Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 27295 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 27295 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 26/06/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a GIUGLIANO IN CAMPANIA il 16/09/1962 COGNOME NOME nato a GIUGLIANO IN CAMPANIA il 28/09/1967
avverso l’ordinanza del 03/03/2025 del TRIBUNALE DEL RIESAME di NAPOLI udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME sentite le conclusioni del PG NOME COGNOME
Il Proc. Gen. conclude per il rigetto dei ricorsi.
udito il difensore
L’avvocato NOME COGNOME chiede l’annullamento del provvedimento impugnato, in subordine la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite.
L’avvocato NOME COGNOME insiste per l’accoglimento del ricorso.
L’avvocato NOME COGNOME insiste per l’accoglimento del ricorso e chiede che la Corte valuti la rilevanza dell’informativa di reato del 2020.
RITENUTO IN FATTO
Con la ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Napoli, decidendo a seguito di annullamento con rinvio con sentenza di questa Corte n. 6755 del 29 novembre 2024, dep. 2025, rigettava l’istanza di riesame dei difensori di COGNOME NOME e COGNOME Vincenzo di revoca della misura cautelare e confermava l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli del 9 settembre 2024, con la quale era stata applicata nei confronti dei ricorrenti la misura della custodia cautelare in carcere, in relazione al reato di cui all’art. 416 bis cod. pen.
La Cassazione aveva accolto il ricorso del Pubblico Ministero, rilevando come il Tribunale ha escluso la sussistenza delle esigenze cautelari presunte dalla legge per i soggetti indagati del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. esclusivamente in considerazione del tempo trascorso dai fatti (sei anni) e per la mancata produzione da parte del pubblico ministero di nuovi elementi idonei ad attualizzare le esigenze cautelari .
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME dal suo difensore è sorretto da un unico motivo articolato con la deduzione della violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. e dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen. , che sarà enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
In particolare, il ricorrente si duole del fatto che la sua partecipazione alla associazione camorristica contestata si arresta ad ottobre 2018 (con attività captativa concentrata nei mesi di marzo ed aprile 2018), senza individuazione di reati fine, sicché nel caso di specie, unitamente al rilevante arco temporale intercorrente tra l’addebito e l’esecuzione dell’ordinanza cautelare inframuraria il Tribunale del riesame , avrebbe dovuto prendere in considerazione anche la totale estraneità alla successiva attività di indagine che aveva portato all’adozione cautelari nei confronti di altri soggetti, circostanze significative della carenza di esigenze socialpreventive .
Il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME Vincenzo dai suoi difensori è sorretto da due motivi, che saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Con il primo motivo eccepisce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. e dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen.
Il ricorrente osserva che le esigenze cautelari erano inesistenti, tenuto conto che: –a ) la condotta associativa si arresta a settembre 2018; -b ) le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia si riferiscono al periodo temporale 2009-2018; -c ) per altra vicenda cautelare per il delitto di tentata estorsione aggravata dalla finalità agevolativa, è
stata ritenuta sufficiente la misura cautelare degli arresti domiciliari; -d ) il Tribunale del riesame di Napoli con ordinanza del 25 febbraio 2025 ha annullato altro titolo custodiale per il delitto di ricettazione.
3.2. Con il secondo motivo eccepisce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) e lett. e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 297 cod. proc. pen.
In particolare, la difesa chiedeva la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare al 19 settembre 2019, data di esecuzione della ordinanza n. 481/2019, per il delitto di tentata estorsione, giacché al momento dell ‘ esecuzione della seconda ordinanza per il delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen. le fonti indiziarie poste a fondamento di tale ultimo titolo cautelare erano già desumibili.
Sotto altro aspetto, i reati delle due ordinanze cautelari erano avvinti da connessione qualificata, tenuto conto della circostanza che in seno all ‘ associazione camorristica lo COGNOME aveva il compito di compiere le estorsioni.
Con istanza del 22 maggio 2025, i difensori di COGNOME Vincenzo chiedevano la trattazione orale del ricorso.
I difensori di COGNOME NOME depositavano il 20 giugno 2025 motivi nuovi ex art. 311 cod. proc. pen.
Con il primo motivo nuovo, il ricorrente precisa pur se è vero che la natura del reato in contestazione rende operante il dettato dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. che pone una presunzione relativa di sussistenza di esigenze cautelari, quando si registra la decorrenza di un rilevante lasso temporale tra le condotte ascritte ed il momento applicativo della misura cautelare in carcere, la nozione di pericolosità sociale resta compiutamente definita anche dal fattore tempo, che entra nel giudizio di resistenza a cui è chiamato il giudice della cautela nel riscontrare, in concreto, la non attualità del pericolo: « la relatività della presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, anche per il delitto associativo ex art. 416 bis c.p., peraltro per la medesima associazione contestata allo COGNOME (clan COGNOME), è stata di recente ribadita, in accoglimento proprio del ricorso a firma degli scriventi, dalla Suprema Corte, VI sez. penale, n. 12763 del 25/2/2025 e depositata il 2/4/2025, ric Miraglia NOMECOGNOME
In subordine, i difensori hanno chiesto la rimessione alle sezioni unite della questione di non irrilevanza del tempo silente.
Con il secondo motivo, la parte tecnica osserva che «tutti gli elementi sui quali si è fondata la misura cautelare qui in esame erano non solo conosciuti ma di portata dimostrativa sufficiente per adottare la misura cautelare anteriormente all’applicazione della prima misura del settembre 2019».
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono infondati e, pertanto, devono essere rigettati.
Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME e di COGNOME Vincenzo può essere trattato congiuntamente, tenuto conto che con esso i ricorrenti mirano ad evidenziare la rilevanza non solo del cd tempo silente , ma anche di altri elementi idonei congiuntamente a superare la presunzione prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
Non è inutile ricordare che, nel caso di annullamento per violazione od erronea applicazione della legge penale, il giudice del rinvio è vincolato al principio di diritto espresso dalla Corte, restando ferma la valutazione dei fatti come accertati nel provvedimento impugnato mentre, in caso di annullamento per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, il giudice del rinvio può procedere a un nuovo esame del compendio probatorio, con il limite di non ripetere i vizi motivazionali del provvedimento annullato (cfr., tra le tante, Sez. 5, n. 24133 del 31/05/2022, Ministero Giustizia, Rv. 283440; Sez. 3, n. 7882 del 10/01/2012, COGNOME, Rv. 252333; Sez. 3, n. 4759 del 22/03/2000, COGNOME, Rv. 216343).
Si è anzi precisato che, a seguito di annullamento da parte della Corte di cassazione per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, il giudice del rinvio deve ritenersi vincolato unicamente ai principi e alle questioni di diritto decise con la sentenza di annullamento, con esclusione di ogni altra restrizione derivabile da eventuali passaggi di natura argomentativa contenuti nella motivazione della sentenza di legittimità, in special modo se riferibile a questioni di mero fatto attinenti il giudizio di merito (cfr., Sez. 2, n. 33560 del 09/06/2023, COGNOME, Rv. 285142).
