Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 45866 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 45866 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 30/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti nell’interesse di NOME COGNOME nato a Pollena Trocchia il 16/09/1988 NOMECOGNOME nato ad Acerra il 05/06/1960
avverso la sentenza del 05/03/2024 della Corte di appello di Napoli visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
sentite le richieste del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo che i ricorsi vengano dichiarati inammissibili.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia emessa in data 24 maggio 2022 dal Tribunale di Noia, ha escluso la continuazione tra le varie condotte estorsive oggetto di contestazione, con conseguente rideterminazione della pena, confermando nel resto la condanna di NOME COGNOME e NOME COGNOME per il reato di cui agli artt. 56110-629 cod. pen.
Hanno proposto ricorso per cassazione i suddetti imputati, con un unico atto a mezzo del proprio comune difensore, formulando un articolato motivo di impugnazione, con cui si lamenta, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione,
la mancata motivazione, nonostante specifico motivo di gravame, in ordine ai criteri per cui la fotografia digitale, tratta dal programma di messaggistica Whatsapp, che avrebbe costituito prova liberatoria (raffigurando NOME COGNOME con barba folta, mentre la persona offesa aveva descritto viceversa l’estorsore come soggetto con un mero accenno di barba non rasata) era stata ritenuta alterata nella data e nell’ora riportata;
il parallelo travisamento di una prova a carico, avendo ritenuto certo il riconoscimento fotografico dell’imputato suddetto, laddove il dichiarante, invero, lo avrebbe riconosciuto in effigie il ricorrente solo «al 90%»;
l’omessa valutazione dei motivi di gravame relativi alla inidoneità della minaccia proferita da NOME COGNOME ad integrare il delitto di estorsione, sottolineando la genericità dell’espressione adoperata («restituisci i soldi… tu sai come noi agiamo») e all’erronea affermazione della compresenza del figlio NOME, così automaticamente imputandogli un concorso morale;
la mancata qualificazione dei fatti come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, dovendosi, al contrario, avere presente che NOME COGNOME intervenuto a sollecitare il pagamento di un debito nei confronti del genero – non ha mai manifestato alla persona offesa un interesse proprio.
All’odierna udienza pubblica, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono fondati, limitatamente alle censure in tema di qualificazione giuridica dei fatti, e sono inammissibili nel resto.
Le censure relative al («triplice») riconoscimento di NOME COGNOME, in primo luogo, sono insuperabilmente generiche, omettendo di misurarsi con l’effettivo GLYPH tenore GLYPH della GLYPH motivazione GLYPH che, GLYPH previo GLYPH adeguato GLYPH scrutinio dell’attendibilità della persona offesa, riporta la precisazione di quest’ultima che l’imputato, al momento dei fatti aveva una barba più corta di quella rappresentata in effigie, unendovi solo l’elementare considerazione – affatto diversa dalla lamentata affermazione di falsità – per cui, in ogni caso, l’applicativo farebbe fede della data di invio dell’immagine e non di quella in cui la foto era stata scattata.
La frase minacciosa estrapolata dai ricorrenti (già di per sé non poco significativa, se adeguatamente contestualizzata), inoltre, non può non essere valutata, come correttamente fatto nella sentenza impugnata, nell’ambito dell’intera vicenda, che ha visto anche l’aggressione fisica della persona offesa. I profili di censura sul punto sono, dunque, anch’essi aspecifici e manifestamente infondati.
Per quanto attiene alla presenza di NOME COGNOME in compagnia del figlio il 17 gennaio 2020, infine, la questione, schiettamente fattuale, non risulta previamente dedotta in appello (cfr. atto di gravame, ove – p. 6 – si ribadisce, al contrario, che entrambi gli imputati, coerentemente con la natura concorsuale dell’imputazione, «hanno manifestato alla persona offesa che il loro intervento era finalizzato al pagamento del debito») e, pertanto, non può avere accesso nel giudizio di legittimità, ai sensi degli artt. 606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen.
