Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 27461 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
SECONDA SEZIONE PENALE
Penale Sent. Sez. 2 Num. 27461 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 08/05/2025
– Presidente –
NOME COGNOME
CC – 08/05/2025
R.G.N. 9256/2025
NOME COGNOME
SENTENZA
Sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a ROMA il 07/12/1964 avverso l’ordinanza del 23/01/2025 del TRIBUNALE di ROMA udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME sentite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto di entrambi i ricorsi. sentiti i difensori, Avv. NOME COGNOME e Avv. NOME COGNOME entrambi del foro di Roma, che hanno chiesto l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza emessa in data 23/01/2025 il Tribunale di Roma ha parzialmente accolto l’appello proposto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma avverso l’ordinanza del Gip del 26/06/2024 che aveva rigettato la richiesta di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di NOME COGNOME in relazione ai reati di cui ai capi di incolpazione 1 (associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro il patrimonio e in materia fiscale, con il ruolo di promotore e organizzatore, con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa), 19 (tentata estorsione in concorso, aggravata dal metodo mafioso), 25 (usura): ha dichiarato inammissibile l’appello in relazione al capo 1, accogliendolo, invece, per i capi 19 e 25, con conseguente applicazione della misura custodiale in carcere.
Avverso l’ordinanza di riesame propone un duplice ricorso per cassazione il COGNOME tramite i difensori di fiducia.
2.1. A sostegno dell’impugnazione a firma dell’avv. NOME COGNOME si deducono quattro motivi.
2.1.1. Con il primo si censura l’inammissibilità dell’appello del PM per difetto di specificità in ordine all’esclusione da parte del Gip delle esigenze cautelari per i reati di cui ai capi 19 e 25.
Richiamata la giurisprudenza di legittimità a riguardo, si evidenzia che l’ordinanza impugnata, respingendo l’eccezione, aveva motivato con riferimento alla gravità dei delitti in contestazione, uno dei quali aggravato dall’art. 416-bis.1 cod. pen., e alla negativa personalità dell’indagato, compromesso da condanne per estorsione e processi pendenti per usura e bancarotta.
Quanto al reato sub 19, aggravato ex art. 416-bis.1 cod. pen., la doppia presunzione relativa prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., doveva essere intesa, secondo il piø recente e condivisibile indirizzo della giurisprudenza di legittimità, nel senso che il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra il fatto contestato e la misura, ove non accompagnato da altri elementi fattuali, sintomatici di perdurante pericolosità, era sintomatico della inattualità del vincolo associativo e imponeva una valutazione sulla sussistenza delle esigenze cautelari.
Nel caso di specie, il Gip, a fronte della richiesta del PM genericamente riferita a tutti i soggetti interessati, aveva escluso tali esigenze nei confronti di alcuni di essi, fra cui il COGNOME, per difetto dei requisiti di attualità e concretezza, in ragione della personalità desunta dai precedenti, delle concrete attività realizzate nonchØ del lasso di tempo intercorso dai fatti. Rispetto alla valutazione del Gip, l’atto di appello si rivelava indeterminato, alla stregua delle risultanze del certificato penale del ricorrente (estorsione continuata, ormai risalente, commessa dal 1998 al 2002) e di quello dei carichi pendenti (usura contestata per il periodo compreso tra il 2011 e il 2013; bancarotta fraudolenta per fatti del 2017), senza alcuna osservazione sulla persistenza dell’attualità della pericolosità sociale.
2.1.2. Con il secondo motivo si eccepisce il vizio di motivazione in ordine al dolo di concorso nel reato di cui al capo 19 e al profilo soggettivo dell’aggravante dell’uso del metodo mafioso.