Per altro verso, è consolidato il principio secondo cui la Corte di cassazione risolve una questione di diritto anche quando giudica sull’adempimento del dovere di motivazione, sicché il giudice di rinvio, pur conservando la libertà di decisione mediante un’autonoma valutazione delle risultanze probatorie relative al punto annullato, è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato a una determinata valutazione delle risultanze processuali (cfr., in tal senso, tra le altre, Sez. 2, n. 45863 del 24/09/2019, COGNOME, Rv. 277999; anche, Sez. 6, n. 19206 del 10/01/2013, COGNOME, Rv. 255122, in cui la Corte ha chiarito che nel caso di annullamento con rinvio della sentenza per vizio di motivazione, il giudice di rinvio – pur restando libero di determinare il proprio apprezzamento di
merito mediante un’autonoma valutazione della situazione di fatto concernente il punto annullato – è tenuto a giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando vincolato ad una determinata valutazione delle risultanze processuali o al compimento di una determinata indagine, in precedenza omessa, di determinante rilevanza ai fini della decisione, con il limite di non ripetere i vizi di motivazione rilevati nel provvedimento annullato; Sez. 5, n. 42814 del 19/06/2014, Pg in proc. COGNOME, Rv. 261760; Sez. 5, n. 7567 del 24/09/2012, COGNOME, Rv. 254830; Sez. 6, n. 42028 del 04/11/2010, Regine, Rv. 248738).
Orbene, nel caso di specie la sentenza di annullamento di questa Corte, nell’annullare l’ordinanza del tribunale partenopeo , ha aderito all’orientamento a mente del quale la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, in relazione al reato di partecipazione ad associazioni mafiose storiche, può essere superato solo con il recesso dell’indagato dall’associazione ovvero dalla disarticolazione della associazione di riferimento, non assumendo rilievo il solo riferimento al cd. tempo silente.
Ad ogni modo, non sussistono motivi per investire della questione il giudice della nomofilachia, per come invocato dalla difesa dello COGNOME nei motivi aggiunti e dalla difesa del COGNOME in sede di ricorso in ordine alla rilevanza del cd tempo silente.
4.1. In proposito, è intenso il dibattito interpretativo avente ad oggetto la rilevanza, al cospetto di gravi indizi di colpevolezza in merito a reati inseriti nel catalogo previsto dall’art. 275 comma 3, cod. proc. pen., dello iato temporale tra i fatti in contestazione ed il momento di applicazione della misura cautelare.
4.2. Secondo un primo orientamento più rigoroso, affermato più volte in relazione alle c.d. mafie storiche, che condiziona il superamento della presunzione, anche a distanza di molti anni dall’esaurimento delle condotte illecite e per i delitti aggravati ex art. 416-bis cod. pen., alla prova, in positivo, della stabile rescissione dei legami tra l’indagato ed il sodalizio criminoso, ‘la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’ art. 275, comma 3, cod. proc. pen. può essere superata solo con la prova del recesso dell’indagato dall’associazione o con l’esaurimento dell’attività associativa, mentre il cd. “tempo silente” (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati) non può, da solo, costituire prova dell’irreversibile allontanamento dell’indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi (tra cui, ad esempio, un’attività di collaborazione o il trasferimento in altra zona territoriale) volti a fornire la dimostrazione, in modo obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell’assenza di esigenze cautelari” (Sez. 5, n. 16434 del 21/02/2024, COGNOME, Rv. 286267; in senso conforme, Sez. 2, n. 38848 del
14/07/2021, COGNOME, Rv. 282131; Sez, 5, n. 36389 del 15/07/2019, COGNOME, Rv. 276905).
Pertanto, il “tempo silente” (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati), ove non accompagnato da altri elementi fattuali, è inidoneo a superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
Ciò perché – secondo i fautori di tale indirizzo – detta presunzione è prevalente, in quanto speciale, rispetto alle disposizioni generali stabilite dall’art. 274 cod. proc. pen. , cosicché se il titolo cautelare riguarda i reati previsti dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., la presunzione in esame farebbe ritenere sussistente i caratteri di attualità e concretezza del pericolo, salvo prova contraria, non desumibile, tuttavia, dalla sola circostanza relativa al mero decorso del tempo, ove non accompagnata da altri elementi circostanziali idonei a determinare un’attenuazione del giudizio di pericolosità (Sez. 2, n. 6592 del 25/01/2022, COGNOME, Rv. 282766 – 02; Sez. 5, n. 4950 del 07/12/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282865; Sez. 1, n. 21900 del 07/052021, COGNOME, Rv. 282004 che, in motivazione, ha aggiunto che, nella materia cautelare, il decorso del tempo, in quanto tale, possiede una valenza neutra ove non accompagnato da altri elementi circostanziali idonei a determinare un’attenuazione del giudizio di pericolosità; Sez. 5, n. 4321 del 18/12/2020, dep. 2021 COGNOME, Rv. 280452; Sez. 5, n. 33139 del 28/09/2020, COGNOME, Rv. 280450 – 02; Sez. 5, n. 26371 del 24/07/2020, COGNOME, Rv. 279470).
Con particolare riferimento alla custodia cautelare in carcere disposta per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. si è affermato, nello stesso solco ermeneutico, che la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. può essere superata solo con il recesso dell’indagato dall’associazione o con l’esaurimento dell’attività associativa, escludendosi che il cd. “tempo silente” costituisca, da solo, prova dell’irreversibile allontanamento dell’indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi, tra cui, ad esempio, un’attività di collaborazione o il trasferimento in altra zona territoriale, volto a fornire la dimostrazione, in modo obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell’assenza di esigenze cautelari (si veda, in tal senso, Sez. 2, n. 38848 del 14/07/2021, Giardino, Rv. 282131; Sez. 2, n. 7837 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280889).
4.3. Altro orientamento, richiamato dalla difesa a sostegno delle proprie tesi e fatto proprio in altrettante recenti decisioni di questa Corte in subiecta materia , ritiene, invece, che, pur se per i reati di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. è prevista una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, il tempo trascorso dai fatti contestati, alla luce della riforma di cui alla legge 16 aprile 2015, n. 47, e di una esegesi costituzionalmente orientata della stessa presunzione, deve essere espressamente
considerato dal giudice, ove si tratti di un rilevante arco temporale privo di ulteriori condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra gli “elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”, cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (in tal senso, tra le tante, Sez. 6, n. 11735 del 25/01/2024, COGNOME, Rv. 286202; Sez. 6, n. 31587 del 30/05/2023, COGNOME, Rv. 285272; Sez. 6, n. 19863 del 04/05/2021, COGNOME, Rv. 281273; Sez. 3, n. 6284 del 16/01/2019, Pianta, Rv. 274861).
