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Espulsione straniero: quando la traduzione non è nulla

Un cittadino straniero condannato ha impugnato il provvedimento di espulsione, lamentando la mancata traduzione dell’atto e il rischio di trattamenti inumani nel suo Paese d’origine. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso. Si è chiarito che l’elenco degli atti da tradurre obbligatoriamente nel processo penale è tassativo e non include i provvedimenti del procedimento di sorveglianza. Inoltre, per bloccare l’espulsione dello straniero, non è sufficiente allegare un rischio generico legato alla situazione del Paese di rimpatrio, ma occorre dimostrare un pericolo concreto e personale.

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Pubblicato il 9 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Espulsione Straniero: La Traduzione dell’Atto non è Sempre Necessaria

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12483 del 2024, ha affrontato un caso di espulsione straniero condannato, chiarendo due principi fondamentali: l’ambito dell’obbligo di traduzione degli atti giudiziari e i criteri per valutare il rischio di trattamenti inumani nel Paese di rimpatrio. La decisione offre importanti spunti sulla tutela dei diritti della difesa e sui limiti del divieto di espulsione.

I Fatti del Caso

Un cittadino straniero, condannato in via definitiva, si vedeva notificare un provvedimento di espulsione emesso dal Magistrato di Sorveglianza come misura alternativa alla detenzione, ai sensi dell’art. 16 del D.Lgs. 286/1998. L’interessato proponeva opposizione al Tribunale di Sorveglianza, che però la rigettava. Contro questa decisione, l’uomo presentava ricorso per Cassazione tramite il suo difensore, sollevando diverse questioni di legittimità.

I Motivi del Ricorso

La difesa basava il ricorso su tre principali motivi:

1. Violazione del diritto di difesa: Si sosteneva la nullità del provvedimento di espulsione perché non era stato tradotto in una lingua nota al condannato, il quale non conosceva l’italiano. La difesa riteneva che tale mancanza violasse gli articoli 143, 178 e 179 del codice di procedura penale.
2. Violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti: Il ricorrente lamentava che il Tribunale non avesse considerato adeguatamente la situazione politica e sociale del suo Paese d’origine, la Tunisia. Si evidenziava un rischio concreto di essere sottoposto a trattamenti disumani, torture o di essere nuovamente processato per lo stesso reato (violazione del principio del ne bis in idem).
3. Mancanza di proporzionalità: Infine, si contestava la proporzionalità della misura espulsiva rispetto alla gravità del reato commesso, in violazione delle normative nazionali ed europee.

La Decisione della Corte sull’Espulsione Straniero

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato, rigettandolo integralmente. La decisione si articola analizzando punto per punto le doglianze della difesa.

La Questione della Mancata Traduzione

Sul primo motivo, la Cassazione ha chiarito che l’art. 143, comma 2, c.p.p., elenca in modo tassativo gli atti che devono essere obbligatoriamente tradotti. In questo elenco non rientrano i provvedimenti emessi nell’ambito del procedimento di sorveglianza. Pertanto, la mancata traduzione dell’ordine di espulsione non ne determina la nullità. La Corte ha inoltre osservato che la tutela del diritto di difesa era stata comunque garantita dalla presenza di un interprete durante l’udienza davanti al Tribunale di Sorveglianza, che aveva permesso al condannato di comprendere e partecipare attivamente al procedimento.

Il Rischio di Trattamenti Inumani e la Valutazione del “Rischio Paese”

Anche il secondo motivo è stato respinto. I giudici hanno sottolineato che, per impedire un’espulsione straniero, non è sufficiente un generico riferimento alla situazione sociopolitica del Paese di destinazione. Il ricorrente ha l’onere di fornire elementi concreti, specifici e personali che dimostrino un rischio effettivo di subire violazioni dei diritti fondamentali. Le allegazioni presentate sono state ritenute ipotetiche e astratte, prive di qualsiasi prova che collegasse la situazione generale della Tunisia alla posizione individuale del ricorrente.

Le Motivazioni della Sentenza

La Corte ha fondato la sua decisione su un’interpretazione rigorosa delle norme procedurali e dei principi internazionali. Per quanto riguarda la traduzione, si è ribadito che l’elencazione dell’art. 143 c.p.p. è un numerus clausus, non estensibile in via interpretativa ad atti non previsti. La garanzia del diritto di difesa si realizza assicurando la comprensione del procedimento, obiettivo raggiunto in questo caso grazie all’interprete in udienza.

Sul divieto di espulsione verso Paesi a rischio, la Corte ha applicato un principio di concretezza: il pericolo deve essere individuale e provato, non meramente presunto sulla base di report generali. La valutazione del giudice non può basarsi su timori astratti, ma su fatti specifici che riguardino la persona da espellere. Infine, la censura sulla proporzionalità è stata giudicata generica, poiché la disponibilità di una cooperativa ad accogliere il condannato non è, di per sé, sufficiente a escludere la sua pericolosità sociale, elemento centrale per la valutazione della misura espulsiva.

Le Conclusioni

Questa sentenza riafferma principi consolidati in materia di espulsione straniero. In primo luogo, stabilisce che non tutti gli atti del procedimento penale richiedono una traduzione scritta per essere validi, purché sia garantita la comprensione effettiva da parte dell’interessato. In secondo luogo, rafforza l’onere probatorio a carico di chi si oppone all’espulsione, richiedendo la dimostrazione di un rischio personale e concreto, e non solo di un pericolo generico esistente nel Paese di rimpatrio. La decisione sottolinea la necessità di un bilanciamento tra le esigenze di sicurezza e controllo del territorio e la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo.

La mancata traduzione di un provvedimento di espulsione emesso dal Magistrato di Sorveglianza ne causa la nullità?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che l’elenco degli atti che richiedono la traduzione obbligatoria, secondo l’art. 143 del codice di procedura penale, è tassativo e non include i provvedimenti del procedimento di sorveglianza. La garanzia del diritto di difesa è assicurata se l’interessato, ad esempio tramite un interprete in udienza, viene messo in condizione di comprendere il contenuto del provvedimento e del procedimento.

È sufficiente invocare la situazione politica generale di un Paese per evitare l’espulsione?
No, non è sufficiente. Secondo la sentenza, il pericolo di subire trattamenti disumani o degradanti deve essere evidenziato in termini concreti, effettivi e personali. Il ricorrente deve fornire prove specifiche che lo riguardino direttamente, senza potersi limitare a riferimenti generici e astratti alla situazione sociopolitica del suo Paese d’origine.

La disponibilità di una struttura ad accogliere il condannato dopo il carcere incide sulla decisione di espulsione?
Non necessariamente. La Corte ha ritenuto che la disponibilità manifestata da una cooperativa sociale non è di per sé idonea a escludere la pericolosità sociale del condannato, che è il presupposto per l’applicazione della misura dell’espulsione. La valutazione del giudice deve tener conto di tutti gli elementi, inclusa l’eventuale assenza di legami familiari stabili sul territorio nazionale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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