Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 7450 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 7450 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/01/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOMECOGNOME nato a Lamezia Terme il 21/06/1993 NOME COGNOME nata a Lamezia Terme il 16/11/1989 NOME COGNOME nato a Lamezia Terme il 08/02/1960
avverso la sentenza del 06/02/2024 della Corte d’appello di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
lette le conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME difensore della parte civile Comune di Lamezia Terme, la quale ha concluso chiedendo che i ricorsi siano rigettati e che i ricorrenti siano condannati alla rifusione delle spese sostenute dalla suddetta parte civile, come da nota allegata;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore COGNOME il quale ha concluso chiedendo che i ricorsi siano rigettati;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME NOME e anche in sostituzione dell’Avv. COGNOME e dell’Avv. NOME COGNOME difensori di COGNOME il quale, dopo un’ampia discussione, si è riportato ai motivi dei ricorsi e ha chiesto che la sentenza impugnata venga annulata;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME COGNOME il quale si è associato alle conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 06/02/2024, la Corte d’appello di Catanzaro, in parziale riforma della sentenza del 25/01/2021 del G.u.p. del Tribunale di Catanzaro, emessa in esito a giudizio abbreviato:
confermava la condanna di NOME COGNOME per il reato di estorsione pluriaggravata (dai cosiddetti metodo mafioso e agevolazione mafiosa e dall’essere stata la minaccia posta in essere da persona che faceva parte di un’associazione ‘ndranghetista) ai danni degli imprenditori NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME COGNOME soci della concessionaria RAGIONE_SOCIALE, di cui al capo 8) dell’imputazione, nonché l’irrogazione allo stesso Notarianni della pena complessiva di cinque anni di reclusione ed C 3.000,00 di multa per tale reato, ritenuto la violazione più grave, e per quello, con esso in continuazione, di cui alla sentenza del 08/06/2015 del G.u.p. del Tribunale di Catanzaro, divenuta irrevocabile il 14/07/2017;
confermava la condanna di NOME COGNOME per il reato di estorsione pluriaggravata (dai cosiddetti metodo mafioso e agevolazione mafiosa e dall’essere stata la minaccia posta in essere da persona che faceva parte di un’associazione ‘ndranghetista) sempre ai danni degli imprenditori NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME COGNOME di cui al capo 9) dell’imputazione, nonché l’irrogazione alla stessa COGNOME della pena di otto mesi di reclusione per tale reato, in continuazione con quello, ritenuto la violazione più grave, di cui alla sentenza del 17/05/2013 del G.u.p. del Tribunale di Catanzaro, divenuta irrevocabile il 19/04/2017;
in riforma della sentenza di primo grado – con la quale NOME COGNOME era stato assolto dal reato di estorsione pluriaggravata (dai cosiddetti metodo mafioso e agevolazione mafiosa e dall’essere stata la minaccia posta in essere da più persone riunite e da persona che faceva parte di un’associazione ‘ndranghetista) in concorso ai danni di NOME COGNOME e di NOME COGNOME di cui al capo 11) dell’imputazione per non avere commesso il fatto -, condannava lo stesso COGNOME per tale reato alla pena di quattro anni, cinque mesi e dieci giorni di reclusione ed C 1.000,00 di multa.
Avverso tale sentenza del 06/02/2024 della Corte d’appello di Catanzaro, hanno proposto ricorsi per cassazione, con distinti atti e per il tramite dei propri rispettivi difensori, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
Il ricorso di NOME COGNOME, a firma dell’avv. NOME COGNOME è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente lamenta il «vizio di motivazione apparente ed apodittica per avere la Corte raggiunto la prova della responsabilità dell’imputato sulla base dell’utilizzo autoreferenziale
delle sole massime di questa eccellentissima Corte senza rapportarsi con gli elementi di prova emersi nel procedimento».
Il Notarianni lamenta in particolare il carattere «surreale», prima ancora che illogico, della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla valenza, al fine di potere ritenere la sussistenza dell’elemento della minaccia, della circostanza che gli imprenditori persone offese (NOME COGNOME e NOME COGNOME), quando sporsero denuncia, non riconobbero l’imputato tra le foto segnaletiche che furono loro sottoposte, atteso che sarebbe «incomprensibile come le persone offese siano state intimidite da un qualcuno che neppure conoscono».
La Corte d’appello di Catanzaro avrebbe reso «una motivazione circolare assolutamente autoreferenziale, quasi cerchiobottista, pur di sorreggere una condanna che appare assolutamente insensata: dapprima, per superare la censura difensiva della totale assenza della prova di una chiara condotta estorsiva, asseriva la possibilità che le persone offese potessero essere state intimidite, al di là della presenza o meno di un palese comportamento prevaricatore, in virtù del fatto che conoscendo l’imputato, quindi la sua caratura mafiosa, erano perciò solo intimidite per poi cadere in contraddizione quando, pur di sterilizzare la censura difensiva che faceva notare il mancato riconoscimento fotografico sostenevano che il fatto che le persone offese non conoscessero l’imputato non rilevava in quanto la natura stessa del comportamento dell’agente in un ambiente prettamente mafioso bastava a comprovare l’avvenuta estorsione». Secondo il Notarianni, «riducendo il ragionamento ai minimi termini, per la Corte dapprima le persone offese conoscono l’imputato e per ciò solo – al di là del fatto che non faccia nulla per estorcere la prestazione – sono vittime e poi, anche non conoscendolo, per il sol fatto del comportamento prevaricatore e dell’ambiente circostante sono vittime».
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME e dell’avv. NOME COGNOME, è affidato a quattro motivi.
4.1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione sulla richiesta, che era stata avanzata con il primo motivo del suo atto di appello, di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 cod. proc. pen. e, sempre in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione con la quale tale motivo di appello è stato disatteso.
