Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 29557 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 29557 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 02/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a Rosarno (RC) il 02/12/1952 avverso l’ordinanza del 12/09/2024 del Tribunale di Reggio Calabria in funzione di giudice dell’appello cautelare; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
sentite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che si è riportata alla requisitoria in atti e ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. COGNOME NOME, in custodia cautelare in carcere dal 14 aprile 2021, in quanto gravemente indiziato del delitto di cui agli artt. 99 e 416bis , commi 1, 2, 3, 4, 5 e 6, cod. pen. (ovvero della partecipazione, con ruolo dirigente, all’associazione di stampo mafioso denominata cosca COGNOME, curando rapporti con altre consorterie, promuovendo il settore estorsivo e impartendo direttive ai sodali), già condannato in primo grado a sedici anni di reclusione per tale reato, ha chiesto, ai sensi dell’art. 299 e dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., alla Corte d’appello di Reggio Calabria, la sostituzione della misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari, anche con braccialetto elettronico.
La Corte d’appello ha rigettato la richiesta con ordinanza del 16 luglio 2024, considerando prevalenti -rispetto alle argomentazioni difensive, incluse quelle basate sull’età dell’imputato (superiore ai settant’anni) e alle sue condizioni di
salute -le “eccezionali esigenze di cautela” sussistenti nella specie, per essere le condotte ascritte al Pesce di “eccezionale gravità” e di particolare allarme sociale, tali da comportare il concreto pericolo di reiterazione del reato.
Il Tribunale di Reggio Calabria, con ordinanza del 12/9/2024, depositata il 13/9/2024, ha rigettato l’appello del COGNOME, ribadendo l’eccezionale rilevanza delle esigenze cautelari, in ragione de lla posizione di spicco rivestita dall’imputato nell’organizzazione criminale, oltre che di un suo precedente specifico, seppur risalente.
COGNOME NOME ha proposto ricorso per Cassazione, chiedendo l’annullamento dell’ordinanza impugnata, corredata -a suo dire -da una motivazione apparente o comunque viziata e resa in violazione dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen.
Sostiene che siano state sottovalutate la presunzione di non adeguatezza della custodia in carcere per gli ultrasettantenni (prevalente su quella di esclusiva adeguatezza della custodia in carcere per chi sia accusato di associazione mafiosa, ex art. 275, comma 3, cod. proc. pen.) e le precarie condizioni fisiche. La detta presunzione in bonam partem avrebbe potuto essere superata solo in ragione di elementi concreti, specifici ed attuali attestanti la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, ossia di una pericolosità sociale particolarmente elevata e di tale intensità da non essere altrimenti fronteggiabile: laddove sul punto sarebbe stata formulata una motivazione apparente, ancorata al mero titolo di reato contestato e a considerazioni generiche.
Specificamente, col ricorso si sollevano le seguenti doglianze.
3.1. Si contesta, anzitutto, il ruolo verticistico ascritto all’imputato.
La difesa ha evidenziato l’illogicità e la manifesta contraddittorietà del provvedimento nel desumere il ruolo apicale del ricorrente dalla vicenda estorsiva ai danni dell’imprenditore NOME COGNOME. Ha sostenuto che il rendiconto fatto da COGNOME NOME cl. 93 al sodale COGNOME NOMECOGNOME circa il comportamento del ricorrente durante un summit , rivelasse in realtà le difficoltà di COGNOME NOME nel comprendere le dinamiche della cosca e il suo lamento per “non essere stato considerato” (espressione tipica di chi si senta escluso dalla gestione della cosca).
Dalla conversazione tra COGNOME NOME e NOME emergerebbe il ruolo di vittima di estorsioni, in capo al ricorrente, non certo quello direttivo.
Non si sarebbe, infine, adeguatamente considerato che l’COGNOME, per fronteggiare le richieste estorsive, non si fosse rivolto al ricorrente per esserne tutelato (nonostante il vincolo di parentela), bensì ad altri personaggi vicini alla
cosca: ciò che confermava l’assenza di potere in capo a COGNOME Vincenzo .
3.2. Si deduce, poi, la mancanza di concreti, specifici e attuali elementi di eccezionale pericolosità, atti a giustificare la misura.
