Esercizio Arbitrario delle Proprie Ragioni: Quando la Difesa è Inammissibile
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sul reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, delineando i confini tra la legittima tutela di un diritto e la condotta penalmente rilevante. Il caso analizzato riguarda un individuo che, pur non essendo più proprietario di un immobile, ha continuato a impedirne il pieno godimento al legittimo acquirente. La Corte ha dichiarato il suo ricorso inammissibile, confermando la condanna e fornendo principi chiave sulla persistenza del reato e sull’infondatezza delle argomentazioni difensive.
I Fatti del Caso
La vicenda giudiziaria ha origine dalla condotta di un uomo, ex proprietario di alcuni terreni, che si opponeva alla presa di possesso da parte del nuovo titolare, il quale si era aggiudicato gli immobili in sede civile. Nonostante la cessione della proprietà fosse stata formalizzata, l’imputato ha posto in essere numerosi atti volti a ostacolare il diritto del nuovo proprietario, continuando a comportarsi come se il bene fosse ancora suo. La sua condotta, iniziata nel 2015, è proseguita anche durante il processo di primo grado. Condannato in Appello, l’uomo ha presentato ricorso in Cassazione, lamentando due principali violazioni: la mancata dichiarazione di prescrizione del reato e un’errata valutazione della sua responsabilità penale, sostenendo l’esistenza di un disguido nell’atto di assegnazione dell’immobile.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha respinto integralmente le tesi difensive, dichiarando il ricorso inammissibile per “manifesta infondatezza”. I giudici hanno stabilito che entrambi i motivi di appello erano privi di qualsiasi fondamento giuridico e fattuale. Di conseguenza, hanno confermato la decisione della Corte d’Appello, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende.
Le Motivazioni: Analisi dell’Esercizio Arbitrario delle Proprie Ragioni
La Corte ha basato la sua decisione su due pilastri argomentativi fondamentali, che smontano le pretese del ricorrente.
La Manifesta Infondatezza del Ricorso
In primo luogo, i giudici hanno sottolineato come le argomentazioni difensive fossero palesemente infondate. La Corte d’Appello aveva già accertato, sulla base di prove documentali inconfutabili prodotte sin dal primo grado, che l’imputato era pienamente consapevole di non essere più il proprietario dei terreni. Il verbale di consegna e immissione in possesso a favore della parte civile era chiaro, così come i numerosi atti lesivi posti in essere dall’imputato. La tesi di un “disguido” nell’atto di assegnazione è stata liquidata come una mera “versione alternativa” dei fatti, inammissibile in sede di legittimità, dove la Corte non può riesaminare il merito della vicenda ma solo verificare la corretta applicazione della legge.
La Persistenza del Reato e la Prescrizione
Il secondo punto cruciale riguarda la prescrizione. Il ricorrente sosteneva che il reato, contestato come commesso a partire dal 2015, fosse ormai estinto per il decorso del tempo. La Cassazione ha rigettato questa tesi, qualificando l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, nel caso specifico, come un reato continuato e tuttora in atto. Le condotte illecite non si sono esaurite con un singolo episodio, ma sono proseguite nel tempo, impedendo costantemente al nuovo proprietario l’esercizio del suo diritto di proprietà. Poiché l’illecito era ancora in corso, il termine di prescrizione non aveva nemmeno iniziato a decorrere pienamente, rendendo la relativa eccezione manifestamente infondata.
Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Pronuncia
Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale: non è possibile farsi giustizia da sé, nemmeno quando si è convinti di avere ragione. Chi ritiene di aver subito un torto deve rivolgersi all’autorità giudiziaria. La pronuncia chiarisce che la consapevolezza di non essere più titolare di un diritto (in questo caso, la proprietà) rende la condotta di ostacolo verso il nuovo titolare penalmente rilevante ai sensi dell’art. 392 c.p. Inoltre, la decisione sottolinea che un ricorso in Cassazione non può limitarsi a riproporre una versione dei fatti già smentita nei precedenti gradi di giudizio, ma deve basarsi su vizi di legge concreti e specifici. Infine, la qualificazione del reato come continuato e permanente ha conseguenze dirette sul calcolo della prescrizione, che decorre solo dal momento in cui la condotta illecita cessa definitivamente.
Quando un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza?
Un ricorso è dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza quando i motivi presentati sono palesemente privi di fondamento giuridico o fattuale, come nel caso in cui si riproponga una versione dei fatti già smentita dalle prove documentali nei precedenti gradi di giudizio.
Come si determina la prescrizione per un reato continuato come l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni?
Per un reato la cui condotta illecita si protrae nel tempo (reato continuato o permanente), il termine di prescrizione non inizia a decorrere dalla prima azione, ma dal momento in cui la condotta lesiva cessa definitivamente. Se il reato è considerato “tutt’ora in atto”, la prescrizione non è maturata.
È possibile difendersi dall’accusa di esercizio arbitrario sostenendo di aver agito per un errore o un disguido burocratico?
No, se le prove documentali dimostrano chiaramente la situazione giuridica reale (come l’avvenuto trasferimento di proprietà) e la consapevolezza dell’imputato di non essere più titolare del diritto. In tal caso, la tesi del “disguido” viene considerata una versione alternativa dei fatti, inammissibile per contestare la propria responsabilità.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 44387 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 44387 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a REGGIO CALABRIA il 24/04/1933
avverso la sentenza del 12/03/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
OSSERVA
ritenuto che i motivi di ricorso proposti nell’interesse di COGNOME Salvatore con i qual deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla mancata dichiarazio della prescrizione del reato di cui all’art. 392 cod. pen. e all’affermazione di responsabilità inammissibili per manifesta infondatezza;
considerato infatti, che la prima censura è manifestamente infondata, atteso che il reato continuato è contestato come commesso il 20 luglio 2015 e tutt’ora in atto e che le condotte risultano proseguite anche in pendenza del giudizio di primo grado (v. pag. 4 sentenza impugnata relativa alla condotta del 2019 e pag. 7 relativamente al perdurante impedimento del pieno esercizio del diritto di proprietà per il nuovo proprietario);
ritenuto che anche il secondo motivo è manifestamente infondato, avendo la Corte di appello dato atto dell’avvenuta produzione sin dal precedente grado di giudizio della documentazione necessaria per la decisione e delle pacifiche risultanze, attestanti il numero dei lotti dei terreni aggiudicati alla parte civile (pg. 6) e l’immissione nel possesso mater giuridico dell’immobile identificato nel lotto n. 5, risultante dal verbale di consegna immissione in possesso (pag. 7), nonché dei numerosi atti lesivi del godimento del bene posti in essere dall’imputato, benché consapevole di non essere più proprietario;
rilevato che i giudici di appello hanno anche chiarito che la tesi difensiva è smentita da documentazione in atti, la riproposizione della tesi di un disguido nell’atto di assegnazione risolve nella prospettazione di una versione alternativa, inammissibile in questa sede;
ritenuto, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 20/09/2024.