex art. 512 cod. proc. pen. nel caso di sopravvenuta irreperibilità del dichiarante, previo accertamento rigoroso della effettiva irreperibilità mediante ricerche da effettuare, anche in territorio estero, attraverso tutti gli strumenti di ricerca disponibili, previa verifica del ragioni dell’allontanamento funzionale all’esclusione della riconducibilità dello stesso alla volontà del dichiarante di sottrarsi al contraddittorio, previa valutazione della imprevedibilità della irreperibilità nella fase investigativa e previa verifica che le dichiarazioni in questione fossero state comunque acquisite con il rispetto di “adeguate garanzie procedurali”.
Assumeva che, nel caso di specie, non tutti gli strumenti di ricerca disponibili erano stati utilizzati, così che doveva ritenersi manifestamente illogico affermare che le ricerche effettuate fossero “assolutamente esaustive, perché estese al luogo di residenza del teste, al suo domicilio di fatto, al luogo ove lo stesso svolgeva attività lavorativa”.
La difesa dello COGNOME articolava due motivi di doglianza.
4.1. Con il primo motivo deduceva violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli artt. 110 e 629 cod. pen., 530 cod. proc. pen., assumendo che il giudice del merito avrebbe dovuto assolvere l’imputato perché il fatto non costituisce reato e che la Corte territoriale non aveva reso adeguata motivazione
in punto di sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di estorsione, nonché in punto di appartenenza dello COGNOME a contesti criminali.
4.2. Con il secondo motivo deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., assumendo che nessun atteggiamento del ricorrente aveva dimostrato un agire malavitoso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso del Muré è manifestamente infondato.
La Corte d’Appello, a fronte dell’irreperibilità della parte offesa, ha dato conto in maniera del tutto congrua e particolareggiata delle ricerche effettuate.
1.1. Come è noto, si afferma in giurisprudenza che, ai fini della lettura e della utilizzabilità di dichiarazioni predibattimentali di un soggetto divenuto successivamente irreperibile, è necessario che il giudice abbia praticato ogni possibile accertamento sulla causa dell’irreperibilità e che risulti esclusa la riconducibilità dell’omessa presentazione del testimone al dibattimento ad una libera scelta dello stesso (cfr., ex multis, Sez. 1, n. 46010 del 06/11/2014, COGNOME, Rv. 261265 – 01; Sez. 1, n. 14243 del 26/11/2015, dep. 2016, N., Rv. 266601 – 01; Sez. 5, n. 13522 del 18/01/2017, S., Rv. 269397 – 01).
In particolare, i giudici di merito hanno evidenziato come il COGNOME non risultasse detenuto e non fosse stato rintracciato nella propria abitazione e neppure nella sede dell’esercizio commerciale che lo stesso, nel passato, aveva gestito, nonché in altro domicilio allo stesso riferibile, luoghi ove gli agent operanti si erano recati più volte, e ancora del fatto che fosse stato esaminato, senza esito, il profilo Facebook del COGNOME, e infine della circostanza che più volte gli agenti operanti avessero chiesto informazioni ad alcuni soggetti residenti nello stabile sede dell’abitazione del medesimo, anche in questo caso senza alcun esito.
Deve, inoltre, osservarsi, che, in tema di lettura di dichiarazioni predibattimentali ex art. 512 cod. proc. pen, non assume rilevanza, ai fini della completezza degli adempimenti prescritti per assicurare la presenza in udienza del teste, la mancata effettuazione di ricerche tramite il recapito telefonico dallo stesso fornito, in assenza di elementi che ne suffraghino l’effettivo utilizzo nel periodo di svolgimento delle ricerche (v., in tal senso, Sez. 3, n. 495 del 03/11/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282614 – 01).
1.2. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio come la motivazione resa sul punto dalla Corte d’appello appaia immune dai vizi denunciati, poiché la stessa ha dato conto in maniera adeguata della completezza e dell’esaustività delle ricerche effettuate, in relazione al vissuto della persona irreperibile, rispetto alla quale la riscontrata successiva impossibilità di escussione in dibattimento non era assolutamente prevedibile (la persona offesa e la sua famiglia risultavano residenti a Napoli, ove il primo svolgeva stabile attività lavorativa) nè erano emersi contatti con l’estero ovvero ulteriori radicamenti territoriali rimasti inesplorati: da qui la corretta applicazione delle disposizioni di cui all’art. 512 cod. proc. pen.
Si viene a questo punto a trattare il ricorso proposto da COGNOME Domenico.
3. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Ed invero, la Corte territoriale ha congruamente richiamato il racconto della parte offesa, che aveva descritto la condotta posta in essere dallo COGNOME, il quale le aveva intimato di recarsi al cospetto di COGNOME NOME, soggetto di nota fama criminale, per un “regalo” da fare ai carcerati, e aveva precisato che anche in altre occasioni era stata costretta a effettuare esborsi di denaro in favore delle famiglie dei carcerati, soggiungendo che in una occasione si era rifiutato di acconsentire alle richieste per poi constatare, il mese successivo, il danneggiamento della saracinesca del proprio esercizio commerciale.
La Corte territoriale, con tale motivazione, ha dato conto in maniera congrua di tutti gli elementi del fatto contestato, ritenendo, in termini del tutto logici, c la condotta di concorso nel delitto di estorsione dello COGNOME era stata posta in essere in piena coscienza e volontà, risultando evidente, dal tenore della motivazione, che l’invito effettuato dall’imputato alla parte offesa a recarsi al cospetto di un soggetto di chiara fama criminale fosse stato effettuato nella consapevolezza della richiesta estorsiva che quest’ultimo avrebbe avanzato nei confronti della vittima.
Pari manifesta infondatezza involge il secondo motivo, avendo la Corte d’appello reso una motivazione immune da vizi in relazione alla ritenuta aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., declinata nel cosiddetto “metodo mafioso”, richiamando in maniera del tutto congrua i concetti di estorsione c.d.
“ambientale” e di “mafiosità” della richiesta, nonché l’elaborazione dei medesimi effettuata dalla giurisprudenza di legittimità.
4.1. Come è noto, quest’ultima, dopo aver affermato che, ai fini del riconoscimento della estorsione c.d. “ambientale”, non è necessario che nella contestazione sia contenuta l’espressa qualificazione dei fatti come “estorsione ambientale”, essendo sufficiente l’indicazione dei requisiti oggettivi e soggettivi del delitto come declinati nel caso concreto (Sez. 2, n. 18566 del 10/04/2020, Abbruzzese, Rv. 279474 – 02), ha riconosciuto che, in tema di estorsione, la connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l’elemento strutturale del reato vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa e le particolari condizion soggettive della vittima, poichè più marcata è la vulnerabilità di quest’ultima, maggiore è la potenzialità coercitiva di comportamenti anche “velatamente” minacciosi (Sez. 2, n. 2702 del 18/11/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 265821 – 01).
La medesima giurisprudenza ha altresì riconosciuto che l’aggravante del metodo mafioso è configurabile anche a fronte di un messaggio intimidatorio “silente”, in quanto privo di un’esplicita richiesta, nel caso in cui la consorteria abbia raggiunto in quel contesto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti violenti o minacciosi (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 51324 del 18/10/2023, COGNOME, Rv. 285669 – 01; nello stesso senso, Sez. 2, n. 21707 del 17/04/2019, Barone, Rv. 276115 – 01), non essendo necessario che la vittima conosca l’estorsore ed il clan di appartenenza del medesimo, rilevando soltanto le modalità in sé della richiesta estorsiva, che, pur formalmente priva di contenuto minatorio, ben può manifestare un’energica carica intimidatoria – come tale percepita dalla vittima stessa – alla luce della sottoposizione del territorio in cui detta richiesta è formulata all’influsso di notorie consorterie mafiose (Sez. 2, n. 22976 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 270175 – 01).
4.2. Nella fattispecie, la Corte territoriale ha evidenziato la ricorrenza di un messaggio intimidatorio “silente”, ossia l’assenza di un’esplicita richiesta estorsiva, circostanza che non ha impedito di valutarne la portata minacciosa indissolubilmente legata alla provenienza da un’associazione criminale radicata nel territorio, la cui forza di intimidazione era ben nota ai consociati, e i particolare alla vittima; si deve anche considerare, al riguardo, che, nel caso di specie, l’oggetto della richiesta – pure opportunamente evidenziato dalla Corte
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territoriale nel provvedimento impugnato – era costituito dal versamento di una somma di denaro da utilizzare quale aiuto economico in favore delle famiglie dei
carcerati, laddove detta causale rappresenta, per l’appunto, una delle attività
tipiche delle consorterie mafiose (cfr., ex plurimis,
Sez. 2, n. 7558 del 06/02/2014, Miranda, Rv. 258545 – 01, secondo cui, in tema di estorsione, integra la circostanza aggravante dell’uso del metodo mafioso la
condotta di colui che prospetti l’utilizzo delle somme estorte per aiutare le famiglie degli “amici carcerati”, non rilevando in proposito che l’esistenza
dell’organizzazione criminale non sia stata menzionata nel contesto delle richieste estorsive, in quanto il mezzo di coartazione della volontà facente ricorso al
vincolo mafioso, e alla connessa condizione di assoggettamento, può esprimersi in forma indiretta, o anche per implicito; nello stesso senso, Sez. 2, n. 36115 del
27/06/2017, COGNOME Rv. 27100 – 01).
4.3. Sotto altro profilo si deve, poi, considerare che appare del tutto eccentrico rispetto alla doglianza il riferimento, contenuto nel ricorso, al fatto che
lo COGNOME non avrebbe dimostrato “un agire malavitoso”.
Alla stregua di tali rilievi entrambi i ricorsi devono, dunque, essere dichiarati inammissibili; i ricorrenti devono, pertanto, essere condannati, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, deve, altresì, disporsi che i ricorrenti versino, ciascuno, la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 11/03/2025