Si contesta fossero stati indicati elementi da cui desumere l’affermata sussistenza, in capo al ricorrente, di una “poliedrica capacità criminale” e della “diretta disponibilità di uomini da comandare”. A tal riguardo, la difesa ha evidenziato la quasi totale assenza di precedenti giudiziari significativi a carico del ricorrente e la sua estraneità alle numerose operazioni di polizia che avevano interessato la cosca, ivi inclusa quella denominata “All RAGIONE_SOCIALE“, nonostante la stessa si giovasse dell’apporto di collaboratori di giustizia interni alla cosca.
Si rimarca il lungo “tempo silente” prima dei fatti di cui al presente procedimento, contestati dal 2011, essendo riferito al 1989 l’unico precedente per associazione mafiosa.
La difesa ha evidenziato che COGNOME NOME non avesse una “discendenza titolata” e fosse soltanto figlio di un cugino di terzo grado del capostipite e che non risultasse coinvolto in alcuno degli oltre cento reati-fine contestati all’associazione mafiosa nel presente giudizio, non essendo emerso un solo sodale che lo avesse coadiuvato nel suo asserito ruolo verticistico.
Il dialogo del dicembre 2012 nello studio del commercialista COGNOME, isolato e datato, non poteva supportare una pericolosità sociale attuale.
3.3. Si afferma, ancora, l’i nadeguatezza della motivazione sui pericoli di reiterazione del reato e di fuga in regime di custodia domiciliare.
La difesa sottolinea che l’utilizzo di strumenti di controllo elettronico, la notevole distanza del luogo proposto per la detenzione domiciliare (a Torgiano, in Umbria) da quello di operatività dell’associazione e le pessime condizioni di salute del ricorrente (affetto da “rettocolite ulcerosa in fase attiva” e problemi alla ghiandola prostatica) ridurrebbero significativamente le occasioni di recidiva e fuga e, in generale, la possibilità di contatti illeciti. È stata criticata la motivazione sul pericolo di fuga, fondata su generici “contatti con i membri ancora in libertà” e sulle “abilità” della cosca nell’aiutare la latitanza, elementi ritenuti insufficienti a giustificare il diniego degli arresti domiciliari in luogo distante da quello in cui la cosca opera. Si richiama giurisprudenza di legittimità a supporto dell’istanza .
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e, per alcuni profili, inammissibile.
Il Tribunale di Reggio Calabria ha rigettato l’appello di COGNOME NOME
avverso il mantenimento della custodia cautelare in carcere, motivando la decisione con la sussistenza di esigenze cautelari di “eccezionale rilevanza”.
Tali esigenze derivano principalmente dalla sua posizione di spicco e dal ruolo verticistico all’interno della cosca COGNOME, dalla sua “spiccata pericolosità sociale” e dalla pressoché certa reiterazione del reato, elementi che sono stati ritenuti prevalenti sul dato anagrafico (avendo il ricorrente superato i 70 anni) e sulle condizioni di salute (p. 6 provvedimento impugnato). Tanto, dunque, non solo in ragione del mero titolo di reato (come erroneamente sostiene parte ricorrente), ma delle concrete modalità di sua esecuzione, e dunque, anzitutto, per la “posizione di spicco” dell’imputato all’interno dell’organizzazione criminale di appartenenza, tale da renderne, come detto, certa la reiterazione, in caso di revoca dell’unica misura ritenuta idonea a fronteggiare tale evenienza.
Il Tribunale ha ribadito – sulla base di elementi (tra cui le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, NOME Vincenzo, ma soprattutto alcuni dialoghi intercettati, ritenuti assolutamente inequivoci) espressamente indicati nella ordinanza impugnata, e di cui non è dedotto il travisamento e che, evidentemente, non possono essere oggetto di diversa valutazione in questa sede, come noto – il ruolo verticistico all’interno della cosca COGNOME, rivestito dal ricorrente. Si rammenta, in particolare, il suo coinvolgimento diretto nella gestione della distribuzione alimentare e della vicenda inerente NOME COGNOME (avente natura estorsiva, nella quale, secondo l’interpretazione del Tribunale, il ricorrente ha esercitato i suoi poteri, rivendicando il suo ruolo di vertice), e la sua collocazione, da parte del menzionato collaboratore di giustizia, al vertice della consorteria: avendolo lo stesso descritto come persona che ‘contava molto’, che interveniva per risolvere questioni che riguardavano anche le altre consorterie del territorio rosarnese, come quella dei COGNOME, e che aveva uno stretto rapporto con COGNOME COGNOME, esponente apicale della omonima cosca (p. 4 dell’ordinanza impugnata).
Anche la sentenza di primo grado, di condanna del COGNOME a 16 anni di reclusione, per il reato associativo in questione, richiamata nella ordinanza impugnata, rimarca tali dati, evidenziando, in particolare, come il detto collaboratore di giustizia avesse indicato il ricorrente ‘quale refe rente di una specifica area territoriale, capace di interfacciarsi con altri capi cosca’, in possesso della ‘diretta disponibilità di uomini da comandare’ (p. 4 ordinanza impugnata).
La precedente condanna definitiva per associazione mafiosa, seppur risalente nel tempo, è stata ritenuta (sempre dal Tribunale) confermativa della “pericolosità decisamente spiccata e refrattaria all’osservanza delle prescrizioni”, in capo al ricorrente (sempre p. 4 ordinanza impugnata).
Il Tribunale, dunque, ha desunto dai detti elementi la ‘proteiforme capacità a delinquere del Pesce e la sua elevata propensione ad estendere i tentacoli del proprio agire criminoso a settori sempre più differenziati’, ‘altamente indicativa della sua assoluta imprevedibilità e della sua magmatica pericolosità sociale, evocative della sua evidente incapacità di contenere gli irrefrenabili input alla violazione delle norme penali provenienti dal contesto sociale, territoriale, familiare nel quale si sono sviluppati i fatti contestatigli ‘ (p. 5 dell’ordinanza impugnata).
Il Tribunale ha concluso, dunque, il modo del tutto logico e conseguente, che, a fronte dei detti elementi, il tempo decorso dai fatti e quello in regime carcerario, l’età del ricorrente e le sue condizioni di salute lamentate (rettocolite ulcerosa in fase attiva e problematiche prostatiche, che, peraltro, non presentavano alcuna difficoltà di gestione terapeutica in ambito carcerario: p. 7 ordinanza impugnata) non potessero prevalere sulle esigenze cautelari eccezionali anzidette.
E, sempre con valutazione razionale e immune da vizi di sorta, l’ordinanza impugnata ha rimarcato come la disponibilità del ricorrente al l’utilizzo del braccialetto elettronico e al trasferimento in Umbria non fossero sufficienti a mitigare l’elevatissimo rischio di reiterazione del reato. Tali strumenti, infatti, secondo il provvedimento impugnato, non impedirebbero al ricorrente la comunicazione con l’esterno e, dunque, la persistenza e la coltivazione dei legami mafiosi, al fine di continuare a svolgere il ruolo apicale all’interno della consorteria malavitosa.
Il Tribunale ha, in tal modo, aderito all’orientamento -condiviso dal collegio -secondo cui l’attenuazione delle esigenze cautelari non può essere desunta dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura o dall’osservanza delle prescrizioni. Per quanto riguarda il “tempo silente” (e, in particolare, il lasso di tempo tra il fatto e la misura in essere), questo non costituisce di per sé prova di un irreversibile allontanamento dal sodalizio, ma può essere valutato solo in via residuale, insieme ad altri elementi denotanti la recisione del legame associativo. Invero, in relazione all’accusa di partecipazione ad associazioni mafiose ‘storiche’, il cosiddetto ‘tempo silente’ – ovvero la remota datazione degli ultimi episodi indicanti una siffatta partecipazione, rispetto al momento di applicazione della misura – ha, di per sé scarso significato, non potendosi per ciò solo ritenere che sia vinta la detta presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, ove non ricorrano elementi idonei a far ritenere che vi sia stato il recesso dell’indagato dall’associazione (così Sez. 5, n. 16434 del 21/02/2024, Rv. 286267-01; confronta, negli stessi termini, tra le tante: Sez. 2, n. 47120 del 04/11/2021,
Attento, Rv. 282590-01, Sez. 2, n. 38848 del 14/07/2021, Giardino, Rv. 28213101, Sez. 2, n. 21106 del 27/04/2006, Rv. 234657-01 e Sez. 6, n. 1330 del 10/04/1998, Rv. 210537-01).
Del resto, anche le sentenze che hanno valorizzato il cosiddetto ‘tempo silente’, lo hanno fatto in contesti nei quali questo non era certamente l’unico elemento a favore dell’accusato (Sez. 6, n. 31587 del 30/05/2023, Gargano, Rv. 285272-01, ad esempio, ha rilevato l’importanza del dato allorché si tratti di un reato istantaneo, non permanente e men che meno associativo mafioso, sicché, in tali casi, venendo meno la permanenza ha certamente senso dare rilievo al tempo decorso).