In base alle argomentazioni del Tribunale, la lettura complessiva dei dialoghi intercettati aveva consentito di ritenere che il COGNOME fosse l’artefice dell’intera vicenda estorsiva, materialmente messa in atto dal complice COGNOME, al quale era legato da un datato sodalizio criminale. Le
conversazioni valorizzate, captate il 6 e 7 agosto 2018 (nn. 6381, 6546 e 6547), erano state, tuttavia, erroneamente interpretate e restituivano una ricostruzione storica falsata degli eventi: quella n. 6381 del 6 agosto esprimeva sì la collera del COGNOME alla notizia del diniego delle persone offese di corrispondere la somma richiesta ma, al contempo, manifestava l’intento di risolvere la questione in maniera intelligente e senza alterarsi; la successiva, n. 6382, dava conto delle argomentazione da utilizzare per sollecitare il pagamento, non menzionando metodi violenti, mai evocati nel corso delle conversazioni successive con il Dimino (solo in un caso vi era stato uno scatto d’ira per il mancato raggiungimento di un accordo, privo di conseguenze). Infine, la frase valorizzata dal Tribunale, estrapolata dalla intercettazione n. 6547 (‘domani gli piombo dentro all’ufficio e li trito’), non aveva contenuto intimidatorio ma doveva essere intesa, alla stregua della lettura sincronica e complessiva del compendio captativo, come una reazione al comportamento delle persone offese rispetto all’incarico originariamente conferito al COGNOME, il quale di sua iniziativa, in via autonoma ed estemporanea, aveva rivolto alle vittime espressioni intimidatorie, senza informare il COGNOME, sì da doversi escludere nei confronti di quest’ultimo l’elemento soggettivo dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
2.1.3. Con il terzo motivo di ricorso si eccepisce la apodittica motivazione in ordine alla gravità indiziaria del reato di usura, contestato al capo 25.
La ricostruzione della vicenda era basata sulla captazione del 5 luglio 2018, dalla quale, tuttavia, non erano emersi elementi indicativi della natura usuraria degli interessi applicati (la durata del prestito, l’arco temporale di riferimento); inoltre, non vi erano elementi per ritenere la preventiva pattuizione degli interessi alla quale avrebbe fatto seguito la dazione, con conseguente impossibilità di determinare nel trimestre di riferimento il superamento del cd. tasso soglia.
2.1.4. Con il quarto ed ultimo motivo, infine, si contesta il vizio di motivazione, ritenuta apodittica, in punto di attualità e concretezza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della misura imposta, atteso il riferimento a precedenti penali e ad attività criminali, in realtà datati nel tempo; alla mancanza di attività lavorativa, non provata dal PM appellante; ad un elevato spessore criminale, escluso dal Gip circa la contestata partecipazione al reato associativo, punto confermato in sede di riesame; alla presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. per il reato sub 19, in assenza di ulteriori condotte illecite dopo la risalente commissione del fatto estorsivo in contestazione.
Anche l’adeguatezza della misura carceraria era stata affermata in termini apodittici.
2.2. Il ricorso a firma dell’avv. NOME COGNOME articolato in cinque motivi, con i quali si eccepisce la violazione di legge e il vizio di motivazione, in relazione:
al delitto contestato al capo 19, ancorato ad un compendio probatorio costituito in via esclusiva da captazioni, interpretate in termini congetturali, non evincendosi il conferimento di un mandato estorsivo del COGNOME al COGNOME;
alla qualificazione giuridica dei fatti, venendo in rilievo una pretesa creditoria azionabile in giudizio, derivante da operazioni immobiliari, che il COGNOME, tramite il COGNOME, avrebbe inteso far valere nei confronti delle vittime, debitrici, per conto dei creditori COGNOME e COGNOME;
alla contestazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. e all’art. 273 cod. proc. pen. in quanto COGNOME non era mai stato un soggetto appartenente alla cd. banda della Magliana circostanza che, secondo il tribunale, sarebbe stata evocata dal COGNOME per rafforzare la minaccia estorsiva – così come il COGNOME stesso non era mai stato condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso, senza che l’origine siciliana – anch’essa, secondo il tribunale, rappresentata alle vittime – avesse di per sØ rilevanza;
– alla contestazione di usura di cui al capo 25, sulla base di un unico dialogo captato, privo di riferimenti concreti nell’ottica della gravità indiziaria, in considerazione altresì del tempo
indeterminato di commissione del reato (‘in data imprecisata e prossima al 5 luglio 2018’), non coincidente con la data dell’intercettazione (il COGNOME si riferiva a fatti del passato ed era stato
detenuto fino a metà del mese di giugno del 2018), e del mancato accertamento del saggio di interessi applicato nei periodi di riferimento;
alla valutazione delle esigenze cautelari, prive dei requisiti di attualità e concretezza, affermando l’ordinanza impugnata l’inserimento del ricorrente in un contesto di elevato spessore criminale, pur risalendo i fatti al 2018, come rilevato dal Gip che aveva sottolineato anche che nel lasso di tempo intercorso dai fatti non erano state accertate ulteriori attività sintomatiche di perdurante pericolosità.
Con motivo nuovo del 18 aprile 2025 l’avv. NOME COGNOME in relazione al primo motivo di ricorso (inammissibilità dell’appello del Pubblico Ministero per genericità intrinseca ed estrinseca in punto di esigenze cautelari), ha ulteriormente precisato, anche con riferimenti giurisprudenziali, l’insussistenza del requisito dell’attualità delle esigenze cautelari.
Con motivi nuovi del 18 aprile 2025 l’avv. NOME COGNOME ha approfondito i cinque motivi di ricorso, allegando documentazione ritenuta pertinente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Entrambi i ricorsi sono infondati.
1. Con riferimento alle doglianze circa l’insussistenza del requisito dell’attualità delle esigenze cautelari per i reati di cui ai capi 19) e 25), in considerazione del consistente arco temporale trascorso tra i fatti contestati all’indagato e l’applicazione della misura custodiale, entrambi i difensori hanno richiamato l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale «in tema di misure cautelari, pur se per i reati di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. Ł prevista una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, qualora intercorra un considerevole lasso di tempo tra
l’emissione della misura e i fatti contestati in via provvisoria all’indagato, il giudice ha l’obbligo di motivare puntualmente, su impulso di parte o d’ufficio, in ordine alla rilevanza del tempo trascorso sull’esistenza e sull’attualità delle esigenze cautelari, anche nel caso in cui, trattandosi di reati associativi o di delitto aggravato dall’art. 7 della legge n. 203 del 1991 (ora art. 416-bis.1 cod. pen.), non risulti la dissociazione dell’indagato dal sodalizio criminale» (Sez. 6, n. 19863 del 04/05/2021, COGNOME, Rv. 281273 – 02).
In particolare, non appare condivisibile, ad avviso delle difese, l’affermazione del tribunale secondo cui, a fronte dell’estrema gravità delle condotte contestate al COGNOME, della sua negativa personalità e dell’assenza di una lecita attività lavorativa, il decorso del tempo, pur potendo essere oggetto di valutazione, assume una valenza neutra; al contrario, la presunzione di adeguatezza di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. deve accompagnarsi all’accertamento di ulteriori indici di pericolosità che emergano nell’ampio lasso temporale di cui si discute (pari, nel caso di specie, a circa sette anni), potendo quest’ultimo anche «rientrare tra gli ‘elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari’ cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, del codice di rito» (Sez. 6, n. 11735 del 25/01/2024, COGNOME, Rv. 286202 – 02; in senso conforme anche Sez. 6, n. 31587 del 30/05/2023, Gargano, Rv. 285272 – 01).
2. Nonostante la correttezza dei richiami giurisprudenziali e le obiettive circostanze riportate – i fatti ascritti al ricorrente sono effettivamente risalenti nel tempo e, in seguito, non sono registrate ulteriori condotte illecite – si rileva tuttavia dal testo del provvedimento impugnato che l’intero periodo intercorrente fra la commissione dei delitti e l’emissione delle ordinanze impugnate risulta contrassegnato dalla totale assenza di fonti lecite di guadagno; Ł stato cioŁ accertato dai giudici del merito cautelare che il COGNOME ha continuato a percepire ingenti redditi nonostante non svolgesse alcuna attività lavorativa.
Tale circostanza Ł stata condivisibilmente valorizzata dal tribunale al fine di escludere che i fatti contestati costituissero episodi isolati, ritenendoli invece espressione di un piø ampio stile di vita fondato su attività illecite, attraverso le quali l’indagato era solito provvedere al proprio sostentamento.
Vero Ł che la difesa ha prodotto, allegandole ai motivi nuovi del ricorso in cassazione, le dichiarazioni dei redditi dell’indagato al fine di provare lo svolgimento, da parte dello stesso, di attività lavorativa, ma, dalla lettura degli atti emerge come tali dichiarazioni siano state prodotte per la prima volta nel corso del presente grado di giudizio, senza che in sede di riesame fosse stato eccepito alcunchØ a riguardo. Pertanto, in ossequio al principio di diritto secondo cui «nel giudizio di legittimità non possono essere prodotti nuovi documenti attinenti al merito della regiudicanda, ad eccezione di quelli che l’interessato non sia stato in condizione di esibire nei precedenti gradi di giudizio e dai quali può derivare l’applicazione dello ‘ius superveniens’, di cause estintive o di disposizioni piø favorevoli, dal momento che la Corte di cassazione non può mai procedere ad un esame degli atti, ma solo alla valutazione circa la esistenza della motivazione e della sua logicità» (Sez. 3, n. 27417 del 01/04/2014, C., Rv. 259188 – 01; in tal senso anche Sez. 2, n. 42052 del 19/06/2019, Pmt, Rv. 277609 – 01; Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, dep. 2013, P.c. in proc. Platamone e altro, Rv. 254300 – 01), le dichiarazioni dei redditi invocate nel corso della discussione, che la difesa avrebbe ben potuto produrre dinanzi al tribunale, costituiscono elementi non piø deducibili in questa sede in quanto diretti ad ottenere una inammissibile rivalutazione di merito, potendo al piø costituire oggetto di nuova domanda.
NØ, d’altra parte, può dirsi che spettasse alla pubblica accusa fornire la prova dell’effettiva inesistenza di attività lavorativa svolta dall’indagato e sconfessare la veridicità del dato reddituale. Invero, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso a firma dell’avv. COGNOME a fronte dell’affermazione, da parte del Pubblico Ministero, della sussistenza delle esigenze cautelari in virtø della presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., era onere della difesa allegare quanto necessario a smentire la tesi accusatoria e provare lo svolgimento, da parte del COGNOME, di un’attività lavorativa giustificativa degli introiti, trattandosi di circostanza idonea, ove riscontrata, a volgere il giudizio in suo favore, superando la presunzione di legge. Ciò in quanto, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, «nell’ordinamento processuale penale, a fronte dell’onere probatorio assolto dalla pubblica accusa, anche sulla base di presunzioni o massime di esperienza, spetta all’indagato allegare il contrario sulla base di concreti ed oggettivi elementi fattuali, poichØ Ł l’indagato che, in considerazione del principio della c.d. ‘vicinanza della prova’, può acquisire o quanto meno fornire, tramite l’allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva» (Sez. 2, n. 6734 del 30/01/2020, Bruzzese, Rv. 278373 – 01; Sez. 4, n. 12099 del 12/12/2018, dep. 2019, Fiumefreddo, Rv. 275284 – 01; Sez. 5, n. 32937 del 19/05/2014, Stanciu, Rv. 261657 – 01; Sez. 2, n. 20171 del 07/02/2013, COGNOME e altro, Rv. 255916 01).
A ciò si aggiungano – elementi pure valorizzati dal giudice del riesame cautelare – il cospicuo quadro criminale pregresso; la commissione del reato di cui al capo 19) in concorso con altri soggetti, sintomatica dei collegamenti con la realtà delinquenziale locale; la circostanza che il COGNOME risulti essersi già sottratto, in passato, all’applicazione di una misura di prevenzione, dando prova di inaffidabilità e accentuata pericolosità.
In ragione di ciò, i rilievi sulla sussistenza delle esigenze cautelari in relazione ad entrambi i capi di imputazione, svolti sul punto dai difensori in via prioritaria, devono reputarsi infondati.
2.1. I profili valorizzati dal Tribunale – sintetizzati nei termini che precedono – incidono anche sulla valutazione di adeguatezza della scelta della custodia cautelare in carcere. Tali elementi, infatti, lungi dall’indurre automaticamente a ritenere la necessità della misura di massimo rigore per il solo fatto che sussistono le esigenze cautelari, legittimano anche l’applicazione della misura
estrema, poichØ danno conto di un pericolo di recidiva concreto ed attuale, in relazione a condotte di particolare allarme sociale.
2.2. Va anche rilevato che l’appello del Pubblico Ministero Ł stato valutato in termini corretti dal tribunale circa i profili di ammissibilità (primo motivo del ricorso dell’avv. COGNOME): l’impugnazione, ritenuta generica in relazione alla contestazione associativa di cui al capo 1), Ł stata considerata specifica con riferimento agli ulteriori capi di incolpazione provvisoria, atteso il preciso riferimento alla presunzione di legge e alla persistente pericolosità del COGNOME, in assenza di elementi contrari provati dalla difesa.
Del pari infondate appaiono le censure relative alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, sia in ordine alla tentata estorsione che in riferimento all’usura. Premesso che «in tema di misure cautelari personali, allorchØ sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte suprema spetta solo il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato e di controllare la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie» (Sez. U., n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828 – 01), si deve dare atto che il Tribunale ha valorizzato un ampio ventaglio di elementi da cui desumere la gravità indiziaria, con circostanziati riferimenti agli atti di indagine e, in particolar modo, agli esiti delle intercettazioni.
¨ appena il caso di ribadire per tale ultimo profilo che in materia di intercettazioni, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (ex multis, Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, COGNOME, Rv. 282337).
Nel caso in esame, tali limiti sono stati rispettati e le alternative letture delle difese – sulle quali si Ł insistito anche nei motivi nuovi dell’avv. COGNOME – sono estranea alla verifica di legittimità.
3.1. ¨ sufficiente rilevare, in riscontro ai motivi di ricorso tesi a confutare la gravità indiziaria:
l’asserita estraneità del COGNOME alla vicenda estorsiva, materialmente ascritta al coindagato COGNOME Ł stata confutata dal tribunale, che, con motivazione congrua ed esente da vizi logici (pag. 12-13 dell’ordinanza impugnata), ha evidenziato le plurime ragioni per cui il ricorrente deve ritenersi responsabile, in qualità di coautore morale, dell’estorsione commessa ai danni di NOME COGNOME e NOME COGNOME; motivazione rispetto alla quale i rilievi difensivi risultano privi di effettivo confronto critico, limitandosi a sollecitare una rivalutazione del compendio probatorio acquisito – in particolare, di diversi dialoghi intercettati – non consentita in questa sede;
in relazione all’elemento soggettivo dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., entrambi i ricorsi tendono a prospettare una inammissibile rivalutazione delle fonti di prova senza adeguatamente confrontarsi con l’iter argomentativo sviluppato nell’impugnata ordinanza, che, oltre a valorizzare le inequivoche affermazioni del COGNOME circa l’incarico ricevuto dal COGNOME caratterizzate da espliciti riferimenti alle origini siciliane del coindagato e alla sua appartenenza all’organizzazione criminale nota come ‘RAGIONE_SOCIALE‘ – ha fatto corretta applicazione dei consolidati principi in materia di aggravante del cd. metodo mafioso, secondo cui quest’ultima «Ł configurabile anche a carico di soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere anzidetto» (Sez. 2, n. 38094 del 05/06/2013, COGNOME, Rv. 257065 – 01);
il secondo motivo del ricorso a firma dell’avv. COGNOME con il quale si censura la qualificazione della condotta descritta al capo 19) come estorsione anzichØ come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, Ł all’evidenza infondato oltre che generico, poichØ omette di confrontarsi con la logica e persuasiva argomentazione del tribunale in ordine all’assenza di elementi concreti da cui desumere l’esistenza, in capo all’indagato, di una pretesa creditoria azionabile in giudizio, nonchØ alla mancata allegazione, da parte della difesa, di circostanze idonee a ricondurre la vicenda nella fattispecie di cui all’art. 393 cod. pen.;
la contestazione relativa al reato di usura, comune ad entrambi i ricorsi, Ł manifestamente infondata a fronte della corretta valorizzazione, da parte del giudice del riesame, della conversazione del 5 luglio 2018, nella quale Ł lo stesso ricorrente ad affermare di praticare un interesse del 4% sulle somme prestate al Dimino (euro 2.000,00 mensili a fronte di un prestito di euro 50.000,00), dando così prova dell’esistenza di un previo patto usurario; pertanto, non persuade il rilievo difensivo per cui, trattandosi di cd. usura mediante dazione, occorreva accertare il tempo e la durata del prestito nonchØ la data dei singoli pagamenti effettuati dalla persona offesa, posto che la dazione degli interessi, in presenza di un preesistente accordo usurario, costituisce semplicemente la concreta e reiterata esecuzione della pattuizione originaria, non essendo perciò necessario provare nØ tutti gli interessi prestati nØ il superamento, trimestre per trimestre, del tasso soglia.
In conclusione, per quanto sopra esposto, entrambi i ricorsi devono essere rigettati; segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. La cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all’art. 28 reg. esec. cod. proc. pen.
Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 reg. esec. cod. proc. pen.
Così Ł deciso, 08/05/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME