Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 14867 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 14867 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nato a Messina il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 28/02/2023 della Corte di appello di Trieste;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha ‘concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Trieste ha confermato la condanna di NOME COGNOME per il delitto di cui all’art. 316-ter, cod. pen., perché, nella sua qualità di amministratore unico e legale rappresentante della “RAGIONE_SOCIALE, mediante l’utilizzo di mendaci dichiarazioni attestanti il possesso dei relativi requisiti di legge, otteneva indebitamente l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, a norma dell’art. 1, comma 118, legge n. 190 del 2014, per alcune centinaia di dipendenti della società, per un ammontare complessivo di 1.840.202 euro.
Il ricorso consta di due motivi.
2.1. Il primo consiste nella manifesta illogicità della motivazione con cui la Corte d’appello ha confermato l’ascrivibilità all’imputato della condotta illecita, non tenendo nella dovuta considerazione che: l’imputato aveva nominato un consulente del lavoro, delegandogli la relativa attività; quest’ultimo ha ammesso di essere stato l’autore dell’errore nell’invio delle relative dichiarazioni all’RAGIONE_SOCIALE tale consulente ha agito sulla base di dati a lui forniti dai dipendenti; si trattava d azienda di grandi dimensioni, con un personale di varie centinaia di unità; l’imputato era privo delle necessarie competenze specifiche; è errato ritenere sussistente – come hanno fatto i giudici d’appello – una presunzione di conformità dell’operato del delegato alle direttive dell’amministratore.
2.2. La seconda doglianza riguarda la violazione del citato art. 316-ter, punendo quest’ultimo esclusivamente la percezione di erogazioni pubbliche, mentre nel caso in esame si sarebbe trattato esclusivamente di un esonero dal versamento dei contributi, non potendo farsi rientrare nel concetto di erogazioni pubbliche le indennità previdenziali, assistenziali e sanitarie.
Ha depositato requisitoria scritta il Procuratore generale, concludendo per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Nessuno dei due motivi di ricorso può essere ammesso.
Il primo è aspecifico, poiché si limita a ripetere il corrispondente motivo d’appello, senza misurarsi criticamente con la motivazione della sentenza, la quale va esente da censure, in quanto completa e logicamente razionale.
I giudici d’appello, infatti, lungi dall’acquietarsi su “presunzioni”, hanno valorizzato una serie di incontroverse circostanze di fatto, che, considerate insieme e complessivamente, rendono ampiamente ragionevole la conclusione dell’ascrivibilità del reato – anche – al ricorrente: l’assenza, cioè, di una sua formale delega di funzioni ad altri organi sociali; il dovere di vigilanza sull’operato degli stessi, conseguentemente su di lui gravante in qualità di amministratore; la specifica competenza nella materia, trattandosi di società che si occupava proprio di intermediazione, ricerca e selezione di personale per le aziende; le dimensioni dell’attività illegale, pari al 98% degli sgravi contributivi richiesti; le reiterazi della condotta anche con altra società e pure dopo le contestazioni mosse dall’RAGIONE_SOCIALE.
Privo di ogni fondamento deve considerarsi anche il secondo motivo, alla luce della giurisprudenza di legittimità, anche nel suo massimo consesso, secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’art. 316-ter, cod. pen., si ha “erogazione”, assenza di un’elargizione, quando il richiedente ottenga un vantaggio economico che viene posto a carico della comunità.
In questi termini, infatti, si sono espresse le Sezioni unite di questa C (sentenza n. 7537 del 16/12/2010, dep. 2011, Pizzuto, Rv. 249104), nell’ipotes di falsa attestazione circa le condizioni reddituali per l’esenzione dal pagame del ticket per prestazioni sanitarie. E il principio è stato ribadito anche nell’ipo – del tutto simile a quella oggetto del presente giudizio – del datore di lavoro ch esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennit per malattia, maternità o assegni familiari, quale anticipazione effettuata per c dell’RAGIONE_SOCIALE, ottenga dall’ente pubblico il conguaglio degli importi fittizia indicati con quelli da lui dovuti al medesimo istituto a titolo di contr previdenziali e assistenziali (Sez. 2, n. 48663 del 17/10/2014, COGNOME, Rv, 26114 Sez. 2, n. 15989 del 16/03/2016, Fiesta, Rv. 266520; Sez. 6, n. 7963 de 26/11/2019, dep. 2020, Romano, Rv. 278455).
L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Det somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa dell ammende.
Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2024.