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Esigenze cautelari: il ‘tempo silente’ non basta

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un imputato contro l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione di tipo mafioso e traffico di stupefacenti. La difesa sosteneva che il lungo periodo trascorso dai fatti (‘tempo silente’) avesse affievolito le esigenze cautelari. La Corte ha stabilito che, per reati di tale gravità, il solo passare del tempo non è sufficiente a superare la presunzione di pericolosità sociale, in assenza di prove concrete di un effettivo allontanamento dal contesto criminale.

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Pubblicato il 19 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Esigenze cautelari: il ‘tempo silente’ non annulla la pericolosità nei reati mafiosi

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio cruciale in materia di misure cautelari per reati associativi di stampo mafioso. La decisione chiarisce che il semplice trascorrere del tempo, il cosiddetto ‘tempo silente’, non è di per sé sufficiente a far venir meno le esigenze cautelari se non accompagnato da prove concrete di un recesso dell’indagato dal sodalizio criminale. Questo caso offre spunti importanti sulla valutazione della pericolosità sociale e sulla persistenza dei legami con organizzazioni criminali.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un individuo sottoposto a custodia cautelare in carcere con l’accusa di partecipazione a due distinte associazioni criminali: una di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.) e l’altra finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 D.P.R. 309/1990). Secondo l’accusa, l’imputato agiva come referente per il traffico di droga leggera in una specifica piazza di spaccio, contribuendo attivamente alla programmazione di atti intimidatori contro chi non rispettava le regole del clan.

L’indagato, tramite il suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione contro l’ordinanza del Tribunale del Riesame che confermava la misura cautelare. Tra i vari motivi, la difesa ha posto particolare enfasi sul ‘tempo silente’: erano trascorsi circa quattro anni tra i fatti contestati (risalenti al 2020) e l’applicazione della misura (nel 2024). Durante questo periodo, secondo la difesa, l’indagato aveva mantenuto una condotta di vita regolare, lavorando stabilmente e trasferendosi con la famiglia, elementi che avrebbero dovuto dimostrare un affievolimento della sua pericolosità sociale e, di conseguenza, delle esigenze cautelari.

L’analisi della Cassazione sulle esigenze cautelari

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, ritenendo infondate le doglianze della difesa. I giudici hanno sottolineato come, in materia di reati associativi, operi una presunzione di persistenza delle esigenze cautelari, come stabilito dall’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale.

La Corte ha spiegato che, per superare tale presunzione, non basta invocare il tempo trascorso. È necessario fornire la prova di un recesso effettivo e irreversibile dall’associazione criminale o la dimostrazione che l’attività associativa si sia esaurita. Il ‘tempo silente’ può essere un elemento di valutazione, ma solo in via residuale e se corroborato da altri fattori oggettivi, come la collaborazione con la giustizia o un radicale cambiamento di vita che indichi un reale allontanamento dall’ambiente criminale.

La valutazione del ‘tempo silente’ nel contesto mafioso

La sentenza distingue nettamente la valenza del tempo trascorso a seconda del tipo di reato. Per i sodalizi mafiosi, caratterizzati da un vincolo stabile e da una forte capacità di assoggettamento, la mancanza di ulteriori manifestazioni criminali per un certo periodo non è di per sé indicativa di un abbandono del sodalizio. Il legame con il clan si presume ancora attivo fino a prova contraria. L’astratta e generica deduzione del tempo trascorso, senza un confronto con le specifiche caratteristiche del sodalizio e del ruolo ricoperto dall’associato, non costituisce una censura valida contro la presunzione di pericolosità.

Nel caso specifico, il Tribunale aveva evidenziato come l’indagato fosse il ‘braccio esecutivo’ del clan, prendendo ordini diretti dai vertici e non mostrando alcun segno di dissociazione. L’attività lavorativa svolta non gli aveva impedito, in passato, di commettere reati violenti, rendendo tale elemento inidoneo a dimostrare un’attenuazione della sua pericolosità.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte ha motivato il rigetto del ricorso basandosi su diversi principi consolidati. In primo luogo, ha dichiarato inammissibili i motivi di ricorso che non erano stati precedentemente sollevati davanti al Tribunale del Riesame, ribadendo il divieto di ‘novum’ nel giudizio di legittimità. La Cassazione non può valutare questioni di fatto per la prima volta.

In secondo luogo, ha confermato la solidità del quadro indiziario raccolto dal Tribunale, basato su intercettazioni e attività di osservazione che delineavano chiaramente il ruolo dell’indagato all’interno delle associazioni. È stato ribadito che, per la partecipazione a un’associazione criminale, non è necessaria la commissione dei singoli ‘reati-fine’, essendo sufficiente un contributo anche minimo, ma non insignificante, alla vita e agli scopi del sodalizio.

Infine, per quanto riguarda le esigenze cautelari, la Corte ha concluso che la motivazione del Tribunale era logica e coerente. In assenza di prove di rescissione dai legami criminali e, anzi, in presenza di condotte che manifestavano una persistente adesione ai valori del contesto criminale, la presunzione di pericolosità non poteva essere superata. L’enfatizzazione del ‘tempo silente’, priva di agganci a elementi ulteriori, è stata ritenuta aspecifica e inidonea a scalfire la valutazione dei giudici di merito.

Conclusioni

Questa sentenza rappresenta un’importante conferma dell’orientamento giurisprudenziale in materia di esigenze cautelari per i reati di criminalità organizzata. Essa stabilisce con chiarezza che il vincolo con un’associazione mafiosa è tenace e non si presume sciolto solo per il decorso del tempo. Per ottenere un affievolimento delle misure cautelari, è onere dell’indagato fornire elementi concreti e oggettivi che dimostrino un allontanamento definitivo e irreversibile dal sodalizio. Un principio che bilancia la tutela della libertà personale con la necessità di proteggere la collettività da fenomeni criminali di eccezionale gravità.

Il semplice passare del tempo (‘tempo silente’) è sufficiente a far decadere le esigenze cautelari per reati associativi di tipo mafioso?
No. Secondo la sentenza, il solo decorso di un apprezzabile lasso di tempo non può, da solo, costituire prova dell’irreversibile allontanamento dell’indagato dal sodalizio. Per superare la presunzione di pericolosità è necessaria la prova del recesso dell’indagato dall’associazione o l’esaurimento dell’attività associativa.

Perché un motivo di ricorso non può essere presentato per la prima volta in Cassazione?
Perché sussiste il divieto di ‘novum’ nel giudizio di legittimità. La Corte di Cassazione ha il compito di controllare la correttezza giuridica della decisione impugnata sulla base dei motivi già proposti in sede di merito (in questo caso, al Tribunale del Riesame), non di valutare per la prima volta questioni di fatto o nuove censure.

La mancata commissione di ‘reati-fine’ da parte di un associato esclude la sua partecipazione al sodalizio criminale?
No. La sentenza ribadisce che la partecipazione a un’associazione criminale è una condotta a ‘forma libera’. Non è necessaria la prova della commissione dei reati-fine, ma è sufficiente apportare un contributo, anche minimo ma non insignificante, alla vita della struttura criminale e al perseguimento dei suoi scopi.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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