Ad ogni modo, reputa il collegio che, pur senza la formulazione di regole assolute, la norma secondo cui nei riguardi di chi sia gravemente indiziato in ordine ai delitti di cui agli articoli 270, 270bis e 416bis cod. pen. vada «applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari», debba essere contestualizzata e rapportata alle circostanze del caso concreto: sicché, quanto più intensa, lunga e qualitativamente elevata (ad esempio, verticistica) è la partecipazione dell’associato e quanto più radicata nel territorio è l’associazione mafiosa, tanto meno può avere, in sé, rilievo il decorso del tempo e viceversa. Pertanto, in singoli casi in cui il vincolo o il collegamento con l’associazione mafiosa, per le sue caratteristiche concrete, risulti non saldo e stabile, il tempo decorso dai fatti, specie se particolarmente lungo, ben può avere un suo rilievo.
Nella specie, tuttavia, per le caratteristiche del caso – ruolo apicale del ricorrente, lunghissima sua militanza associativa (attestata dalla remota analoga accusa pregressa), associazione ben radicata nel tempo sul territorio – è evidente che, in modo logico, il rilievo del tempo in concreto decorso, l’età del ricorrente e la sua manifestata intenzione di recarsi altrove agli arresti domiciliari, consentendo il controllo a distanza, siano stati ritenuti inidonei ad affievolire le esigenze cautelari, considerata l’impossibilità di impedire al ricorrente il prevedibile esercizio dei suoi rilevanti poteri, nell’ambito del’associazione, a distanza.
E si tratta di valutazione non censurabile in questa sede.
Va, infatti, ribadito che in sede di legittimità, ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., è possibile esaminare il rapporto tra motivazione e decisione, non certo tra prove e decisione, essendo la valutazione del compendio probatorio riservata al giudice di merito: non potendosi, dunque, chiedere l’ adesione a un’ipotesi alternativa, ancorché plausibile come quella sposata nel provvedimento impugnato. Sono, pertanto, ammissibili solo censure per omissioni motivazionali, contraddizioni o illogicità manifeste e decisive: laddove, cioè, la ricostruzione
alternativa proposta dal ricorrente sia inconfutabile e l’unica plausibile (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944-01; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205621-01; Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504-01; Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, Rv. 278609-01), e non rappresenti solo un’ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza (Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020, dep. 2021, Rv. 280589-02).
Anche il travisamento della prova -la valorizzazione di un dato inesistente o l’omessa valutazione di uno esistente, in quanto il relativo contenuto testuale (“significante”), e non la sua interpretazione (“significato”), sia erroneamente riportato -può essere oggetto di valutazione in questa sede solo se comprometta in modo decisivo la tenuta logica della motivazione (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085-01; Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Rv. 274816-07; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Rv. 249035-01).
Si tratta di principi affermati più volte anche in materia cautelare: si vedano Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Rv. 215828-01, Sez. 3, n. 7268 del 24/01/2019, Rv. 275851-01 e Sez. 2, n. 9212 del 02/02/2017, Rv. 269438-01 (circa l’incensurabilità della valutazione sulla gravità indiziaria), nonché Sez. 3, n. 7268 del 24/01/2019, Rv. 275851-01 e Sez. 6, n. 17314 del 20/04/2011, Rv. 25009301 ( circa l’incensurabilità della valutazione sulle esigenze cautelari e sulla adeguatezza della misura).
Ad ogni modo, nulla di specifico e decisivo a smentire l’ulteriore – ed autosufficiente – argomento posto a sostegno della ordinanza impugnata si legge nel ricorso in esame, in relazione al paventato pericolo di fuga.
Invero, secondo il logico assunto del Tribunale, a fronte dell’elevata pena irrogata in primo grado (sedici anni di reclusione), risulta concreto anche il pericolo di fuga, tanto più considerato che il ricorrente ben potrebbe giovarsi dei contatti con membri ancora in libertà dell’associazione e delle “abilità” maturate dalla cosca nel fornire appoggi e complicità per sottrarsi all’autorità giudiziaria, anche grazie a disponibilità economiche illecite.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. , alla declaratoria di rigetto segue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Trattandosi di provvedimento da cui non consegue la rimessione in libertà del detenuto, una sua copia va trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario perché provveda a quanto stabilito dal comma 1bis dell’art. 94 disp. att. cod. proc. pen. (ai sensi del comma 1ter del medesimo articolo).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così è deciso, 02/07/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME