Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 10208 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 10208 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME COGNOME NOME
Data Udienza: 16/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
LILLIU ATTILIO GLYPH
nato a VILLAMASSARGIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 24/05/2023 della CORTE DI APPELLO DI CAGLIARI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO generale NOME COGNOME, che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso; lette le conclusioni del difensore AVV_NOTAIO, che l’accoglimento del ricorso. Procuratore ha iesto
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 24 maggio 2023 la Corte di appello di Cagliari confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Cagliari, ad esito del giudizio abbreviato, aveva condannato NOME COGNOME alla pena di quattro mesi di reclusione per il reato di danneggiamento, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile.
Ha proposto ricorso l’imputato, a mezzo del proprio difensore, chiedendo l’annullamento della sentenza di appello quanto al “punto relativo alla sussistenza dell’aggravante di cui al comma secondo n. 3, in relazione all’art. 625 n. 7 (e di conseguenza alla rilevanza penale della condotta)”.
I giudici di merito hanno ritenuto sussistente l’aggravante della esposizione alla pubblica fede in conseguenza di un travisamento della prova, avuto riguardo al contenuto della querela e della comunicazione della notizia di reato, dalle quali si evince chiaramente che la persona offesa assistette all’intera parte della vicenda, essendo presente mentre l’imputato rigava e raschiava la fiancata dell’autovettura di sua proprietà.
La costante giurisprudenza di legittimità esclude la sussistenza della esposizione alla pubblica fede nel caso – come quello di cui si tratta – in cui il proprietario assista al fatto e abbia la possibilità di intervenire.
Si è proceduto alla trattazione scritta del procedimento in cassazione, ai sensi dell’art. 23, comma 8, del decreto-legge 28 ottoDre 2020, n. 137, convertito nella legge 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile in forza di quanto disposto dall’art. 94, comma 2, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, come modificato dal decreto-legge 22 giugno 2023, n. 75, convertito nella legge 10 agosto 2023, n. 112), in mancanza di alcuna tempestiva richiesta di discussione orale, nei termini ivi previsti; il Procuratore generale e il difensore hanno depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché proposto con un motivo non consentito.
Va premesso che, a seguito della modifica operata dal decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7, il danneggiamento continua a costituire illecito penale anche se avente ad oggetto tutta una serie di beni, elencati nel secondo comma dell’art. 635 cod. pen., come modificato, fra i quali le «cose indicate nel numero 7) dell’articolo 625» e quindi anche le cose «esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza», disposizione riferibile ai beni mobili ed immobili.
Sussiste continuità normativa tra le previgenti fattispecie aggravate di cui all’art. 635, secondo comma, cod. pen. e la nuova formulazione dell’art. 635 cod. pen., in quanto dette circostanze, ora elementi costitutivi del reato, rientrano nel
modello legale del tipo di illecito con riferimento sia alla previgente sia all’attual formulazione della norma (Sez. 2, n. 28360 del 26/05/2017, COGNOME, Rv. 271002; Sez. 7, n. 20635 del 16/02/2016, COGNOME, Rv. 267750; Sez. 3, n. 15460 del 10/02/2016, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 267824).
Proprio perché la esposizione alla pubblica fede è divenuta elemento costituivo del reato dalla entrata in vigore dell’ormai lontano d. Igs. n. 7 del 2016 non è corretto il riferimento contenuto in imputazione a una circostanza aggravante, poi ripreso dai giudici di merito e dallo stesso ricorrente.
3. La difesa ha ricordato il principio, costante nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la ipotesi della esposizione della cosa alla pubblica fede comporta che la res si trovi fuori dalla sfera di diretta vigilanza e quindi affidata interamente all’altrui senso di onestà e di rispetto, per necessità, consuetudine o destinazione naturale: la ratio della previs one risiede, quindi, nella minorata possibilità di difesa connessa alla particolare situazione delle cose (Sez. 2, n. 51438 del 20/10/2017, COGNOME,, Rv. 271332; SeZ. 2, n. 26857 del 17/02/2017, COGNOME, Rv. 270660; di recente v. Sez. 2, n. 42023 del 19/06/2019, COGNOME, Rv. 277046, nel caso di danneggiamento di un un’autovettura parcheggiata sulla pubblica via mentre il proprietario si trovava all’interno di un cortile antistante alla stessa).
Da ultimo è stata esclusa la ipotesi della esposizione alla pubblica fede in un caso cui l’imputato danneggiò “la vetrata esterna di un bar, all’interno del quale si trovava il personale addetto all’esercizio commerciale, che aveva quindi sotto la sua diretta percezione ciò che avveniva all’esterno del locale” (Sez. 2, n. 27050 del 12/04/2023, Mazzei, Rv. 284769).
La sentenza impugnata ha correttamente interpretato detti princìpi nel senso che il concetto di vigilanza continua del proprietario, incompatibile con l’esposizione a pubblica fede, “non possa intendersi come qualunque forma di percezione del pericolo all’integrità e possesso indisturbato dei propri beni, fino a includersi la forma meramente visiva del bene a distanza ladclove tale condizione non consenta , ovvero non sia accompagnata da mezzi materiali idonei al controllo materiale del bene”.
Considerato il tenore della querela, allegata e richiamata dal ricorrente (“Uscito dalla ricevitoria, vidi un signore, accompagnato con una donna, che transitava a fianco della mia autovettura e con una chiave, presumo di autovettura, rigava e raschiava la fiancata, a diverse altezze…Mi avvicinai a loro frettolosamente, debbo dire un poco spaventato e agitato, e chiesi spiegazioni di quel cattivissimo gesto…”), non sussiste il denunciato travisamento della prova là dove i giudici di merito hanno ritenuto che la persona offesa non assistette alla
condotta repentina dell’imputato sin dal suo inizio e che pertanto, essendo stata distante, non fosse stata in grado di intervenire prima che cominciasse la condotta di danneggiamento, continuando così ad avere rispetto al bene una difesa minorata.
Si tratta di una interpretazione non manifestamente illcgica.
Il ricorrente ne sollecita una opposta, ma è preclusa a questa Corte la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, COGNOME, Rv. 283370; Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217; Sez. 4, n. 1219 del 14/C19/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702).
4. A seguito della errata qualificazione della esposizione alla pubblica fede quale circostanza aggravante e non elemento costitutivo del reato, il primo giudice, con statuizione confermata nella sentenza impugnata, ha erroneamente effettuato un giudizio di comparazione con le attenuanti generiche, nel senso della equivalenza, precludendo così una diminuzione della pena ai sensi degli artt. 62-bis e 65, primo comma, n. 1, del codice penale.
La violazione di legge, però, non ha formato oggetto del motivo di ricorso.
Si deve escludere che si sia in presenza di una pena illegale, a fronte della quale questa Corte potrebbe intervenire d’ufficio.
Di recente (Sez. U, n. 7578 del 17/12/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280539) le Sezioni Unite hanno ricordato che da epoca risalente «la giurisprudenza ha, infatti, utilizzato la categoria della illeg2lità della pena con riferimento esclusivo ai casi in cui la sanzione applicata dal giudice sia di specie più grave di quella prevista dalla norma incriminatrice o superiore ai limiti edittali indicati nella stessa (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, COGNOME, Rv. 264207; Sez. 4, n. 19765 del 21/01/2015, COGNOME, Rv. 263476; Sez. 1, n. 38712 del 23/01/2013, Villirillo, Rv. 256879; Sez. 5, n. 3945 del 13/11/2002, dep. 2003, COGNOME, Rv. 224220; Sez. 3, n. 3877 del 14/11/1995, Prati, Rv. 203205».
Successivamente con la sentenza Miraglia le Sezioni Un te hanno rimarcato come «la nozione di pena illegale non possa estendersi sino al punto da includere profili incidenti sul regime applicativo della sanzione, a meno che ciò non comporti la determinazione di una pena estranea all’ordinamento per specie, genere o quantità. In altri termini, la pena è illegale, ai fini qui rilevanti rilievo officioso anche in caso di inammissibilità del ricorso, non quando consegua ad una mera erronea applicazione dei criteri di determinazione del
trattamento sanzionatorio, alla quale l’ordinamento reagisce approntando i rimedi processuali delle impugnazioni, ma solo quando non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero sia superiore ai limiti previsti dalla legge o sia più grave per genere e specie di quella individuata dal legislatore» (Sez. U, n. 38809 del 31/03/2022, Rv. 283689).
In continuità con le pronunce precedenti la sentenza COGNOME ha osservato che «è rintracciabile un criterio per distinguere la pena illegale dalla pena illegittima…l’illegalità della pena ricorre solo quando essa eccede i valori (espressi sia qualitativamente: genere e specie, che quantitativamente: minimo e massimo) assegnati dal legislatore al tipo astratto nel quale viene sussunto il fatto storico reato…è solo la violazione di esse – c sono la manifestazione ed il frutto del potere legale di determinazione della pena – ad integrare la pena illegale. Ogni altra violazione delle regole che occorre applicare per la definizione della pena da infliggere integra un errato esercizio del potere commisurativo e dà luogo ad una pena che è illegittima….» (Sez. U, n. 47182 del 31/03/2022, Rv. 283818).
Da ultimo, in una fattispecie relativa a procedimento di applicazione della pena, le Sezioni Unite hanno statuito che la pena determinata a seguito dell’erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee concorrenti è illegale soltanto nel caso in cui essa ecceda i limiti edittali generali previsti dagli artt. 23 e seguenti, nonché 65 e 71 e seguenti, cod. pen., oppure i limiti edittali previsti per le singole fattispecie di reato, a nulla rilevando il f che i passaggi intermedi che portano alla sua determinazione siano computati in violazione di legge. Pena illegale, infatti, è solo «quella che si colloca al di fuor del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale, perché diversa per genere, per specie o per quantità da quella positivamente prevista» (Sez. U, n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino, Rv. 283886).
Nel caso in esame il Tribunale ha determinato la pena nel minimo edittale previsto dall’art. 635 cod. pen., prima della riduzione per il rito, cosicché, in ragione della nozione di pena illegale delineata dal diritto vivente, l’omessa diminuzione della pena in ragione del riconoscimento delle attenuanti generiche, in assenza di una circostanza aggravante, avrebbe dovuto formare oggetto di un motivo di ricorso.
All’inammissibilità dell’impugnazione proposta segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 16/02/2024.