Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20144 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20144 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Napoli il 28/06/1979
avverso la sentenza del 12/03/2024 della Corte d’appello di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME il quale, dopo avere argomentato in ordine all’inammissibilità del ricorso, ha concluso chiedendo che «la Corte di cassazione annulli con rinvio»;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 12/03/2024, la Corte d’appello di Napoli confermava la sentenza del 21/10/2021 del G.u.p. del Tribunale di Napoli, emessa in esito a giudizio abbreviato, con la quale NOME COGNOME era stato condannato alla pena di cinque anni e sei mesi di reclusione ed € 2.000,00 di multa per il reato di estorsione pluriaggravata (dall’essere stata la minaccia commessa in più persone riunite e che fanno parte dell’associazione camorristica clan “Di Grazia”, nonché dai cosiddetti metodo mafioso e agevolazione di tale clan camorristico) e continuata in concorso (con NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME) ai danni dell’imprenditore NOME
COGNOME, titolare della “RAGIONE_SOCIALE di Carinaro, di cui al capo 3 dell’imputazione.
Avverso tale sentenza del 12/03/2024 della Corte d’appello di Napoli, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore avv. NOME COGNOME, NOME COGNOME affidato a cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., l’illogicità della motivazione sul punto che la responsabilità per il reato di estorsione a lui attribuito sarebbe stata provata e riscontrata dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (tra loro fratelli) NOME COGNOME e NOME COGNOME, in quanto i giudici del merito: avrebbero erroneamente ritenuto che tali due collaboratori di giustizia fossero delle fonti di prova autonome e non, invece, NOME COGNOME testimone de relato di NOME COGNOME; avrebbero trovato sostegno alla ricostruzione degli stessi due collaboratori di giustizia nelle dichiarazioni che erano state rese dal coimputato NOME COGNOME nel corso dell’udienza del 28/06/2021, omettendo di rilevare come da esse era emersa una prova a riscontro non della partecipazione dell’imputato all’estorsione a lui attribuita ma, piuttosto, di una sua intraneità al clan COGNOME «in termini generici».
Secondo il COGNOME, la Corte d’appello di Napoli avrebbe travisato le fonti di prova e avrebbe per questo reso una motivazione meramente apparente.
Il COGNOME lamenta anzitutto che la Corte d’appello di Napoli avrebbe omesso di confrontarsi con il rilievo difensivo secondo cui le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME non potevano riscontrarsi reciprocamente «dal momento che il COGNOME NOME riferisce di circostanze da lui apprese dal fratello NOME».
Ciò emergerebbe dalla circostanza, non considerata dalla Corte d’appello di Napoli – che sarebbe perciò incorsa nel vizio di mancanza della motivazione – che NOME COGNOME aveva riferito che, nella sua qualità di capo del clan “COGNOME“, «aveva “delegato” a ciascun luogotenente un “settore di competenza» (così il ricorso) e, in particolare, al fratello NOME COGNOME la gestione del “giro” del estorsioni.
Ciò detto, il ricorrente contesta che, nel valorizzare l’affermazione di NOME COGNOME secondo cui, tra i soggetti che partecipavano al “giro” presso la lavanderia del COGNOME, vi era anche il Sacco, la Corte d’appello di Napoli non si sarebbe confrontata con la circostanza che «NOME, lungi dal propalare un “autonomo” sapere, idoneo a riscontrare le dichiarazioni di NOME, ne mutua da quest’ultimo la fonte della sua conoscenza del fatto specifico». Infatti, «se davvero NOME COGNOME pose in essere una ripartizione dei ruoli, tale per cui era NOME ad avere il controllo degli affiliati che operavano il “giro” si comprende come tale
informazione questi l’abbia acquisita per il tramite del fratello NOME», con la conseguenza che, «diventando, di fatto, propalante de relato il suo narrato non può costituire un riscontro di quanto asserito dal NOME COGNOME».
Il ricorrente lamenta in secondo luogo l’illogicità della motivazione là dove la Corte d’appello di Napoli ha ritenuto l’attendibilità del narrato di NOME COGNOME secondo cui il COGNOME si sarebbe recato presso l’abitazione di NOME COGNOME, suocera di NOME COGNOME, nel quartiere di Napoli di Ponticelli per portare al COGNOME l’introito del giro delle estorsioni in Carinaro, atteso che tale narra «contrasta con l’informazione veicolata dai medesimi collaboratori secondo cui il COGNOME, era a rischio di morte nel ritornare a Ponticelli suo luogo di origine per aver aderito ad una consorteria di Carinaro». Il ricorrente contesta che la Corte d’appello di Napoli abbia ritenuto l’attendibilità di NOME COGNOME «nonostante avesse chiesto proprio all’unico affiliato a rischio di morte nel ritornare a Ponticell di consegnargli, proprio in quel luogo, il compenso del “giro” di estorsioni, quantificato dallo stesso in 13/15 mila euro», senza confrontarsi con l’indicata contraddizione intrinseca del narrato del suddetto collaboratore di giustizia.
Quanto alle dichiarazioni di NOME COGNOME e, in particolare, all’affermazione dello stesso secondo cui «io andavo sempre a discutere le estorsioni con NOME COGNOME. Quando NOME COGNOME non c’era, andavo sia con COGNOME Mario o con COGNOME Luciano e andavamo a discutere le estorsioni, a fare gli omicidi, di tutto», il ricorrente deduce che la valorizzazione di ta affermazione, operata dalla Corte d’appello di Napoli, «deraglia verso l’illogicità», essendo fondata «su un evidente travisamento per invenzione», atteso che «dall’occasionale presenza del COGNOME da questi raccontata allorquando era assente NOME se ne inferisce che il COGNOME era presente in quello specifico episodio della contestazione».
Il COGNOME riporta poi alcune dichiarazioni del COGNOME che figurano alla pag. 11 del verbale fono-registrato dell’udienza del 28/06/2021 dalle quali emergerebbero due dati rilevanti che sarebbero stati travisati dalla Corte d’appello di Napoli.
In primo luogo, «a domanda specifica di come si svolgessero le estorsioni, il COGNOME esclude categoricamente la presenza del COGNOME; ergo, le precedenti dichiarazioni sono da intendersi, come del resto ammesso dallo stesso ricorrente, nel senso che il COGNOME aveva compiti ulteriori e diversi».
In secondo luogo, il COGNOME aveva riferito di un provento totale del “giro” di circa C 5.000,00, cioè di una cifra di gran lunga inferiore a quella che, secondo la ricostruzione di NOME COGNOME, il COGNOME gli avrebbe portato a casa della suocera NOME COGNOME.
Il ricorrente conclude che, a fronte del fatto che, sulla base di quanto argomentato, «l’unica fonte di prova diretta, ovvero NOME non trova alcun riscontro nelle propalazioni rese dagli altri collaboratori di giustizia risulterebbero i denunciati vizi della motivazione.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., l’illogicità della motivazione sul punto della ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., «pur non essendo emerso in alcun modo l’utilizzo del cd metodo mafioso né tantomeno risulta configurata la finalità agevolatrice della consorteria criminale»
Il COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Napoli avrebbe ritenuto la sussistenza di tali due circostanze aggravanti «sulla scorta di meri dati presuntivi desumibili dalla ricostruzione della vicenda così come operata dai collaboratori di giustizia» e «con una mera frase di stile», pur «a fronte della doglianza specifica sollevata con i motivi di gravame».
Espone che «agli atti non vi è alcuna evenienza probatoria da cui desumere che vi sia stato un intervento diretto da parte del COGNOME volto a convincere il COGNOME alla corresponsione della somma di denaro».
Pertanto, la Corte d’appello di Napoli, «senza fornire risposta all’interrogativo posto dalla difesa in sede di gravame», avrebbe illogicamente desunto la sussistenza delle aggravanti in questione «da dati presuntivi che, in quanto tali, non trovano alcun riscontro effettivo nel caso che ci occupa».
2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea applicazione «dell’istituto della continuazione non essendo emersa la circostanza che il COGNOME abbia perpetrato in più occasioni l’estorsione».
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello di Napoli avrebbe confermato la sussistenza di un reato continuato senza prendere in considerazione il motivo di appello al riguardo e in violazione del principio del favor rei e del in dubio pro reo, «perché non è dato desumere da alcuna evenienza processuale che il Sacco si sia recato a più riprese presso la società del D’Alessio».
Il COGNOME deduce che, anche a volere fare propria la ricostruzione dei fatti che era stata fornita da NOME COGNOME, risulterebbe evidente l’errore commesso dalla Corte d’appello di Napoli, «atteso che il predetto riferisce che in una sola occasione il COGNOME gli avrebbe consegnato i soldi provento dell’attività delle estorsioni».
Da ciò la non configurabilità di un reato continuato e l’illegittimità del relati aumento di pena di tre mesi di reclusione.
2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., l’illogicità della motivazione sul punto dell’aumento di
pena per la continuazione interna, «essendo del tutto sproporzionato rispetto ai fatti».
Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Napoli avrebbe omesso qualsiasi motivazione in ordine la sua richiesta di contenere tale aumento di pena e contesta che l’aumento di tre mesi di reclusione sarebbe «immotivato», in quanto la Corte d’appello avrebbe «omesso qualsivoglia valutazione sul punto», e «illogico», atteso che, «dinanzi alla sussistenza di un disegno criminoso ben definito, tale per cui si può certamente parlare di un unicum fattuale, non è dato comprendere come si sia addivenuti ad un aumento così consistente».
La mancata risposta a tali doglianze, che erano state prospettate con un apposito motivo di appello, integrerebbe anche il vizio di mancanza della motivazione.
2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 62-bis cod. pen., la mancanza della motivazione «in ordine all’invocato istituto pur sussistendone i presupposti fattuali per il suo riconoscimento».
Il COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Napoli avrebbe omesso qualsiasi motivazione con riguardo al suo motivo di appello concernente la richiesta di applicazione delle circostanze attenuanti generiche «nella loro massima estensione».
Rappresenta in proposito che, con tale motivo di appello, aveva prospettato che diversi elementi avrebbero potuto essere valorizzati a tale fine, specificamente: il fatto che egli aveva «ricoperto un ruolo certo marginale e circoscritto nella vicenda L.] da intendersi come irrilevante ai fini d perfezionamento dell’estorsione»; il suo «contegno processuale, esplicatosi in una ammissione dei fatti in ordine alla sua intraneità al sodalizio in questione e la scelta del rito».
La Corte d’appello di Napoli avrebbe omesso qualunque argomentazione al riguardo, così incorrendo nel vizio di mancanza della motivazione, oltre che di illogicità di essa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è manifestamente infondato.
È, anzitutto, manifestamente infondata la tesi del ricorrente secondo cui il collaboratore di giustizia NOME COGNOME nel riferire del ruolo avuto dal COGNOME nell’esecuzione dell’estorsione ai danni dell’imprenditore COGNOME, sarebbe stato un chiamante in correità de relato, perché avrebbe rappresentato una circostanza, cioè il fatto che il COGNOME era tra coloro che si recavano a riscuotere il “pizzo” da
COGNOME, che aveva appreso dal fratello NOME COGNOME, al quale NOME COGNOME aveva delegato il “settore” di attività del clan delle estorsioni.
Il Collegio rileva anzitutto che NOME COGNOME ebbe a dichiarare che «tra i soggetti che si recavano a fare questo “giro” vi erano NOME, COGNOME Salvatore, mio cugino NOME, COGNOME Mario, NOME Luciano».
Contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, NOME COGNOME appare pertanto riferire circostanze a lui direttamente note, il che, come è stato logicamente argomentato dalla Corte d’appello di Napoli, trovava conferma nel fatto che, se è vero che NOME COGNOME non aveva partecipato alla fase esecutiva dell’estorsione, aveva tuttavia conoscenza diretta degli avvenimenti che si verificavano nella sua zona di “competenza”, per essere il capo del clan e il mandante delle estorsioni, delle quali aveva scelto personalmente gli esecutori che, come nel caso del COGNOME, erano spesso suoi familiari (essendo il COGNOME il figlio della sorella della suocera) – istruendoli con precise direttive prima che entrassero in azione.
La tesi del ricorrente secondo cui il fatto che NOME COGNOME avesse delegato al fratello NOME COGNOME il “settore” di attività delle estorsioni implichereb che lo stesso NOME COGNOME non avesse conoscenza diretta di chi le eseguiva non si confronta con tale logica motivazione della Corte d’appello di Napoli e appare in ogni caso sprovvista di qualsivoglia concreto riscontro idoneo a superare la stessa motivazione.
È, in secondo luogo, manifestamente infondata anche la tesi del ricorrente dell’inattendibilità delle dichiarazioni dell’altro collaboratore di giustizia NOME COGNOME (fratello di NOME COGNOME) secondo cui il COGNOME lo raggiungeva presso l’abitazione di NOME COGNOME, suocera dello stesso NOME COGNOME, nel quartiere di Napoli di Ponticelli per portargli l’introito dell’estorsione ai danni NOMECOGNOME. Secondo il ricorrente, tali dichiarazioni sarebbero inattendibili per la ragione che il COGNOME si era allontanato dal quartiere di Ponticelli, su sollecitazione di NOME COGNOME per evitare di essere ucciso, con la conseguenza che sarebbe stato incongruo chiedergli di recarsi a Ponticelli.
In proposito, si deve osservare come la Corte d’appello di Napoli abbia argomentato l’infondatezza di tale tesi in quanto essa non considerava le circostanze che, da un lato, NOME COGNOME, che era latitante, si nascondeva proprio nella menzionata abitazione in Ponticelli della suocera e che, dall’altro lato, i rischi per l’incolumità del COGNOME erano connessi solo all’eventuale svolgimento, da parte sua, di attività estorsive nel quartiere di Ponticelli, il che soltanto avrebbe esposto alla reazione della compagine rivale che reclamava il dominio su tale quartiere.
Tale motivazione appare del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, e il ricorrente ha del tutto omesso di confrontarsi con essa.
Quanto, infine, alle censure che investono la valutazione delle dichiarazioni di NOME COGNOME, il Collegio reputa che l’affermazione dello stesso COGNOME secondo cui «io andavo sempre a discutere le estorsioni con NOME COGNOME. Quando NOME COGNOME non c’era, andavo sia con COGNOME Mario o con COGNOME Luciano e andavamo a discutere le estorsioni, a fare gli omicidi, di tutto», sia stata del tutto logicamente intesa dalla Corte d’appello di Napoli come confermativa della partecipazione del Sacco anche all’estorsione ai danni dell’imprenditore COGNOME, atteso che, come risulta dal verbale dell’udienza del 28/06/2021 che è stato prodotto dal ricorrente, la stessa affermazione faceva seguito all’elenco delle estorsioni, tra cui anche quella ai danni, appunto, del COGNOME (pag. 10).
Contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, tale valutazione non risulta logicamente smentita dalla dichiarazione del COGNOME che figura alla successiva pag. 11 dello stesso verbale (secondo cui: «E come le facevamo? Andavamo… COGNOMENOME NOME, dalla lavanderia COGNOMENOME andavamo sempre io e NOME, NOME COGNOME. No ci pagavano tre volte all’anno, 2500 euro, in lire erano 5 milioni»), atteso che: a) tale dichiarazione non «esclude categoricamente la presenza del Sacco», atteso che, in quella precedente, valorizzata dalla Corte d’appello di Napoli, il COGNOME aveva precisato di andare a riscuotere il “pizzo” con il Sacco «quando NOME COGNOME non c’era»; b) la cifra di C 2.500,00 non appare difforme da quella che era stata indicata da NOME COGNOME (si veda il terzo capoverso della pag. 7 della sentenza impugnata).
Alla luce di ciò, si deve pertanto ritenere che la Corte d’appello di Napoli, nell’affermare la responsabilità del COGNOME per il reato di estorsione ai danni di NOME COGNOME abbia fatto corretta applicazione del principio secondo cui le dichiarazioni accusatorie rese da più collaboranti possono anche riscontrarsi reciprocamente, a condizione che si proceda comunque alla loro valutazione unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, in maniera tale che sia verificata la concordanza sul nucleo essenziale del narrato, rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto, a meno che tali discordanze non siano sintomatiche di una insufficiente attendibilità dei chiamanti stessi (Sez. 1, n. 17370 del 12/09/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 286327-01; Sez. 1, n. 7463 del 28/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262309-01).
Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del metodo mafioso, prevista dall’art. 416-bis.1 cod. pen., è sufficiente – in un territorio in
è radicata un’organizzazione mafiosa storica – che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta o implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività (Sez. 2, n. 34786 del 31/05/2023, Gabriele, Rv. 284950-01; Sez. 2, n. 19245 del 30/03/2017, COGNOME, Rv. 269938-01).
La circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa, prevista anch’essa dall’art. 416-bis.1 cod. pen., ha natura soggettiva, in quanto è incentrata su una particolare motivazione a delinquere, desumibile anche dalle modalità dell’azione, rilevanti quali parametri rivelatori del substrato psicologico di detta aggravante; ai fini della sua configurabilità, occorre valutare l’oggettiva idoneità del delitto agevolare, non necessariamente il consolidamento o il rafforzamento del sodalizio, ma l’attività dell’associazione stessa, ovvero una delle manifestazioni esterne della vita della medesima (Sez. 6, n. 28212 del 12/10/2017, COGNOME, Rv. 273538-01).
Alla luce di tali principi, si deve ritenere che la Corte d’appello di Napoli abbi del tutto logicamente ritenuto la sussistenza di entrambe le circostanze aggravanti, atteso che, dalle dichiarazioni dei menzionati collaboratori di giustizia, era chiaramente emerso come: a) anche l’estorsione ai danni del COGNOME era stata compiuta secondo le modalità tipiche delle consorterie di tipo mafioso, come la camorra, chiedendo all’imprenditore COGNOME il pagamento del cosiddetto “pizzo” – ciò che evoca, di per sé, come è generalmente noto, la possibilità di ritorsioni in caso di rifiuto -, secondo modalità che sono quelle tipiche dell’agir mafioso e che sono ben note agli imprenditori del luogo e da essi immediatamente percepite, ciò che vale senz’altro a integrare la circostanza aggravante del metodo mafioso; b) l’estorsione ai danni del COGNOME era riconducibile al clan COGNOME e il “pizzo” che proveniva dalla stessa estorsione era destinato a rimpinguare le casse di tale clan, il che era ben noto al COGNOME, ciò che vale senz’altro a integrare la circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa, disvelando l’oggettiva idoneità del delitto ad agevolare il suddetto clan e il correlativo dolo specifico.
A fronte di tale, tutt’altro che illogica, motivazione, le doglianze del ricorrent appaiono, altresì, generiche.
Il terzo motivo è manifestamente infondato.
La Corte d’appello di Napoli ha infatti del tutto correttamente ritenuto che, essendo stato accertato il contributo fattivo del Sacco nella vicenda estorsiva, quale riscossore, insieme ad altri, delle tangenti che venivano versate periodicamente (circa tre volte all’anno) dall’imprenditore COGNOME, ai fini del concorso dell’imputato in vari episodi e, quindi, della continuazione, non assumeva decisivo rilievo l’accertamento del numero esatto di volte in cui il Sacco si era recato a ritirare il Pizzo dal COGNOME.
Tale motivazione appare, come si è detto, corretta, e del tutto logica. Del resto, le dichiarazioni dei menzionati collaboratori di giustizia appaiono fare riferimento a una partecipazione ripetuta del COGNOME al “giro” dell’estorsione ai danni del COGNOME.
4. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Con la sentenza COGNOME (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269-01), le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno stabilito che il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre a individuare il reato più grave e a stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite.
Questo rigore astrattamente richiesto ai giudici di merito nel determinare l’aumento di pena per ciascuno dei reati in continuazione deve essere peraltro calato, di volta in volta, nel caso concreto, atteso che, come è stato chiarito dalle Sezioni unite nella stessa sentenza COGNOME, il grado di impegno motivazionale che è richiesto in ordine ai singoli aumenti di pena è correlato all’entità degli stessi e è funzionale a consentire di verificare che sia stato rispettato il rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati, che risult rispettati i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen. e che non si sia ope surrettiziamente un cumulo materiale di pene.
Nel sottolineare come il peso (in termini di aumento di pena irrogata) attribuito dal giudice a ciascuno dei reati satellite concorra a determinare il ragionevole trattamento sanzionatorio – con la conseguente necessità che siano resi palesi gli elementi che hanno condotto la stesso giudice al risultato al quale è pervenuto – la sentenza COGNOME non ha peraltro mancato di sottolineare il consolidato il principio secondo cui, quando venga irrogata una pena di gran lunga più vicina al minimo che non al massimo edittale, il mero richiamo ai «criteri di cui all’art. 133 c.p.» si deve ritenere motivazione sufficiente per dimostrare l’avvenuta ponderazione di una pena adeguata all’entità del fatto, atteso che l’obbligo della motivazione, in ordine alla congruità della pena inflitta, tanto più s attenua quanto maggiormente la pena in concreto irrogata si avvicina al minimo edittale (le Sezioni unite hanno richiamato, sul punto: Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, COGNOME, Rv. 256464-01; Sez. 1, n. 6677 del 05/05/1995, COGNOME Rv.201537-01).
Tanto premesso in ordine alla disciplina che governa il dovere di motivazione in ordine alla quantificazione della pena anche con riguardo agli aumenti per i reati satellite, si deve rilevare che, nel caso di specie, la Corte d’appello di Napoli ha confermato l’irrogazione al COGNOME, per gli episodi di estorsione in continuazione interna, di un aumento di pena di tre mesi di reclusione.
Risulta, quindi, determinante, nel caso di specie, il fatto che l’irrogato aumento di pena di tre mesi di reclusione appare, all’evidenza, contenuto, tenuto anche conto del fatto che l’attribuita estorsione ai danni del COGNOME era stata commessa «dal 1996 al 2005» (così il capo d’imputazione), cioè per ben dieci anni.
A fronte dì ciò, il ricorrente censura la concreta quantificazione dell’aumento di pena in modo generico, atteso che si limita ad affermare che lo stesso aumento sarebbe «del tutto sproporzionato rispetto ai fatti», senza rivolgere puntuali critiche in ordine al concreto rispetto degli specifici criteri stabiliti dall’art. 13 pen.
5. Il quinto motivo è manifestamente infondato.
In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269-01; nella specie, la Corte di cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’esclusione dell attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell’imputato).
Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli fac riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli alt disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244-01).
Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549-01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163-01).
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Napoli ha confermato il diniego delle circostanze attenuanti generiche ritenendo decisivi e prevalenti, a tale fine, gli elementi della gravità dei fatti attribuiti al COGNOME e del suo ruolo non marginale negli stessi (essendo egli uno degli esecutori materiali dell’estorsione), con ciò logicamente replicando a quanto era stato contrariamente sostenuto dal ricorrente circa l’asserita marginalità del suo ruolo e legittimamente disattendendo il rilievo di ulteriori elementi, tra i quali anche l’altro, che era stato dedotto dall’imputat relativo al suo asserito buon comportamento processuale.
Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un
giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità.
6. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc.
pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento
della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle
ammende.
Così deciso il 23/04/2025.