La COGNOME espone che, con il primo motivo del proprio atto di appello, aveva chiesto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 cod. proc. pen. per procedere all’escussione del testimone NOME COGNOME in quanto prova assolutamente necessaria ai fini del decidere, segnatamente, al fine di verificare la veridicità di quanto ella aveva dichiarato in sede di interrogatorio di garanzia e cioè che: diversamente da quanto era stato dichiarato dalla persona offesa
NOME COGNOME non aveva mai avuto alcun tipo di rapporto con lo stesso; aveva acquistato il casco per motoveicoli di cui all’imputazione trattando tale acquisto con un dipendente della concessionaria dei fratelli COGNOME che era amico del suo amico NOME COGNOME il quale aveva allo scopo previamente contattato il suddetto dipendente della concessionaria suo amico; tale dipendente non aveva voluto che lei pagasse il casco dicendo che vi avrebbe provveduto il COGNOME; si era perciò recata dallo stesso Muraca e gli aveva consegnato i soldi da utilizzare per pagare il casco che aveva acquistato.
Tanto esposto, la ricorrente lamenta che la Corte d’appello di Catanzaro non avrebbe fornito alcuna motivazione in ordine a tale sua richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, avendo, in realtà, erroneamente reputato che, con il primo motivo di appello, essa avesse invece contestato il rigetto, da parte del G.u.p. del Tribunale di Catanzaro, della sua richiesta di rito abbreviato condizionato all’escussione del testimone NOME COGNOME.
La COGNOME deduce ancora che, a causa di tale errore, la Corte d’appello avrebbe poi reso una motivazione manifestamente illogica, in particolare là dove afferma che «l’appellante si limita a dedurre il mancato riconoscimento senza fornire una versione alternativa idonea a scalfire le conclusioni a cui è giunto il Giudice di prime cure» (pag. 19, primo paragrafo, della sentenza impugnata), atteso che l’imputata, non solo non si era «limitata a dedurre il mancato riconoscimento» da parte di NOME COGNOME ma aveva fornito, in sede di interrogatorio di garanzia, la propria versione alternativa, ma aveva anche chiesto che fosse esaminato NOME COGNOME affinché potesse confermare la veridicità della stessa versione.
La ricorrente ribadisce pertanto che, alla luce del complesso degli elementi acquisiti, e considerato anche che NOME COGNOME non l’aveva riconosciuta in fotografia, la testimonianza del Muraca si sarebbe dovuta ritenere una prova assolutamente necessaria.
4.2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione con la quale è stata confermata la sua condanna e, sempre in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità e la contraddittorietà della motivazione rispetto all’interrogatorio di garanzia che essa aveva reso il 17/11/2017 ai sensi dell’art. 415-bis cod. proc. pen. e che era stato specificamente indicato nell’atto dì appello.
La COGNOME contesta anzitutto la manifesta illogicità della motivazione là dove la Corte d’appello di Catanzaro avrebbe ritenuto che l’impianto accusatorio fosse corroborato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME nonostante questi, come si legge alla pag. 6 della sentenza impugnata,
avesse riferito di estorsioni che erano state perpetrate ai danni della concessionaria RAGIONE_SOCIALENOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE da appartenenti alla cosca “Cerra-Torcasio-Gualtieri”, laddove non solo l’imputata era estranea a tale cosca ma le veniva contestato di appartenere a un altro sodalizio, cioè la cosca “Giampà”.
In secondo luogo, la ricorrente contesta la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione là dove la Corte d’appello di Catanzaro ha affermato, come si è già visto nel riassumere il primo motivo, che «l’appellante si limita a dedurre il mancato riconoscimento senza fornire una versione alternativa idonea a scalfire le conclusioni cui è giunto il Giudice di prime cure». Così argomentando, la Corte d’appello di Catanzaro avrebbe valutato l’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa (NOME COGNOME), sulle quali ha pressoché esclusivamente fondato l’affermazione di responsabilità, presupponendo – in modo, appunto, contraddittorio e manifestamente illogico l’inesistenza di una prova che era invece esistente; segnatamente, della prova costituita dall’interrogatorio di garanzia che la COGNOME aveva reso il 17/11/2017 ai sensi dell’art. 415-bis cod. proc. pen., nel quale ella aveva in effetti fornito una versione alternativa a quella della suddetta persona offesa, tanto da chiedere la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per assumere la testimonianza di NOME COGNOME al fine di confermare la stessa sua versione alternativa.
4.3. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione con la quale è stata confermata la sua condanna.
La COGNOME contesta l’affermazione della Corte d’appello di Catanzaro, sulla quale la stessa Corte avrebbe basato la conferma dell’affermazione della sua responsabilità, secondo cui «la persona offesa ha dettagliatamente descritto l’episodio evidenziando che fu proprio l’odierna imputata a presentarsi come la sorella di NOME COGNOME» (pag. 19 della sentenza impugnata).
Secondo la ricorrente, tale affermazione della Corte d’appello di Catanzaro sarebbe manifestamente illogica in quanto si fonderebbe su una prova e su un fatto inesistenti, atteso che la persona offesa NOME COGNOME non aveva mai dichiarato che NOME COGNOME si era presentata come la sorella di NOME COGNOME ma che ricordava «di aver dato un casco circa tre anni fa del valore commerciale di euro 35,00 a NOME COGNOME, figlia di NOME, detto “il Professore”», il che si doveva ritenere una cosa del tutto diversa.
4.4. Con il quarto motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione con la quale è stata confermata la sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso.
La COGNOME contesta l’argomentazione della Corte d’appello di Catanzaro secondo cui «il metodo mafioso è certamente integrato attraverso il riferimento inequivocabile operato da NOME COGNOME all’intervento del fratello NOME COGNOME per il pagamento del casco» (pag. 19 della sentenza impugnata).