Invero, si è precisato che con la legge 16 aprile 2015, n. 47, il legislatore non solo ha ancorato la restrizione ante iudicium ad esigenze cautelari necessariamente connotate da concretezza e attualità, ma ha anche circoscritto gli automatismi ex lege (previsti nell’art. 275, comma 3, e negli artt. 276, comma 1 – bis, 284, comma 5 – bis, cod. proc. pen.), correlativamente ampliando gli spazi valutativi del giudice, al fine di garantire sia la “individualizzazione” della coercizione ai pericula effettivamente sussistenti sia il “minimo sacrificio necessario”, in ossequio al dettato degli artt. 3, 13 e 27 Cost. e ai principi espressi dalla Consulta e dalla Corte di Strasburgo ( ex plurimis , C. cost. n. 299 del 2005; CEDU sent. 2 luglio 2009, Vafiadis c. Grecia, e 8 novembre 2007, Lelièvre c. Belgio).
Sicché il decorso di un lungo lasso di tempo dalle manifestazioni di partecipazione al sodalizio criminale può assumere rilievo, al fine di superare la presunzione di cui all’art. 275 comma 3, cod. proc. pen., imponendo una puntuale analisi del caso di specie (sul punto, ex plurimis , Sez. 3, n. 6284 del 16/01/2019, Pianta, Rv. 274861).
Si tratta di principio che è in linea con quanto autorevolmente affermato in materia di misure di prevenzione, in ordine al tema della pericolosità qualificata (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, dep. nel 2018, COGNOME, Rv. 271512).
In tale contesto, l’operatività della presunzione di cui al combinato disposto degli artt. 275, comma 3, cod. proc. pen. e 416-bis cod. pen., pur costituzionalmente adeguata e “necessaria” in relazione alla gravissima fattispecie incriminatrice, non può prescindere da un’attenta verifica del presupposto (negativo) perché possa scattare l’automatismo ex lege , vale a dire dell’assenza di elementi – dedotti dalla parte o comunque emergenti dall’incartamento processuale – suscettibili di superare la presunzione di pericolosità sociale, che rende appunto inderogabile (in quanto presunzione assoluta) l’applicazione della misura intramuraria.
Pertanto, la presunzione relativa di pericolosità sociale può essere superata anche quando dagli elementi a disposizione del giudice emerga una situazione che, pur in mancanza della prova positiva della rescissione del vincolo associativo, dimostri – in modo obiettivo e concreto – l’effettivo e irreversibile allontanamento dell’indagato dal gruppo criminale e la conseguente mancanza delle esigenze cautelari (Sez. 6, n. 28821 del 30/09/2020, COGNOME, Rv. 279780; Sez. 6, n. 23012 del 20/04/2016, COGNOME, Rv. 267159; Sez. 5, n. 47401 del 14/09/2017, P.M. in proc. COGNOME Rv. 271855).
Si è, infatti, affermato che la presunzione menzionata – in particolare nelle ipotesi in cui sono contestati un reato per sua natura non permanente oppure un reato permanente, come quello associativo, ma oggetto di contestazione di fatto “chiusa” – tende ad affievolirsi, quando un considerevole arco temporale separi il momento di consumazione del reato da quello dell’intervento cautelare.
Quanto alla nozione di rilevante arco temporale, la necessità di valutare il cd tempo silente è stata considerata con riferimento ad una misura cautelare applicata a distanza di cinque anni rispetto alla data di commissione del reato a contestazione chiusa (Sez. 6, n. 11735 del 25/01/2024, COGNOME, Rv. 286202 – 02; Sez. 3, n. 6284 del 16/01/2019, Pianta, Rv. 274861).
Tale soluzione ermeneutica – per i suoi fautori e per la difesa – appare coerente con la stessa struttura del reato associativo e, in particolare, con le connotazioni “dinamiche” proprie della condotta di partecipazione. Va, infatti, considerato che secondo il consolidato principio di diritto, più volte affermato anche dalle Sezioni Unite, il contributo all’attualità della vita associativa ed alla realizzazione dei fini che la stessa si propone non può risolversi in una semplice adesione di tipo ideologico, che sicuramente rileva sul piano psicologico, ma deve, comunque, concretarsi in una condotta partecipativa, anche di rilievo non particolarmente incisivo e, come tale, sostituibile, che sia funzionale alla realizzazione degli scopi illeciti della compagine e dimostrativa di una attualità dell’inserimento in essa dell’indagato e, quindi, della permanenza del delitto associativo non solo sul versante oggettivo della struttura associativa in sé considerata, ma anche su quello soggettivo della personale adesione ad essa del singolo indagato. Si tratta, dunque, più che di un mero status di appartenenza, di un ruolo dinamico e funzionale, connotato dallo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione, idoneo, per le specifiche caratteristiche del caso concreto, ad attestare la sua messa a disposizione in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi (Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, Modafferi, Rv. 281889; Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231670).
A fronte di siffatta connotazione della condotta di partecipazione ad una associazione per delinquere quale quella in contestazione e della natura permanente di tale reato, il tempo intercorso tra i fatti contestati e l’emissione della misura cautelare, in mancanza di ulteriori condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, deve poter rilevare quale fattore sintomatico della inattualità del vincolo associativo o della sua definitiva dissoluzione, dovendosi, peraltro, escludere la necessità che il recesso dell’associato assuma le forme di una dissociazione espressa, coincidente con l’inizio della collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.
4.4. Nell’ambito di questo secondo orientamento, tuttavia, è stato in maniera condividibile precisato che l’incidenza sulla valutazione giudiziale della dimensione
temporale non è fissa e sempre omogena ma è strettamente collegata con la storia e la personalità dell’indagato (Sez. 6, n. 4920 del 15/10/2024, dep. 2025, COGNOME, non mass.) e con le caratteristiche del sodalizio mafioso in cui risulta inserito, con la conseguenza che “l’astratta e generica deduzione del tempo trascorso non costituisce un’argomentata censura avverso la riconosciuta valenza della presunzione…in assenza di qualsivoglia riferimento al tipo di sodalizio e alla qualità e alla durata della partecipazione…(in quanto) al fine di superare la presunzione si impone il confronto con quelle caratteristiche e quella partecipazione, onde poter prospettare la valenza di una protratta mancanza di ulteriori manifestazioni, quale dato sintomatico di un sostanziale allontanamento (unico dato di per sé decisivo)” (Sez. 6, n. 37352 del 18/07/2024, Pravatà, non mass.; Sez. 6, n. 15753 del 28/03/2018, Pisano, Rv. 272887).