Ciò premesso, quanto, invece, alla invocata sussunzione della vicenda per cui si procede nella fattispecie di cui all’art. 393 cod. pen., giova richiamare preliminarmente l’insegnamento del massimo consesso nomofilattico (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME, Rv. 280027-03, citata da entrambi i giudici di merito, che non ne hanno però rispettato appieno la concreta portata ermeneutica): il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile qualora questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità.
Più in particolare, seguendo il fluido argomentare delle Sezioni Unite, «la materialità dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione non appare esattamente sovrapponibile (così Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016, COGNOME, Rv. 267123), poiché soltanto ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica di estorsione è normativamente richiesto il verificarsi di un effetto di “costrizione” della vittima, conseguente alla violenza o minaccia, queste ultime costituenti elemento costitutivo comune ad entrambi i reati (art. 392 cod. pen.: “mediante violenza sulle cose”; art. 393 cod. pen.: “usando violenza o minaccia alle persone”; art. 629 c.p.: “mediante violenza o minaccia”). I reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni si caratterizzano per il fatto che soggetto che vanta la titolarità di un preteso diritto, e per tale ragione potrebbe “ricorrere al giudice”, acquisisce la c.d. legittimazione al reato in quanto la sua qualifica limita la meritevolezza di un trattamento processuale e sanzionatorio indiscutibilmente di favore; detto trattamento di favore non si pone in contrasto
con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.), trovando ragionev giustificazione nella tutela di un interesse che lo legittima. Deve, concludersi che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con viole minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di u profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddis personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nel piena consapevolezza della sua ingiustizia. Ai fini dell’integrazione del d di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente colt dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tu apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in quals modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con que privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un d con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicament (Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 263589; Sez. 2, n 46288 del 28/06/2016, COGNOME, Rv. 268362). Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela priva realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. del 16/05/2014, COGNOME, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, COGNOME, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione del legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in i suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2 Salute, Rv. 269967). L’elemento psicologico del reato di esercizio arbitr delle proprie ragioni con violenza alle persone e quello del reato di estors vanno accertati secondo le ordinarie regole probatorie . La giurisprudenza questa Corte ha tradizionalmente affermato che, per configurare il reato esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercit preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ric incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto pro ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985 Corte di Cassazione – copia non ufficiale
4 GLYPH
hill7
COGNOME, Rv. 171209); qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 cod. pen. nella previsione dell’art. 393 stesso codice – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 cod. pen. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, COGNOME, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, COGNOME, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, COGNOME, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, COGNOME, Rv. 255651). Di conseguenza, se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto c i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratt giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni».
A fronte di tale nitida perimetrazione degli elementi rilevanti per la distinzione tra le due fattispecie incriminatrici, non emerge dalla ricostruzione in fatto operata dai giudici di merito:
l’effettiva natura e i precisi profili soggettivi del rapporto di credito-debit ipoteticamente sussistente tra NOME COGNOME e COGNOME
la sussistenza o meno di un autonomo fine di profitto, non equiparabile a un mero intervento a sostegno esclusivo delle ragioni del terzo.
5.1. Invero, quanto alla esposizione debitoria che sarebbe a monte dell’intera vicenda, il capo di imputazione opera un sintetico riferimento alla qualità della persona offesa di erede del titolare di un’impresa, RAGIONE_SOCIALE, di cui non si precisa la forma soggettiva, oltre che di amministratore unico di una società commerciale (RAGIONE_SOCIALE, solo anodinamente citata; del pari, il presunto creditore è identificato in NOME COGNOME, quale «titolare della ditta COGNOME RAGIONE_SOCIALE», senza ulteriori chiarimenti.
La carenza di più precise indicazioni idonee a delineare, secondo la normativa privatistica, le effettive posizioni creditorie e debitorie – che potrebbero anche risolversi in una mera obbligazione naturale o in un rapporto negoziale efficace solo rispetto ad altre persone, fisiche o giuridiche – non è stata superata dall’esposizione dei fatti riportata nelle due sentenze di merito.
Il Tribunale accenna alle discrasie in tema di individuazione dell’originario debitore e al rilascio di cambiali rimaste insolute, reputando «la vicenda creditoria poco rilevante» rispetto all’oggetto del giudizio (p. 11). La Corte territoriale si limita a ricordare «la richiesta di onorare il debito contratto da padre dello COGNOME nei confronti del COGNOME» (p. 4).
Resta, dunque, priva di compiuto accertamento la tutelabilità in giudizio (quantomeno nella ragionevole previsione degli agenti, autosostituitisi agli strumenti offerti dall’ordinamento all’avente diritto) della pretesa creditoria avanzata brutalmente dagli imputati, puntualmente individuata nelle sue coordinate oggettive e soggettive. Parimenti insondata appare anche l’eventuale sussistenza di un mandato, espresso o implicito, in ordine alla riscossione da parte di COGNOME.
5.2. L’ipotesi accusatoria, come cristallizzata nell’imputazione, prescinde dalla possibilità che la pressante attività di recupero crediti avrebbe potuto essere oggetto di un’azione giudiziaria e, pertanto, non annovera tra gli autori il presunto creditore NOME COGNOME (non riconducibile, evidentemente, agli altri còrrei «allo stato non identificati»). Tutta la rilevanza penale della vicenda è fatta derivare da un motu proprio dei due odierni ricorrenti, attivatisi sulla base di un proprio personale interesse.
Nella sentenza di primo grado, la questione è risolta sulla base della posizione di «creditore “mediato”» attribuita a NOME COGNOME, avendo costui «prestato del danaro al genero COGNOME NOME, trovatosi in difficoltà economica a causa dei ritardi nei pagamenti dello COGNOME. Dunque, non potrebbe escludersi, sulla scorta delle dichiarazioni dello stesso imputato e del teste a discarico, che il COGNOME perseguisse una finalità propria ed egoistica, id est il rientro del danaro prestato al COGNOME» (p. 16. D’altronde, a p. 11, si era fatto riferimento alla fattiva intermediazione di NOME COGNOME nelle trattative per il recupero del credito, anche mediante atti novativi). I giudici di appello rilevano che la condotta intimidatrice era stata posta in essere «da soggetti estranei al rapporto sottostante ma, per di più da chi agiva anche nel proprio interesse avendo, a sua volta, il COGNOME prestato denaro al creditore», in tal modo agendo «spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche di natura non patrimoniale» (pp. 4-5).
In buona sostanza, la doppia conforme motivazione evidenzia l’estraneità degli imputati al rapporto contrattuale da cui discendeva la posizione debitoria di cui si intimava la definizione, nonché la sussistenza di un interesse proprio di NOME COGNOME (derivante da un pregresso suo prestito in favore del creditore della persona offesa, di modo che l’adempimento di tale obbligazione avrebbe
consentito – in via mediata – anche al ricorrente di recuperare la somma precedentemente elargita).
Tali conclusioni postulano un indebito appiattimento del dolo specifico previsto dall’art. 393 cod. pen. (onde escludere l’applicabilità di tale norma incriminatrice) rispetto al movente che ha determinato la condotta dei due imputati.
Questi due elementi psichici, entrambi connotati finalisticamente, dolo specifico e movente, hanno ciascuno la propria rilevanza giuridica, specifica e non sovrapponibile (cfr. Sez. 7, Ord. n. 9439 del 06/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278872-01, in motivazione, in tema di reati tributari, secondo cui «il movente dell’azione è la causa diretta che spinge una persona a compiere una determinata azione, perlopiù criminosa o illecita, diversamente il fine dell’azione è lo scopo cui è preordinata la commissione di un determinato illecito. Nella specie, trattandosi di reato a dolo specifico è irrilevante il movente che può aver spinto l’imputato alla condotta di occultamento e distruzione della contabilità (nella specie, come riconosciuto dallo stesso imputato, quello di truffare i clienti), mentre rileva esclusivamente il fine dell’azione, ossia, come più volte affermato da questa Corte, il fine specifico di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione fiscale di terzi»).
L’oggetto del dolo specifico – che si innesta sulla rappresentazione e volizione del fatto tipico – deve essere perimetrato in relazione al risultato diretto che l’agente si prefigge (un risultato la cui realizzazione esonda dalla fattispecie obiettiva). L’elemento soggettivo del delitto di ragion fattasi, in forma di dolo specifico, qualora perpetrato dal terzo concorrente, consiste nella finalità – che accompagna la condotta tipica e si manifesta in essa – di «esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare»; questo risultato, compiutamente individuato, costituisce il diretto obiettivo dell’azione delittuosa. Il dolo di legge s concreta e si esaurisce nella coscienza e volontà di porre in essere le violenze e le minacce al fine di esercitare un preteso diritto, così facendosi arbitrariamente ragione da sé, pur potendo ricorrere al giudice.
La motivazione ad agire, il cosiddetto movente (o motivi determinanti del reato; cfr. artt. 61, comma 1, n. 1, 62, comma 1, n. 1, e 133, comma 2, n. 1, cod. pen.), è, di per sé, affatto estranea alla nozione di dolo, seppure possa contribuire ad evidenziarlo probatoriarnente (cfr. Sez. 5, n. 2675 del 18/10/2021, dep. 2022, V., Rv. 282772), e può definirsi come la causa psichica, l’impulso, lo stimolo che hanno indotto l’individuo a delinquere.
Nel caso di specie, dunque, il coefficiente psichico rilevante ex artt. 42-393 cod. pen. a monte della condotta violenta e minacciosa nei confronti di NOME dovrebbe individuarsi nella finalità di ottenere da quest’ultimo l’adempimento
delle sue (allo stato ipotetiche) obbligazioni nei confronti di COGNOME. Oltre a tale scopo immediato, che è alla base dell’azione, vi sarebbe poi l’indubbia di porre conseguentemente il medesimo COGNOME nelle condizioni economiche di far fronte anche alle proprie, distinte personali posizioni debitorie nei loro confronti.
Tuttavia, questa causale ultima non è tale da assorbire completamente lo scopo immediato a cui miravano i ricorrenti e da identificarsi completamente con esso (allo stesso modo in cui è indifferente, se non per la parametrazione della gravità del reato e della capacità a delinquere del reo, che il ladro, fermo il fine di profitto, si riprometta di impiegare poi il denaro rubato nell’acquisto di motivazione in capo agli imputati (terzi debitores debitoris) stupefacenti o in opere di carità).
6. Occorre, dunque, accertare nella competente sede di merito, alla luce dei parametri ermeneutici sopra indicati, così da procedere alla corretta qualificazione giuridica dei fatti, in primo luogo, se la pretesa arbitrariamente coltivata (da COGNOME e) dai COGNOME fosse ragionevolmente suscettibile di ricevere tutela dall’ordinamento giuridico, e non risultasse in qualsiasi modo più ampia o diversa, e, in secondo luogo, se gli odierni imputati avessero perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, ovvero fossero stati spinti anche da un ulteriore fine di profitto proprio.
Nel caso che risultasse configurabile il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sarà necessario porre in essere ogni utile accertamento discendente dal diverso regime di procedibilità.
In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio, per la fondatezza del suddetto motivo di impugnazione. Le restanti censure enunciate nei ricorsi di NOME COGNOME e NOME COGNOME sono inammissibili .
Il Giudice del rinvio, che si individua in altra Sezione della Corte di appello di Napoli, nel procedere ad un nuovo esame della istanza difensiva, terrà conto dei rilievi sopra indicati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli.
Così deciso il 30 ottobre 2024
Il Consigliere estensore
La Presidente