Secondo la ricorrente, anche tale affermazione della Corte d’appello di Catanzaro sarebbe manifestamente illogica in quanto la persona offesa NOME COGNOME non aveva mai dichiarato che NOME COGNOME aveva fatto «riferimento all’intervento del fratello NOME COGNOME per il pagamento del casco» ma che «il casco mi venne richiesto direttamente da NOME con l’intendimento che di lì a poco sarebbe passato il fratello NOME a pagare».
Il ricorso di NOME COGNOME a firma dell’avv. NOME COGNOME e dell’avv. NOME COGNOME è affidato a tre motivi.
5.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 125 e 546 dello stesso codice, «la radicale mancanza di motivazione, men che meno “rafforzata”, tale da giustificare e consentire il ribaltamento della pronuncia assolutoria di primo grado».
Dopo avere trascritto ampi stralci della motivazione della sentenza di primo grado di assoluzione per non avere commesso il fatto, per avere il G.u.p. del Tribunale di Catanzaro ritenuto che l’imputato avesse sì fatto da intermediario nella contestata estorsione ma in presenza quanto meno del dubbio che egli avesse agito nell’esclusivo interesse della persona offesa, l’COGNOME contesta che la Corte d’appello di Catanzaro avrebbe “ribaltato” tale pronuncia assolutoria senza individuare le lacune del ragionamento probatorio che aveva condotto a tale esito ma limitandosi «a trascrivere, alla lettera, l’atto di appello del P.M.», «senza alcun passaggio critico che consenta neppure di comprendere quali siano state le ragioni per le quali le argomentazioni del P.M. hanno persuaso – men che meno così tanto – i Giudici di appello, né a maggior ragione di superare il ragionamento ricostruttivo del Giudice di primo grado addirittura da relegarlo in ambiti di “inverosimiglianza” o comunque di insostenibilità».
Sulla premessa che l’overtuming in appello richiede una motivazione rafforzata, tale da rendere evidente l’errore della sentenza di primo grado, la quale, perciò, «deve rivelarsi, rispetto a quella di appello, non più razionalmente sostenibile, per essere stato fugato ogni ragionevole dubbio sull’affermazione di colpevolezza», l’COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Catanzaro avrebbe «sbagliato due volte», segnatamente, per non avere motivato perché: 1) le argomentazioni del pubblico ministero appellante l’avessero «persuas così tanto da limitarsi, in motivazione, alla loro pedissequa riproduzione, senza appunto dare contezza di una ponderata valutazione di esse»; 2) gli indici rivelatori di un
intervento solidaristico dell’imputato che erano stati evidenziati dal G.u.p. del Tribunale di Catanzaro «possedessero invece sicura valenza dimostrativa di un contegno penalmente rilevante in capo al ricorrente, che addirittura sarebbe divenuto indispensabile collegamento tra vittima ed estorsori, in guisa tale da rendere l’ipotesi ricostruttiva del giudice di primo grado irragionevole ed inidonea ad integrare, appunto, un ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato».
Dopo avere richiamato alcuni principi che sono stati affermati dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con le sentenze Patalano (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano) e Dasgupta (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta), dalle quali si trarrebbe in definitiva che «per riformare una assoluzione non basta una diversa valutazione di pari – o addirittura inferiore – plausibilità rispetto all lettura offerta dal Giudice di primo grado, occorrendo invece “una forza persuasiva superiore”, capace appunto di annullare ed escludere ogni ragionevole dubbio», e dopo avere richiamato anche Sez. 4, n. 24165 del 09/03/2023, Gallo, non massimata, sul tema della necessità di una motivazione rafforzata nel caso di overturning in appello della decisione assolutoria di primo grado, l’COGNOME conclude sostenendo la «radicale mancanza di motivazione della sentenza impugnata, che non individua le eventuali carenze o insufficienze della decisione assolutoria, né, tanto meno, le ragioni per le quali si è inteso prestare così piena ed incondizionata adesione alle argomentazioni dell’appellante, di cui ci si è limitati a trascriverne pedissequamente i contenuti».
5.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 125, 533 e 546 dello stesso codice, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, risultante dal testo della sentenza impugnata.
L’COGNOME rappresenta che i vizi da lui denunciati investono i punti della sentenza impugnata nei quali la Corte d’appello di Catanzaro ha percepito e valutato le chiamate in correità dei tre collaboratori di giustizia NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME «con attribuzione di un “significato” non espresso ed altro rispetto al “significante”».
Dopo avere esposto le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte d’appello di Catanzaro sulla base della propria percezione delle dichiarazioni dei suddetti collaboratori di giustizia come riassunte dalla stessa Corte d’appello, il ricorrente afferma la necessità «di indicare quale sia l’oggettiva portata rappresentativa delle dichiarazioni oggetto di valutazione, al fine di emarginare la ricorrenza della illogicità tra la premessa probatoria e l’epilogo valutativo e motivazionale contenuto in sentenza».
L’COGNOME trascrive quindi anzitutto ampi stralci delle dichiarazioni di NOME COGNOME evidenziando in particolare i passaggi di esse nei quali il
collaboratore di giustizia ebbe a riferire che: «NOME Claudio a sua volta portava l’ambasciata di COGNOME NOME , in buona sostanza questi era stato interessato da COGNOME NOME e ciò per evitare di pagarci l’estorsione»; «chiesi che il COGNOME NOME pagasse almeno la metà della richiesta estorsiva iniziale, infatti dopo misi personalmente una bottiglia incendiaria nel suo cantiere di Capizzaglie»; «opo di ciò mi fu chiesto tramite il NOME un incontro con il COGNOME e lo stesso COGNOME NOME, quest’ultimo, infatti, mi aveva mandato a dire che essendo COGNOME un suo amico se la sarebbe vista lui, a me comunque non stava bene»; «fu pattuito che il COGNOME, dato che si doveva attendere i soldi per la costruzione del marciapiedi, pagasse a breve almeno 2/3000 euro come pensiero»; «COGNOME NOME accadde che questi pagò la cifra di 1.500 euro che diede ad COGNOME NOME, questi la consegnò a NOME per portarli a me, cosa che avvenne effettivamente intorno al mese di settembre/ottobre 2011. Il COGNOME avrebbe dovuto dare un altro cosiddetto regalo a titolo estorsivo prima di Natale 2011, ma poi intervenne il mio arresto e lasciammo perdere».
Dopo avere schematizzato il contenuto delle dichiarazioni del COGNOME, l’COGNOME sostiene che da esso emergerebbe in modo del tutto evidente che egli, «proclamatosi amico della persona offesa, era intervenuto per scongiurare il pregiudizio economico e dopo avere constatato la progressione nell’intimidazione, manifestata dalla bottiglia incendiaria, aveva chiesto un incontro con il collaboratore, all’esito del quale riusciva ad ottenere che a fronte della richiesta iniziale di euro 10.000, il COGNOME corrispondesse 2/3000 euro in due rate». Sarebbe perciò «vidente», allora, che il ricorrente, «nel contenere un pregiudizio che non ha potuto evitare per la persona offesa, ha orientato la volizione verso l’aiuto dell’amico, non presente (e neppure desumibile a meno di non voler ricorrere a deduzioni ipotetiche di secondo livello) l’intento di spendere la propria influenza criminale per la tutela degli interessi degli estortori o per salvaguardare il proprio preteso “prestigio” laddove è certo che egli non è riuscito ad impedire il pagamento del profitto del reato, soccombendo alla ferma determinazione del Muraca».
La Corte d’appello di Catanzaro non avrebbe «valutato l’incidenza della riduzione della pretesa estorsiva» ed avrebbe «mal percepito il significato dell’accordo a casa del COGNOME, valente secondo le massime di esperienza a manifestare una condizione di soccombenza e non di affermazione del prestigio criminale, risultando nella valenza indiziaria un agito che non integra, almeno nella prospettiva della colpevolezza, il contributo qualificante il concorso di persona nel reato e men che meno quello essenziale che attraverso il raccordo tra l’agente e la persona offesa ha determinato la consumazione del reato. Piuttosto ricorre la considerazione opposta, giacché la ferma pretesa del COGNOME, in assenza
dell’intervento del ricorrente, avrebbe determinato un pregiudizio economico maggiore in quanto corrispondente alla richiesta iniziale».
L’COGNOME trascrive in secondo luogo ampi stralci delle dichiarazioni di NOME COGNOME, evidenziando in particolare i passaggi di esse nei quali il collaboratore di giustizia ebbe a riferire che: «organizzai l’incontro tra il COGNOME NOME e il COGNOME NOME, NOME NOME e NOME NOME presso l’abitazione di COGNOME NOME, che si trova in Bucolia sopra il ristorante di COGNOME NOME»; «ricordo altresì che COGNOME riferiva a COGNOME NOME che dovevano essere versati a titolo estorsivo 1.000 euro complessivi, divisi in 500 euro subito ed i restanti 500 euro al termine dei lavori. Per come mi chiedete non ricordo se al primo incontro tra me e COGNOME NOME COGNOME NOME e NOME Claudio vi fosse anche mio cognato COGNOME NOME»; «dopo l’incontro tenutosi presso la mia abitazione con NOME COGNOME, NOME e NOME NOME COGNOME, raccontai il tutto a mio cognato COGNOME NOME. Lo stesso COGNOME mi riferì che NOME, NOME e NOME NOME dovevano rivolgersi a lui»; era l’COGNOME «che seguiva il decorso dell’attività estorsiva nell zona della montagna»; «in merito all’estorsione ai danni di COGNOME NOME, COGNOME NOME entrò in questa vicenda, in quanto era amico di COGNOME NOME e perché successivamente al primo incontro svolse il ruolo di intermediario con NOME NOME, NOME e NOME. Ricordo di aver visto in due o tre occasioni, circa dieci giorni dopo l’incontro avvenuto presso la mia abitazione, COGNOME NOME parlare con COGNOME NOME presso la casa di Arcieri. Non sono a conoscenza del contenuto di detti incontri e né di come si sia conclusa l’estorsione ai danni della ditta di COGNOME NOME».
Dopo avere schematizzato il contenuto delle dichiarazioni di NOME COGNOME, l’COGNOME sostiene che esso «mal si presta a sorreggere la conclusione, conseguente al travisamento, della coincidenza del dichiarato di COGNOME e COGNOME». Infatti, «mentre il COGNOME riferiva di essere stato coinvolto nell’incontro a Bucolia dalla persona offesa e dal ricorrente, dopo il vano tentativo di scongiurare da parte di costui l’esecuzione del reato, descrivendo la presenza prima al ristorante e dopo a casa del COGNOME con un ruolo attivo dell’Arcieri nella mediazione tra aspettative confliggenti, il Cappello avocava a sé il ruolo di organizzatore dell’incontro, non riferendo del ristorante ed escludendo la presenza dell’Arcieri a casa del COGNOME. Cosicché l’incrocio dichiarativo non consente di dare per accertata la partecipazione alla riunione e, quindi la mediazione della vicenda estorsiva, proiettata in una fase successiva nella quale il ricorrente avrebbe incontrato, a casa propria, il Muraca per sostenere le ragioni della persona offesa dal reato». Ciò che, «per un verso, non consente di attestare presenze significative, e, per altro, preclude di concludere che l’intento perseguito dal
ricorrente fosse altro rispetto alla tutela degli interessi economici della persona offesa dal reato».
Prosegue il ricorrente che i «limiti rappresentativi» delle dichiarazioni dei due collaboratori non troverebbero «integrazioni significative» neppure nelle dichiarazioni del terzo collaboratore NOME COGNOME, delle quali l’COGNOME trascrive pure un ampio stralcio, evidenziando in particolare i passaggi di esse nei quali il collaboratore di giustizia ebbe a riferire che: «ricordo che , mi sembra in prossimità delle festività natalizie del 2010, NOME NOME COGNOME NOME e COGNOME NOME, unitamente a mio padre, si sono recati presso l’abitazione di COGNOME NOME per richiedere un’estorsione per conto di COGNOME NOME, il vecchio»; «Muraca NOME COGNOME voleva chiedere anche l’intervento di mio zio COGNOME NOME, e so che almeno in un’occasione si sono effettivamente incontrati per parlare di queste estorsioni, ma io dell’incontro, di cui sto parlando, cercai di evitarlo, in quanto comunque COGNOME si era sempre reso a disposizione, a titolo d’amicizia, della famiglia COGNOME, fornendo scarpe e tute anche quando qualche membro della famiglia era detenuto».
Dopo avere schematizzato il contenuto delle dichiarazioni di NOME COGNOME l’COGNOME sostiene che sulla base dello stesso, «consolidata l’assenza del ricorrente agli incontri tra gli estortori e la persona offesa, proprio per effetto dell coincidenza del dichiarato di COGNOME NOME e COGNOME NOME sul punto, residua quale ulteriore sovrapponibilità dichiarativa la circostanza che, ignoti i contenuti ad entrambi i collaboratori, il ricorrente aveva incontrato il Muraca in almeno un’occasione dopo la visita a casa della persona offesa. Circostanza anche questa che non si presta a definire il ruolo descritto in sentenza e che non è, neppure, difettante di plausibilità quanto alla riconduzione in capo al ricorrente di attività e corrispondente volizione orientata alla tutela degli interessi della persona offesa, alla quale era legato da rapporti di amicizia».
Tutto ciò esposto e argomentato, l’COGNOME conclude che «il “significante” espresso dalle dichiarazioni indicate in sentenza non esprime la volizione, la qualità, il ruolo e la finalità ritenuta in motivazione, con ogni evidenza affermata in ragione del travisamento della prova, incidente su un punto focale della decisione». In realtà, «nulla» consentirebbe «di affermare che il ricorrente, per un solo istante, abbia fatto proprie e/o sostenuto le pretese estorsive coltivate dal COGNOME ai danni del COGNOME dapprima nell’interesse di COGNOME NOME COGNOME] e poi nell’interesse del COGNOME, essendo invece pacifico che NOME COGNOME sia riuscito dapprima ad impedire la consumazione di essa, e poi una radicale riduzione di quella pretesa estorsiva questa volta proveniente dal COGNOME che, previa nuova intimidazione agli uffici del COGNOME, assunse le redini di quella vicenda estorsiva».
Tutto ciò consentirebbe comunque «quantomeno di considerare plausibile, prospettabile quindi neutralizzante l’agito, da intendere quale espressione della solidarietà che il ricorrente ha manifestato verso l’amico destinatario della pretesa estorsiva».
5.3. Il terzo motivo è proposto in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 125 e 546 dello stesso codice, e all’art. 110 cod. pen. «per la violazione della disciplina sul “concorso di persone nel reato”, nonché sul procedimento di valutazione della prova indiziaria, risultante dal testo della sentenza impugnata», per non essersi la Corte d’appello di Catanzaro avveduta «che la ricostruzione della condotta sulla scorta delle prove degli indizi acquisiti non manifestava in capo» all’COGNOME il dolo del reato d estorsione.
Secondo il ricorrente, la motivazione sarebbe contraddittoria e illogica là dove la Corte d’appello di Catanzaro afferma che egli era animato dalla volontà di agevolare l’esecuzione del reato, come sarebbe stato dimostrato dal ruolo di intermediario che, lungi dallo scongiurare l’estorsione, avrebbe assunto un ruolo decisivo per la consumazione del delitto.
L’COGNOME contesta quella che ritiene sarebbe stata l’affermazione dalla quale avrebbe preso le mosse la Corte d’appello di Catanzaro, cioè l’affermazione secondo cui, poiché l’intermediazione che l’imputato aveva svolto non aveva scongiurato e quindi evitato l’esecuzione dell’estorsione, essa non avrebbe potuto che essere considerata come contributo ai soggetti attivi del reato anche in ragione della “fama” criminale dell’COGNOME.
A tale proposito, il ricorrente evidenzia alcuni elementi che emergerebbero dagli acquisiti contenuti dichiarativi, segnatamente che: «il movente del ricorrente non è mai stato indicato da alcuno nella caratura criminale, ma nelle ragioni di amicizia che lo legavano alla persona offesa»; «l’eventuale esercizio di influenza delinquenziale non è stato rivolto verso il COGNOME quanto invece all’indirizzo degli estortorí; l’iniziativa censurata era contraria agli interessi economici dei tre richiedenti»; «sebbene la “mediazione” attuata non sortiva l’effetto di annullare la pretesa estorsiva, comunque era utile ed efficace a ridimensionare e fortemente l’ammontare della somma richiesta, ridotta da 10.000 euro a 2/3.000 euro»; «l’esortazione ricondotta ad COGNOME, che avrebbe detto che “COGNOME ed i suoi correi avrebbero dovuto rivolgersi a lui” non era in alcun modo giustificabile dal fatto che egli “era lui a gestire nella zona della montagna il ramo delle estorsioni, con il benestare dei COGNOME” (cfr. pag. 21 sentenza impugnata), trattandosi di lavori, quelli che vedevano impegnato il COGNOME e che avevano dato luogo a quella richiesta estorsiva, in essere nel quartiere di Capizzaglie ad appannaggio esclusivo
della cosca COGNOME, storicamente antagonista rispetto ai COGNOME cui COGNOME sarebbe intraneo».
Secondo l’COGNOME, l’insieme di tali elementi renderebbe palese la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione «giacché accertato l’intento e l’intervento solidaristico manifestato dal ridimensionamento del pregiudizio patrimoniale, non può concludersi affermando che l’estorsione per il residuo – pervicacemente preteso da altri – proietta nella volizione di chi ha inteso agevolare gli estortori piuttosto che sostenere ed aiutare la persona offesa».
Il ricorrente deduce ancora che in nessuno dei precedenti giurisprudenziali richiamati dalla Corte d’appello di Catanzaro si sarebbe mai preteso, ai fini dell’esclusione del dolo di estorsione, che l’intervento del terzo in ausilio della vittima debba avere conseguito l’effetto di annullare la pretesa estorsiva, «ricorrendo, piuttosto che anche quello che minimizza, senza escluderlo, il pregiudizio vale ad integrare una volizione incompatibile con la colpevolezza tipizzata nell’art. 629 c.p.».
Gli stessi precedenti giurisprudenziali, da un lato, non sarebbero conferenti rispetto al caso di specie, dall’altro lato, deporrebbero nel senso dell’esclusione della responsabilità per il delitto di estorsione in capo all’intermediario che abbia agito per ragioni di solidarietà e nell’interesse della persona offesa.
Tenuto conto che «il COGNOME era già in “collegamento” con i suoi estortori», che l’COGNOME era riuscito a ridurre considerevolmente la somma che era stata da essi inizialmente pretesa e che l’estorsione era stata ordita ad esclusivo appannaggio prima della cosca “Torcasio” e, poi, delle “nuove leve” di essa, di cui l’COGNOME non faceva certamente parte, sarebbero «sguarnite del necessario corredo dimostrativo» le affermazioni fatte dalla Corte d’appello di Catanzaro nel quartultimo capoverso della pag. 21 e nel quarto capoverso della pag. 22 della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME COGNOME è inammissibile perché è proposto per un unico motivo che è manifestamente infondato.
Ciò per la ragione, che il ricorrente mostra di non considerare, che il fatto che le persone offese non lo avevano riconosciuto tra le foto segnaletiche che furono loro sottoposte non significa che le stesse persone offese non lo avessero riconosciuto di persona, quando egli si presentò presso la loro concessionaria per fare riparare il suo ciclomotore.
Tale riconoscimento di persona appare risultare chiaramente dalla dichiarazione della persona offesa NOME COGNOME riportata alla pag. 16 della sentenza di primo grado, «ricordo di avere praticato un particolare sconto a
Notarianni NOME, figlio di NOME, per la riparazione di uno scooter Beverly», atteso che da tale dichiarazione emerge palesemente che il COGNOME ben sapeva chi fosse il soggetto che gli si era personalmente presentato e al quale stava praticando un particolare sconto – che non avrebbe concesso alla “normale” clientela – solo in ragione dell’appartenenza del Notarianni, a lui nota, alla locale criminalità organizzata («anche attualmente viene praticata tale scontistica agli appartenenti alle famiglie criminali lametine». Così, sempre, NOME COGNOME, pag. 16 della sentenza di primo grado).
Ne discende che la Corte d’appello di Catanzaro, col negare rilievo al mancato riconoscimento dell’imputato tra le foto segnaletiche e col ritenere che la nota appartenenza del Notarianni alla locale criminalità ‘ndranghetista avesse esercitato una carica intimidatoria nei confronti delle persone offese, inducendole a praticare all’imputato un particolare sconto, che non avrebbero concesso alla “normale” clientela, non è incorsa in alcun vizio motivazionale e, in particolare, in quelli che sono stati denunciati dal ricorrente.
Il ricorso di NOME COGNOME.
2.1. I primi due motivi, i quali, per la loro stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati.
Quanto al primo di essi, si deve anzitutto ribadire che, nel giudizio di appello contro la sentenza emessa in esito a giudizio abbreviato, è ammessa la rinnovazione istruttoria ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., cioè nei casi in cui il giudice la ritenga assolutamente necessaria (Sez. 2, n. 5629 del 30/11/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282585-01; Sez. 1, n. 12928 del 07/11/2018, dep. 2019, P., Rv. 276318-02; Sez. 1, n. 12818 del 14/02/2020, COGNOME, Rv. 279324-01, relativa a un caso in cui era stata sollecitata la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen., per assumere la prova alla quale era stata subordinata l’iniziale rigettata richiesta di giudizio abbreviato condizionato).
In linea con tale orientamento, la COGNOME, con il primo motivo del proprio atto di appello, dopo avere lamentato che la propria richiesta di giudizio abbreviato condizionato all’escussione del testimone NOME COGNOME sarebbe stata rigettata dal G.u.p. del Tribunale di Catanzaro «senza alcuna plausibile ragione», e dopo avere ribadito i motivi che aveva posto a fondamento di tale richiesta di giudizio abbreviato condizionato, aveva legittimamente chiesto alla Corte d’appello di Catanzaro di esercitare il proprio potere di integrazione istruttoria per sentire, appunto, evidentemente, il suddetto testimone NOME COGNOME«iò giustifica la preliminare richiesta di integrazione probatoria essendo ammessa l’applicabilità dell’art. 603 c.p.p. anche in sede di giudizio abbreviato d’appello, nella misura in
cui come nel caso di specie, la rinnovazione sia assolutamente necessaria ai fini della decisione»; pag. 2 dell’atto di appello).
Come è stato giustamente lamentato con il primo motivo di ricorso, la Corte d’appello di Catanzaro appare avere frainteso tale primo motivo di appello dell’imputata, giacché ha erroneamente ritenuto che, con lo stesso motivo, l’appellante avesse contestato la legittimità del provvedimento con il quale il G.u.p. del Tribunale di Catanzaro aveva rigettato la sua richiesta di rito abbreviato condizionato – contestazione che, avendo la COGNOME successivamente optato per il rito abbreviato cosiddetto “secco”, le era preclusa -, laddove, come si è visto, la COGNOME non aveva avanzato tale doglianza ma aveva chiesto alla Corte d’appello di Catanzaro di esercitare il proprio potere d’integrazione probatoria ex art. 603 cod. proc. pen., per sentire il testimone NOME COGNOME il che, come si è visto, poteva legittimamente fare.
Da tale fraintendimento del motivo di appello dell’imputata è conseguito che, come è stato giustamente lamentato con il primo motivo di ricorso, la Corte d’appello di Catanzaro ha del tutto omesso di motivare sulla richiesta, che costituiva il reale contenuto dello stesso motivo di appello, di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, ex art. 606 (comma 3) cod. proc. pen., per sentire il testimone NOME COGNOME.
Ciò posto, si deve poi considerare che la ricorrente aveva chiesto di assumere la testimonianza di NOME COGNOME – prima condizionando la propria richiesta di giudizio abbreviato all’assunzione di tale prova e poi, per quanto qui ormai rileva, sollecitando la stessa prova ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen., senza ottenere risposta a quest’ultima sollecitazione – perché, quanto a questa sollecitazione, assolutamente necessaria al fine di verificare l’attendibilità della versione del fatto che essa aveva fornito nel corso dell’interrogatorio di garanzia che aveva reso il 17/11/2017 (atto che la RAGIONE_SOCIALE ha prodotto in allegato al ricorso), versione secondo la quale: diversamente da quanto era stato dichiarato dalla persona offesa NOME COGNOME non aveva mai avuto alcun tipo di rapporto con lo stesso; aveva acquistato il casco per motoveicoli di cui all’imputazione trattando tale acquisto con un dipendente della concessionaria dei fratelli COGNOME che era amico del suo amico NOME COGNOME il quale aveva allo scopo previamente contattato il suddetto dipendente della concessionaria suo amico; tale dipendente non aveva voluto che lei pagasse il casco dicendo che vi avrebbe provveduto il Muraca; si era perciò recata dallo stesso Muraca e gli aveva consegnato i soldi da utilizzare per pagare il casco che aveva acquistato.
Come è stato giustamente lamentato con il secondo motivo di ricorso, la Corte d’appello di Catanzaro risulta avere del tutto omesso (come già il G.u.p. del Tribunale di Catanzaro) di considerare tale versione alternativa del fatto che era
stata fornita dall’imputata in sede di interrogatorio di garanzia – e che avrebbe potuto essere eventualmente verificata assumendo la testimonianza di NOME COGNOME, avendo erroneamente affermato che «l’appellante si limita dedurre il mancato riconoscimento senza fornire una versione alternativa idonea a scalfire le conclusioni a cui è giunto il Giudice di prime cure» (pag. 19 della sentenza impugnata), laddove, come si è visto, la COGNOME, oltre a dedurre il suddetto mancato riconoscimento, aveva in realtà fornito una versione alternativa del fatto, la quale appariva idonea a incidere sulla potenziale valutazione del complesso degli elementi acquisiti.
Appare, infine, fondato, anche il profilo di censura, che è contenuto nel secondo motivo di ricorso, con il quale la ricorrente ha contestato la valorizzazione in chiave accusatoria, da parte della Corte d’appello di Catanzaro, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME (pag. 18 della sentenza impugnata), atteso che la stessa Corte d’appello ha omesso di spiegare perché tali dichiarazioni, con le quali, stando a quanto è indicato a pag. 6 della sentenza impugnata, il suddetto collaboratore aveva riferito di estorsioni perpetrate ai danni dei titolari della concessionaria RAGIONE_SOCIALENOME Renda RAGIONE_SOCIALE da parte di soggetti appartenenti alla cosca “Cerra-Torcasio-Gualtieri”, si dovessero ritenere idonee a corroborare l’impianto accusatorio nonostante la COGNOME non appartenesse a tale cosca e le fosse contestato di appartenere a un’altra organizzazione criminale (la cosca “COGNOME“).
2.2. L’esame del terzo e del quarto motivo resta assorbito dall’accoglimento dei primi due motivi.
Il ricorso di NOME COGNOME.
3.1. I tre motivi di ricorso, i quali, attenendo tutti all’affermazione d responsabilità del ricorrente per il reato di estorsione pluriaggravata in concorso ai danni di NOME COGNOME e di NOME COGNOME a lui attribuito, possono essere esaminati congiuntamente, non sono fondati.
3.2. Come è noto, il giudice di appello che, come nel caso in esame, riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo della cosiddetta motivazione rafforzata, cioè di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza e non può, invece, limitarsi a imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231679. Successivamente: Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015, COGNOME, Rv. 262907-01).
In particolare, nel giudizio di appello, per la riforma della sentenza assolutoria, in assenza di elementi sopravvenuti, non basta una diversa valutazione del
materiale probatorio acquisito in primo grado, che sia caratterizzata da pari plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio (Sez. 5, n. 54300 del 14/09/2017, COGNOME, Rv. 272082-01; Sez. 1, n. 12273 del 05/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 262261-01).
3.3. Il Collegio ritiene che, nel caso in esame, la Corte d’appello di Catanzaro abbia adempiuto all’obbligo di motivazione rafforzata, avendo fornito una motivazione dell’affermazione di responsabilità del ricorrente e, quindi, della sussistenza, in capo allo stesso, degli elementi costitutivi del reato di estorsione pluriaggravata in concorso a lui attribuito, non solo priva di contraddizioni e di illogicità ma dotata, altresì, di una forza persuasiva superiore rispetto a quella del G.u.p. del Tribunale di Catanzaro, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio in ordine alla colpevolezza dell’Arcieri.
La Corte d’appello di Catanzaro ha anzitutto del tutto logicamente ribadito, sotto il profilo dell’elemento oggettivo del suddetto reato, il ruolo di intermediario che era stato svolto dall’COGNOME – e che era già stato affermato dal G.u.p. del Tribunale di Catanzaro – tra la vittima dell’estorsione NOME COGNOME e NOME COGNOME COGNOME sulla scorta, in particolare, di quanto era stato in tale senso puntualmente riferito dallo stesso COGNOME, che, divenuto collaboratore di giustizia, si era autoaccusato dell’estorsione e che della vicenda delittuosa era stato il principale protagonista, in quanto soggetto che aveva avanzato la pretesa estorsiva nei confronti del COGNOME e che, al termine della stessa vicenda, aveva percepito il “pizzo” richiesto (che il COGNOME aveva consegnato all’COGNOME, il quale lo aveva consegnato a NOME COGNOME che lo aveva portato al Muraca).
L’overtuming della sentenza di primo grado non è dipeso, in effetti, da ciò atteso che, come si è detto, il ruolo di intermediario dell’COGNOME era già stato affermato dal G.u.p. del Tribunale di Catanzaro -, bensì dalla ritenuta incompletezza e incoerenza della stessa sentenza di primo grado, là dove il G.u.p. del Tribunale di Catanzaro aveva ritenuto che l’COGNOME, nello svolgere l’indicato ruolo di intermediario, avesse agito nell’esclusivo interesse del COGNOME e per motivi di solidarietà umana nei suoi confronti.
Il che aveva indotto il G.u.p. a emettere la pronuncia assolutoria, sul fondamento della giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui colui che assume la veste di intermediario fra gli estorsori e la vittima, anche se per l’incarico di quest’ultima, non risponde di concorso nel reato di estorsione se agisce nell’esclusivo interesse della stessa vittima e per motivi di solidarietà umana (Sez. 2, n. 2833 del 27/09/2012, Adamo, Rv. 254298-01; Sez. 2, n. 26837 del 19/06/2008, COGNOME, Rv. 240701-01).
Successivamente, la Corte di cassazione ha statuito in senso analogo che, ai fini dell’integrazione del concorso di persone nel reato di estorsione, è sufficiente la coscienza e volontà di contribuire, con il proprio comportamento, al raggiungimento dello scopo perseguito da colui che esercita la pretesa illecita, con la conseguenza che anche l’intermediario, nelle trattative per la individuazione della persona alla quale versare la somma estorta, risponde del reato di concorso in estorsione, salvo che il suo intervento abbia avuto la sola finalità di perseguire l’interesse della vittima e sia stato dettato da motivi di solidarietà umana (Sez. 2, n. 37896 del 20/07/2017, COGNOME, Rv. 270723-01; Sez. 2, n. 6824 el 18/01/2017, COGNOME, Rv. 269117-01).
Orbene, la Corte d’appello di Catanzaro ha rilevato come il G.u.p. del Tribunale di Catanzaro avesse in proposito trascurato: da un lato, come NOME COGNOME avesse riferito come la ragione dell’incontro con l’imprenditore NOME COGNOME al quale aveva partecipato, oltre a lui stesso (e ad altri), anche l’COGNOME nella veste di intermediario, fosse da rinvenire nelle necessità di appianare le problematiche che erano insorte con il suddetto imprenditore per il fatto che lo stesso si rifiutava di pagare e di fissare l’importo finale dell’estorsione, cosicché l’intervento dell’COGNOME si doveva considerare avere avuto un effetto fondamentale per superare la situazione di stallo che si era venuta a creare e per convincere l’imprenditore a cedere alla pretesa estorsiva; dall’altro lato, come l’altro collaboratore di giustizia NOME COGNOME avesse riferito come l’COGNOME, ricevuta la notizia della pretesa estorsiva che era stata avanzata dal COGNOME (oltre che da NOME COGNOME e da NOME NOME) nei confronti di NOME COGNOME avesse reagito affermando che gli estorsori «dovevano rivolgersi a lui», con ciò rendendo palese come il suo intervento nella vicenda fosse motivato non dal perseguimento dell’esclusivo interesse del COGNOME, per motivi di solidarietà umani nei suoi confronti, bensì dal fine di ribadire il proprio ruolo, e quello dell’organizzazione criminale a lui riferibile, nel settore delle estorsioni nel territorio di Lamezia Terme, il che implicava che pretese criminali – per di più nei confronti di imprenditori da lui conosciuti -, non potessero avere luogo senza il suo benestare. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Tale motivazione della Corte d’appello di Catanzaro si fonda pertanto, ad avviso del Collegio, su dei puntuali rilievi di incompletezza e di incoerenza della sentenza assolutoria di primo grado e, nell’evidenziarli, la stessa Corte d’appello ha conseguentemente argomentato, in modo del tutto coerente e logico alla luce della rammentata giurisprudenza della Corte di cassazione – oltre che, attesi i suddetti rilievi, certamente più persuasivo rispetto alla decisione assolutoria di primo grado – il concorso dell’COGNOME nel delitto di estorsione, non potendosi ritenere, per le ragioni che si sono indicate, che lo stesso COGNOME avesse agito, nella
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veste di intermediario, nell’esclusivo interesse della vittima NOME COGNOME e per motivi di solidarietà umana nei suoi confronti.
4. In conclusione: a) la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di NOME COGNOME con rinvio, per un nuovo giudizio, a un’altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro; b) il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento; c) il ricorso di NOME COGNOME deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Deve infine essere rigettata la richiesta di rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Comune di Lamezia Terme, atteso che, come è stato chiarito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza COGNOME, nel giudizio di cassazione con trattazione orale non va disposta la condanna dell’imputato al rimborso delle spese processuali in favore della parte civile che – come nella specie il Comune di Lamezia Terme – non sia intervenuta nella discussione in pubblica udienza, ma si sia limitata a formulare la richiesta di condanna mediante il deposito di una memoria in cancelleria con l’allegazione di nota spese (Sez. U, n. 27727 del 14/12/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 286581-03).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro. Rigetta il ricorso di COGNOME NOME che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibile il ricorso di COGNOME NOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Rigetta la richiesta di rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Comune di Lamezia Terme in persona del sindaco p.t.
Così deciso il 23/01/2025.