4.5. Va evidenziato che vi è anche un orientamento che si pone in una posizione intermedia e che ritiene che i due orientamenti sopra ricordati non si pongano in contrapposizione e ben si compendino nel condivisibile dictum secondo cui, in tema di misure coercitive, quando si procede per un delitto per il quale opera una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della misura carceraria, ai fini della prova contraria, occorrono elementi idonei ad escludere la sussistenza di ragionevoli dubbi posto che la presunzione detta un criterio da applicarsi proprio in caso di incertezza; ne deriva che, per giungere al superamento di tale presunzione, il tempo trascorso tra i fatti per cui si procede e l’esecuzione della misura, pur valutabile, deve essere tale da consentire il superamento della situazione di dubbio (Sez. 2, n. 19341 del 21/12/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 273434; conf. Sez. 6, n. 53028 del 06/12/2017, COGNOME, Rv. 271576, secondo cui per il reato associativo di cui all’art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in relazione al quale l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. pone una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, ai fini della prova contraria assume rilevanza il fattore temporale, ove esso sia di notevole consistenza, cosicché è necessario che l’ordinanza cautelare motivi in ordine alla rilevanza del tempo trascorso, indicando specifici elementi di fatto idonei a dimostrare l’attualità delle esigenze cautelari; Sez. 6, n. 52404 del 26/11/2014, COGNOME, Rv. 261670, secondo cui, in tema di misure coercitive disposte per il reato associativo di cui all’art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, la sussistenza delle esigenze cautelari deve essere desunta – rispetto a condotte esecutive risalenti nel tempo – da specifici elementi di fatto idonei a dimostrarne l’attualità, in quanto tale fattispecie associativa è qualificata unicamente dai reati fine, e non postula necessariamente l’esistenza dei requisiti strutturali e delle peculiari connotazioni del vincolo associativo tipiche del reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., risultando quindi inapplicabile la regola di esperienza, elaborata per quest’ultimo, della tendenziale stabilità del sodalizio, in difetto di elementi contrari attestanti il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo).
5 . Orbene, a parere del Collegio l’asserito contrasto è più apparente che reale, dal momento che non vi è dubbio che la dimensione temporale non è fissa e sempre omogena ma è strettamente collegata con la storia e la personalità dell’indagato ed alla rilevanza della condotta partecipativa.
Invero, se è vero che il tempo trascorso dai fatti contestati, alla luce della riforma di cui alla legge 16 aprile 2015, n. 47, può rientrare tra gli “elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”, cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, cod. proc. pen., è altrettanto vero che il riferimento al c.d. tempo silente non assume una valenza astratta, ma deve essere posto in connessione con la concreta fattispecie per cui si procede.
Non è sufficiente l’astratta e generica deduzione del tempo trascorso, perché possa dirsi formulata un’argomentata censura avverso la riconosciuta valenza della presunzione, in un caso di suffragata partecipazione a sodalizio mafioso, in assenza di qualsivoglia riferimento al tipo di sodalizio e alla qualità e alla durata della partecipazione.
Vuol dirsi cioè che la stessa dimensione temporale assume un significato diverso a seconda delle caratteristiche del sodalizio e del tipo di partecipazione assicurata dal soggetto, cosicché al fine di superare la presunzione si impone il confronto con quelle caratteristiche e quella partecipazione, onde poter prospettare la valenza di una protratta mancanza di ulteriori manifestazioni, quale dato sintomatico di un sostanziale allontanamento (unico dato di per sé decisivo: sul punto si rinvia a Cass. Sez. 6, n. 15753 del 28/03/2018, COGNOME, Rv. 272887), non potendosi contrapporre un profilo astratto ad un dato generico.
La valenza della dimensione temporale non è cioè fissa, omogenea, sempre uguale a sé stessa, ma necessita di essere conformata rispetto al caso concreto, al tipo di sodalizio, alla qualità ed alla durata della partecipazione, alla “storia” dell’indagato, alla personalità del soggetto nei cui confronti deve essere compiuta la valutazione sull’adeguatezza della misura cautelare in corso e sulla esistenza di elementi rivelatori del superamento della presunzione di pericolosità di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
Del resto, il contrasto prima richiamato riguarda più che altro la ritenuta necessità di una prova di rescissione del legame criminale con l’associazione di stampo mafioso, che il secondo dei citati orientamenti – per non accollare all’indagato una probatio diabolica -reputa corretto richiedere, in una logica di favor libertatis , solo nei casi in cui la presunzione fissata dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. sia particolarmente intensa in ragione delle caratteristiche del sodalizio criminale esaminato e della natura del legame esistente tra l’indagato e quel gruppo organizzato.
Al contrario, l’intervallo temporale esistente tra i fatti addebitati e il momento della emissione della ordinanza applicativa della misura cautelare può acquisire una rilevanza
probatoria valutabile in favore dell’indagato, laddove siano rappresentati elementi sintomatici di un suo possibile reale allontanamento dai contesti criminali nei quali era maturata la commissione di quei reati: ciò tanto più laddove l’interessato abbia partecipato ad una organizzazione criminale di nuova formazione o derivante da contingenti intese tra gruppi criminali, ovvero se il suo ruolo sia stato secondario rispetto alle, pure risalenti nel tempo, dinamiche operative di quel sodalizio delinquenziale (così, in motivazione, Sez. 6, n. 19863 del 04/05/2021, COGNOME, Rv. 281273-02).
Pertanto, in assenza della prova della rescissione dal sodalizio, il quantum di “prova” necessario per ritenere superata la presunzione indicata è direttamente proporzionale al curriculum criminale del soggetto che invoca detto superamento: non è, ad esempio, irrilevante che l’interessato sia stato o meno già in passato condannato per associazione mafiosa ovvero per reati aggravati ex art. 416 bis.1 cod. pen., ovvero per altri reati, atteso che ciò dimostra una propensione criminale, una componente strutturale di pericolosità che nemmeno le precedenti condanne sono valsa ad eliminare.
In un contesto di tal genere, in cui il decorso del tempo ha già rivelato la sua incapacità di neutralizzare il pericolo di recidiva, il superamento della presunzione di pericolosità di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. presuppone l’esistenza di elementi significativi, specifici, concreti, di elevata capacità dimostrativa (in tal senso, Sez. 6, n. 19787 del 26/03/2019, COGNOME, Rv. 275681).
Tale circostanza emerge con chiara acribia dalla analisi delle fattispecie poste all’attenzione dell’orientamento invocato dalla difesa nel presente ricorso.
Invero, in Sez. 6, n. 11735 del 25/01/2024, COGNOME, cit., è stata data rilevanza al tempo intercorso tra i fatti contestati e l’emissione della misura cautelare, giacché erano assenti ulteriori condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità (trattandosi di soggetto alla sua prima esperienza detentiva , la destrutturazione dell’ associazione mafiosa di riferimento e il non rivestire alcun ruolo di rilievo al suo interno); in Sez. 6, n. 21809 del 04/06/2025, Bathorja, in attesa di assegnazione di Rv., il Tribunale del riesame, unitamente alla valenza del tempo silente, non aveva considerato che l’indagato era stato ammesso al regime della semilibertà, aveva intrapreso un serio percorso riabilitativo e di affrancamento dal crimine rescindendo ogni rapporto con ambienti di riferimento e mantenendo una condotta che gli era valsa la revoca della misura di sicurezza della espulsione .
Nel caso in esame, la difesa dei ricorrenti -su cui grava il relativo onere -non ha allegato elementi concreti -al di là del decorso del tempo, riferendosi alla contestazione (chiusa) del reato associativo fino ad ottobre 2018, rispetto alla data di adozione della misura cautelare (9 settembre 2024) – idonei a loro dire a dimostrare in modo obiettivo e concreto l’effettivo e definitivo allontanamento degli indagati dal gruppo criminale e la conseguente mancanza delle esigenze cautelari.
Per i ricorrenti non sussisterebbero esigenze cautelari tenuto conto che: -a ) il reato per cui si procede è stato contestato sino all’ottobre 2018; –b ) la misura cautelare è stata emessa a distanza di 6 anni dal fatto.
6. Alla stregua di tali premesse, deve rilevarsi che nel giudizio sulle esigenze di cautela sociale formulato dal Tribunale del riesame, rispetto alla fattispecie oggetto della imputazione provvisoria elevata nei confronti dei ricorrenti, non è dato rilevare profili di irragionevolezza o di omessa motivazione.
Invero, in assenza della prova della rescissione dal sodalizio e, anzi, valorizzando le condotte tenute nel procedimento che manifestano una persistente adesione ai valori del contesto criminale pregresso (a p. 177 il giudice per le indagini preliminari descrive i due ricorrenti inseriti in una stabile struttura -che si avvale della collaborazione di numerosi soggetti con variegate e differenziate esperienze professionali, capace di creare un giro di affari illecito particolarmente significativo) , la motivazione sorregge la presunzione richiamata mediante la valorizzazione di elementi di fatto dimostrativi dell’attualità e concretezza delle esigenze cautelari ritenute di pregnanza significativa preponderante rispetto al tempo trascorso dai fatti, sicché l’enfatizzazione del tempo silente, privo di agganci ad elementi ulteriori atti a dimostrare l’allontanamento dall’ambiente del crimine organizzato non può che ritenersi totalmente aspecifico e, comunque, inidoneo a vulnerare la motivazione contestata in punto di esigenze cautelari.
Invero, il Tribunale del riesame dopo aver fatto riferimento all’allarmante pericolosità del contesto di criminalità organizzata in cui i ricorrenti hanno posto in essere la loro condotta partecipativa (nell ‘ ordinanza cautelare del gip emerge che i ricorrenti sono stati incaricati di compiere le estorsioni per conto del clan COGNOME; oltre ad essere destinatari del cd. stipendio, lo COGNOME partecipava ai summit dove erano stabilite le strategie operative del sodalizio, con la precisazione che i collaboratori di giustizia hanno riferito che tanto lo COGNOME quanto il COGNOME erano affiliati da lungo tempo: NOME COGNOME fa riferimento alla affiliazione dello COGNOME del COGNOME già nel verbale del 4 agosto 2009, per il primo, e nel verbale dell’8 dicembre 2009, per il secondo; il COGNOME e lo COGNOME erano anche incaricati di distribuire lo ‘stipendio’ tra i vari associati oltre a partecipar e a pestaggi), quanto al COGNOME ha richiamato le plurime condanne in materia di rapina (tre), sequestro di persona, detenzione e porto illegale di armi comuni da sparo ed armi clandestine, evasione, ricettazione e furto. Quanto allo COGNOME viene richiamata la condanna definitiva ad anni due e mesi otto di reclusione (del 5 aprile 2022) per il delitto di tentata estorsione aggravata ex art. 416 bis.1 cod. pen. commesso nell’agosto del 2019, nonché la circostanza che è stato destinatario il 3 maggio 2025 di ordinanza per il reato di ricettazione aggravato ex art. 416 bis.1 cod. pen. (sebbene annullata dal Tribunale del
riesame per come dedotto dalla difesa), oltre ad annoverare condanne per delitti contro il patrimonio, per tentato omicidio.
Pertanto, il Tribunale non si è limitato a richiamare la doppia presunzione prevista per il reato associativo, ma ha attribuito rilievo alla particolare gravità dei reati e all’elevato pericolo per l’ordine pubblico correlato all’operatività della struttura delineata dalle indagini (nella ordinanza cautelare applicativa della custodia in carcere, il giudice per le indagini preliminari – nel paragrafo dedicato alle esigenze cautelari, segnatamente p. 176 -richiama la gravità delle condotte espressive di un capillare controllo di attività criminali ed economiche sul territorio, allarmanti sotto il profilo della sicurezza e dell’ordine pubblico nonché dell’incidenza negativa sulle attività del territorio governato dal clan COGNOME ), nonché alla personalità negativa dei ricorrenti, per come prima descritto, quale elemento idoneo a fondare e attribuire concretezza al pericolo di recidiva.
In questa cornice, le osservazioni che il Tribunale del riesame dedica alla intensità, in positivo, delle esigenze di tutela della collettività appaiono ineccepibili, in quanto accompagnate da concreti riferimenti alla personalità degli agenti ed alle caratteristiche dell’attività illecita.
Pertanto, le censure mosse dai ricorrenti sono addotte in modo assertivo, in quanto, senza negare la gravità indiziaria, ritengono rilevante il tempo decorso dai fatti desumendo dalla contestazione chiusa una disarticolazione del sodalizio che non trova in realtà riscontro in alcuna emergenza istruttoria.
Anzi, il richiamo operato dai difensori dello COGNOME alla sentenza n. 12763 del 25/2/2025 è dimostrativo dell’attuale operatività del clan COGNOME, dovendosi così escludere l’esaurimento della vitalità del compendio associativo.
Nel caso in esame, si è dato rilievo all’elemento significativo dell’esclusione dell’intervenuta disarticolazione della struttura criminale di riferimento degli indagati.
Del resto, i delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso sono caratterizzati dalla stabilità del sodalizio criminale e del relativo vincolo di appartenenza, in difetto di elementi contrari, attestanti il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo, non potendo trarsi detto recesso nemmeno dallo stato detentivo di lunga durata dell’aderente (Sez. 2, n. 8461 del 24/01/2017, De Notaris, Rv. 269121).
Né può assumere rilievo la circostanza che il delitto associativo sia stato contestato in forma chiusa.
La funzione della contestazione è eminentemente processuale, poiché serve a delimitare il thema decidendum , ovvero l’oggetto del giudizio per consentire un pieno esercizio dei diritti di difesa, ma non ha alcuna rilevanza sul piano probatorio.
L ‘ indicazione nell’imputazione del tempo di commissione del reato, come anche la delimitazione della data di inizio e fine della consumazione di un reato a condotta
permanente non possono essere considerate un elemento dimostrativo della concreta dinamica dei fatti, essendo solo sulla base degli elementi di prova che possono essere espresse valutazioni in punto di accertamento dei fatti e del loro sviluppo temporale.
D’altra parte, anche nel caso opposto di contestazione di una indicazione temporale aperta, senza cioè una delimitazione finale del tempo di consumazione, non sarebbe certamente possibile desumere da tale dato processuale una effettiva prosecuzione della condotta incriminata sine die , essendo sempre e solo sulla base della valutazione degli elementi di prova che possono essere formulati giudizi sulla concreta operatività di un sodalizio fino ad una certa data.
Non è quindi sulla base della contestazione aperta o chiusa dell’incolpazione che possono ricavarsi elementi di valutazione sulla sussistenza delle esigenze cautelari, essendo sempre e solo sulla base delle risultanze istruttorie che deve essere formulato ogni giudizio in punto sia di gravità indiziaria che di esigenze cautelari.
In altri termini, è proprio la natura del reato permanente che può determinare un ampliamento del tempus commissi delicti , sicché compete sempre e solo al giudice di merito l’apprezzamento della misura temporale che si reputa in concreto necessaria per ritenere insussistenti le esigenze cautelari, in rapporto al grado di pericolosità dell’associazione che si desume essenzialmente dalla gravità dei fatti.
Trattasi di una valutazione di fatto che se congruamente motivata non può essere oggetto di nuovo e diverso apprezzamento, perché precluso in sede di legittimità.
Nella specie, il Collegio cautelare ha evidenziato, in sostanza, come le presunzioni (relative) in ordine alla esistenza di esigenze di tutela della collettività ed alla adeguatezza della misura carceraria, prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in assenza di elementi contrari, non potessero ritenersi vinte, evidenziando anche specifici elementi confermativi della concretezza ed attualità delle esigenze cautelari (gravità delle condotte e ruolo associativo di rilievo nell’ambito del sodalizio criminoso; curricula criminali).
Le valutazioni del Tribunale sul tempo decorso dagli ultimi fatti contestati sono coerenti a quanto evidenziato sul grado di pericolosità dell’associazione camorristica per cui si procede.
Peraltro, la difesa dei ricorrenti non ha allegato elementi univocamente indicativi del loro irreversibile allontanamento dal clan COGNOME.
Ne deriva che il Tribunale non ha affatto eluso l’obbligo di motivazione impostogli sul punto demandato al suo esame, anche secondo il diverso indirizzo giurisprudenziale, che impone al giudice di motivare in ordine alla rilevanza del tempo trascorso sull’esistenza e sull’attualità delle esigenze cautelari, anche nel caso in cui, trattandosi di reati associativi o di delitto aggravato dall’art. 416-bis 1 cod. pen., non risulti la dissociazione dell’indagato dal sodalizio criminale.
Il Tribunale ha coerentemente reputato che il decorso di sei anni per una associazione di stampo camorristico che ha dimostrato di controllare il territorio con l’uso di armi ed esplosivi, ponendo in essere numerosi attentati incendiari ai danni di molte aziende locali, non può essere apprezzato come elemento sopravvenuto idoneo a superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, in considerazione della possibilità concreta di una immediata ripresa dell’attività criminale ove gli arrestati venissero rimessi in libertà.
In particolare, si è sottolineato l’intrinseco significato della piena partecipazione al sodalizio da parte dei ricorrenti, nonché per il contributo offerto alla consumazione di gravissimi reati – scopo dell’associazione, costituenti la totale estrinsecazione, tanto sul piano modale che su quello funzionale del programma delinquenziale associativo volto ad acquisire il predominio economico nella zona territoriale di influenza. Inoltre, è stato posto in luce come la pericolosità sociale degli indagati si sia dimostrata per un ampio arco temporale, a dimostrazione di una scelta di vita consolidata.
Dunque: -a ) il ruolo di primo piano ricoperto dagli indagati nella vicenda; -b ) i loro precedenti penali; -c ) la condanna per tentata estorsione aggravata ex art. 416 bis.1 cod. pen. nei confronti dello COGNOME, hanno restituito il quadro di una pericolosità sociale non transeunte, a cui si aggiunge l’esecuzione di ulteriori misure cautelari nei confronti di altri esponenti del clan COGNOME, circostanza dimostrativa della perdurante operatività di un modus agendi , riferibile non solo alle persone direttamente coinvolte, ma al gruppo di appartenenza, e quindi idoneo a consentire un giudizio di attualità delle esigenze cautelari anche rispetto ai ricorrenti e a imporre l’applicazione della misura più severa, in coerenza con la presunzione normativa, non essendo stati comprovati, almeno allo stato, seri elementi in grado di orientare diversamente la valutazione sul pericolo di reiterazione dei reati e sulla scelta della misura.
Ben si comprende dunque come secondo la valutazione del Tribunale non solo non fosse emersa una formale dissociazione da parte dei ricorrenti, ma dovesse ritenersi perdurante la loro concreta adesione al sodalizio, a prescindere dalla mancanza di elementi attestanti una loro recente attiva partecipazione.
Si è, quindi, in presenza di un’argomentazione articolata che sviluppa una valutazione prognostica, fondata sulle modalità realizzative della condotta, connotata dal coinvolgimento degli indagati in contesti criminosi di notevole livello, sulla personalità dei medesimi, stabilmente dediti allo svolgimento di attività delinquenziali, e sul contesto socio ambientale, da cui gli indagati non hanno preso le distanze, volta a dimostrare l’attualità e concretezza delle esigenze cautelari, che affianca e corrobora le presunzioni di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., esigenze non fronteggiabili con misure cautelari di minor rigore affidate alla capacità di autodeterminazione, in quanto ritenute inidonee a impedire il contatto con il contesto delinquenziale di riferimento.
Alla stregua di tali premesse, deve rilevarsi che, anche nel giudizio sulle esigenze di cautela sociale formulato dal Tribunale del riesame, rispetto alla fattispecie oggetto della imputazione provvisoria elevata nei confronti dei ricorrenti, non è dato rilevare profili di irragionevolezza o di omessa motivazione, avendo il Tribunale evidenziato il ruolo assunto dai ricorrenti all’interno del clan, senza l’emersione di alcun elemento in grado di far ragionevolmente ritenere la rescissione del legame con l’associazione criminosa e senza che i ricorrenti abbiano mostrato alcun atteggiamento collaborativo nel corso del procedimento, tenuto conto delle plurime condanne ricevute.
E, dunque, in assenza della prova della rescissione dal sodalizio e, anzi, di condotte tenute nel procedimento che manifestano una persistente adesione ai valori del contesto criminale pregresso, nonchè di una motivazione che sorregge la presunzione richiamata mediante la valorizzazione di elementi di fatto dimostrativi dell’attualità e concretezza delle esigenze cautelari ritenute di pregnanza significativa preponderante rispetto al tempo trascorso dai fatti, l’enfatizzazione del tempo silente, privo di agganci a elementi ulteriori atti a dimostrare l’allontanamento dall’ambiente del crimine organizzato non può che ritenersi totalmente aspecifico e, comunque, inidoneo a vulnerare la motivazione contestata in punto di esigenze cautelari.
Nel caso di specie, infatti, l’ordinanza ha dato conto, con pertinenti richiami fattuali e nel rispetto di condivise coordinate ermeneutiche, dell’assenza di segni univoci – neppure rappresentati dagli indagati – di disgregazione della consorteria e di rescissione del vincolo di partecipazione, o di allontanamento dal territorio soggetto al controllo del clan COGNOME, onde ritenere attenuate o finanche esaurite le esigenze cautelari nei suoi confronti ravvisate.
In conclusione, il Tribunale ha compiutamente valutato il tempo trascorso tra i fatti e l’esecuzione della misura cautelare (il cd tempo silente), rimarcando che, all’esito della valutazione complessiva delle modalità dei fatti, del loro contesto e della personalità degli indagati (nei cui confronti l’intensità del vincolo associativo era particolarmente forte tenuto conto della loro decennale partecipazione mafiosa), tale elemento non presentava caratteri di significatività ed incidenza sulla presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
La motivazione è congrua ed esente da vizi logici e si sottrae, quindi, al sindacato di legittimità.
Sulla scorta di tali considerazioni la deduzione difensiva, incentrata sul rilievo attribuibile al tempo silente, è dunque totalmente aspecifica, in quanto non correlata alla reale dimensione temporale del sodalizio e soprattutto alla natura della consolidata partecipazione ad esso da parte dello COGNOME e del COGNOME: tali elementi infatti incidono direttamente anche sulla consistenza e rilevanza del tempo trascorso, che, corrispondentemente, a seconda dei casi, può diversamente influire anche sulla
presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nel senso che può a tal fine considerarsi sufficiente un numero maggiore o minore di anni in rapporto alla verifica di quegli elementi, non potendosi invece validamente individuare in termini generali e astratti un lasso di tempo di per sé idoneo a quello scopo.
Il secondo motivo di ricorso ed il secondo motivo nuovo proposti da COGNOME Vincenzo sono inammissibili.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità l’impugnazione “incidentale”, prevista dalla legge con riferimento all’appello, non è prevista in relazione al ricorso per cassazione, sicché l’eventuale ricorso incidentale presentato dalla parte può valere solo come memoria difensiva in dissenso dalla impugnazione della controparte e in adesione al provvedimento da questi impugnato (Sez. 6, n. 20134 del 14/04/2015, COGNOME, Rv. 263397; Sez. 1, n. 20470 del 18/04/2013, COGNOME, Rv. 256166).
Nel caso di specie, la questione relativa alla operatività dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., è stata già disattesa dalla ordinanza del 4 ottobre 2024, nei cui confronti il ricorrente avrebbe potuto proporre autonomo ricorso, tenuto conto che lo Strino aveva dedotto solo tale questione, manifestando interesse solo per la declaratoria di inefficacia del titolo cautelare per effetto della retrodatazione.
10. In ogni caso, i motivi sono inammissibili.
Deve premettersi come questa Corte abbia chiarito più volte che tanto l’esistenza della connessione rilevante ex art. 297, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 22681 del 27/05/2008, COGNOME, Rv. 240099), quanto la desumibilità dagli atti del primo procedimento degli elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari (Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 236829) costituiscono quaestiones facti , la cui valutazione è riservata ai giudici di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità esclusivamente sotto il profilo della logicità e coerenza descrittiva delle emergenze processuali e probatorie, nonché della congruenza e non contraddittorietà delle relative analisi e dei pertinenti passaggi argomentativi.
È, inoltre, opportuno ricordare che, come è stato evidenziato in due pronunce delle Sez. U di questa Corte (n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, Librato, Rv. 235909; n. 21957 del 22/03/2005, P.M. in proc. COGNOME ed altri, Rv. 231057), in tema di disciplina della retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare in caso di contestazione a catena, possono ricorrere tre distinte situazioni, alle quali corrispondono altrettante, distinte, regole operative.
10.1. Possono essere state emesse nello stesso procedimento penale due (o più) ordinanze applicative di misure cautelari personali che abbiano ad oggetto fatti-reato legati tra loro da concorso formale, continuazione o da connessione teleologica (casi di
connessione qualificata), e per le imputazioni oggetto del primo provvedimento coercitivo non sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio. In queste circostanze trova applicazione la disposizione dettata dal primo periodo del comma 3 dell’art. 297 cod. proc. pen., secondo la quale la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura o delle misure applicate successivamente alla prima opera in via automatica e, dunque “indipendentemente dalla possibilità, al momento della emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure” (così Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato, cit.).
10.2. I fatti oggetto delle plurime ordinanze cautelari possono, invece, risultare avvinti dalla suindicata connessione qualificata e le ordinanze essere emesse in distinti procedimenti (e al riguardo non rileva se questi siano ‘gemmazione’ di un unico procedimento, nel cui ambito è stata disposta una separazione delle indagini per taluni fatti, oppure che essi abbiano avuto autonome origini). In tale situazione si applica la regola dettata dal secondo periodo del comma 3 dell’art. 297 cod. proc. pen., sicché la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza.
10.3. Infine, tra i fatti oggetto dei due (o più) provvedimenti cautelari può non esistere alcuna connessione, ovvero può configurarsi una forma di connessione non qualificata. Questa ipotesi rientra nel campo applicativo dell’art. 297 cod. proc. pen. per effetto della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 408 del 2005. Pertanto, se le due ordinanze sono state adottate in procedimenti formalmente differenti, per la retrodatazione occorre verificare, oltre che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli elementi idonei a giustificare l’applicazione della misura disposta con la seconda ordinanza, che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del pubblico ministero (così Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, Librato, cit.; conf., in seguito, su tale specifico aspetto, Sez. 2, n. 44381 del 25/10/2010, Noci, Rv. 248895; Sez. 1, n. 22681 del 27/05/2008, COGNOME, Rv. 240099).
10.4. Inoltre, secondo la giurisprudenza di legittimità, grava infine sulla parte che invoca l’applicazione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare l’onere di fornire la prova della esistenza di una connessione qualificata e della desumibilità dagli atti del fatto oggetto della seconda ordinanza già al momento dell’emissione del primo provvedimento (Sez. 3, n. 18671 del 15/01/2015, COGNOME, Rv. 263511; Sez. 2, n. 6374 del 28/01/2015, COGNOME, Rv. 262577, in cui la Corte ha precisato che, a tal fine, la parte
deve provare il deposito, all’interno del procedimento nel quale è stata emessa la prima ordinanza e al momento di emissione della stessa, dell’informativa finale della polizia giudiziaria, contenente il compendio dei risultati investigativi, ovvero di note di Polizia Giudiziaria, rispetto alle quali la successiva informativa finale non presenti elementi di novità).
11. Ciò posto, osservato che il ricorrente non ha indicato in alcun modo quando sarebbero scaduti i termini della prima ordinanza, né ha provato il deposito dell’informativa finale della polizia giudiziaria, contenente il compendio dei risultati investigativi, ovvero di note di Polizia Giudiziaria, rispetto alle quali la successiva informativa finale non presenti elementi di novità, con conseguente genericità del ricorso, si deve ribadire che il Tribunale cautelare ha argomentato il provvedimento di rigetto sulla base di una motivazione scevra da vizi logici o giuridici, essendosi attenuto ai principi sopra richiamati.
Ha, infatti, correttamente escluso la sussistenza del requisito della desumibilità dagli atti degli elementi posti a fondamento del secondo titolo cautelare al momento della emissione del primo titolo cautelare, atteso che detti elementi sono stati sottoposti all’ufficio requirente solo con l’informativa di reato in data 22 maggio 2020 (quindi successivamente alla adozione del primo titolo cautelare).
E tanto conformemente ad un consolidato orientamento di legittimità, in base al quale il momento in cui dagli atti possono desumersi i gravi indizi di colpevolezza non coincide con la ricezione da parte del pubblico ministero della informativa di reato, ma con quello in cui il suo contenuto possa considerarsi recepito, avendo riguardo al tempo obiettivamente occorrente per enuclearne ed apprezzarne la valenza indiziaria (Sez. 6, n. 44371 del 10/10/2024, COGNOME, non mass.; Sez. 6, n. 54452 del 06/11/2018, Tedde, Rv. 274752; Sez. 6, n. 48565 del 06/10/2016, Commisso, Rv. 268391), attraverso una lettura ponderata del relativo materiale (Sez. 1, n. 12906 del 17/03/2010, Cava, Rv. 246839).
Sul punto, si è evidenziato che la nozione di anteriore “desumibilità” dagli atti inerenti alla prima ordinanza cautelare delle fonti indiziarie, poste a fondamento dell’ordinanza cautelare successiva, consiste non nella mera conoscibilità storica di determinate evenienze fattuali, ma nella condizione di conoscenza derivata da un determinato compendio documentale o dichiarativo che consenta al pubblico ministero di esprimere un meditato apprezzamento prognostico della concludenza e gravità degli indizi, suscettibile di dare luogo, in presenza di concrete esigenze cautelari, alla richiesta e alla adozione di una nuova misura cautelare (Sez. 3 n. 48034 del 25/10/2019, COGNOME, Rv. 277351-02).
Alla stregua di quanto precede, il percorso argomentativo seguito dal Tribunale del riesame per negare la sussistenza dei presupposti normativi della retrodatazione della
seconda misura custodiale applicata al ricorrente deve ritenersi adeguatamente motivato con riferimento alla mancanza del requisito della desumibilità dagli atti del primo procedimento. Al riguardo si osserva che nella ordinanza di custodia cautelare n. 481/2019, eseguita il 19 settembre 2019, il giudice per le indagini preliminari si è limitato a riportare sinteticamente le dichiarazioni dei soli collaboratori di giustizia COGNOME NOME e COGNOME NOME, ma ai soli fini del riconoscimento della aggra vante dell’essere il fatto commesso da un appartenente alla associazione ex art. 416 bis cod. pen. (v. p. 13), per la cui operatività non è necessario che l’appartenenza dell’agente a un’associazione di tipo mafioso sia accertata con sentenza definitiva, ma è sufficiente che tale accertamento sia avvenuto nel contesto del provvedimento di merito in cui si applica la citata aggravante.
Si deve ricordare, a tale riguardo, che non è sufficiente che, entro i limiti temporali suddetti – riferiti alla data del rinvio a giudizio nel caso di reati connessi – sia stata acquisita e risulti dagli atti la mera notizia del fatto-reato oggetto della seconda ordinanza, essendo invece indispensabile che sussista un quadro indiziario legittimante l’adozione delle misure cautelari successivamente applicate allo stesso indagato, essendo, quest’ultimo, soggetto all’onere di allegazione degli elementi dai quali desumere l’applicabilità della retrodatazione da lui invocata (Sez. U, n. 9 del 25/06/1997, Atene, Rv. 208167).
Non vale, peraltro, l’osservazione difensiva secondo la quale il P.M., sin dal settembre 2019, aveva piena conoscenza dell’intero materiale investigativo, soprattutto perché tale osservazione non tiene conto delle necessità di valutare congiuntamente la posizione del ricorrente a quella degli altri indagati nell’ambito di un contesto unitario, dal momento che si procede per un reato associativo (mentre oggetto della prima ordinanza è una tentata estorsione, il cui procedimento ha preso avvio dalla denuncia sporta il 2 settembre 2019 da Castellone Ruggiero); per altro verso, la critica difensiva finisce con l’esaminare separatamente le singole iniziative del Pubblico ministero, senza una visione d’insieme dei risultati investigativi (nella ordinanza cautelare relativa al delitto associativo, a p. 119 si fa r iferimento anche alle dichiarazioni di NOME NOME dell’8 luglio 2020, addirittura successive all’informativa di reato depositata in data 22 maggio 2020, a riprova della fluidità del materiale indiziario e della sua concreta disponibilità e conoscibilità da parte del PM anche in epoca successiva alla adozione della prima ordinanza), invece necessaria per il giudizio di gravità indiziaria in materia di reati associativi (Sez. 6, n. 1657 del 16/10/2024, dep. 2025, COGNOME, non mass.).
Quanto alla connessione, il Tribunale ha rilevato che il reato associativo era contestato sino al 2018 (con contestazione chiusa) mentre l’estorsione oggetto della seconda ordinanza era del 26 agosto 2019 (pag. 9); che era stato sostenuto in modo del tutto generico che le estorsioni fossero state programmate sin dalla costituzione del sodalizio (pag. 11). Le considerazioni del Tribunale hanno quindi correttamente applicato il principio secondo il quale in tema di misure cautelari la continuazione tra reato
associativo mafioso e reati fine, aggravati dalla finalità mafiosa, rilevante, ai sensi dell’art. 297 cod. proc. pen., ai fini della retrodatazione del dies a quo della custodia cautelare, si configura solo quando i reati fine sono stati già programmati, quanto meno nelle loro linee essenziali, sin dal momento della costituzione del sodalizio criminoso (Sez. 5, n. 49224 del 06/06/2017, NOME, Rv. 271477).
Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
Non conseguendo dall’adozione del presente provvedimento la rimessione in libertà degli indagati, deve provvedersi ai sensi dell’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi proposti e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso in Roma il 26 giugno 2025