Esercizio Arbitrario delle Proprie Ragioni: Quando la Pretesa Diventa Reato
Recentemente, la Corte di Cassazione si è pronunciata su un caso che tocca un punto nevralgico del diritto penale: la distinzione tra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e altre, più gravi, figure criminose. Con l’ordinanza n. 10017/2024, i giudici hanno chiarito che l’elemento discriminante risiede nella natura della pretesa e nella consapevolezza dell’agente. Analizziamo questa importante decisione per comprendere meglio i confini tra l’autotutela illecita e la ricerca di un profitto ingiusto.
I Fatti alla Base del Ricorso
Il caso trae origine dal ricorso presentato da un imputato contro una sentenza della Corte d’Appello di Firenze. L’imputato sosteneva che la sua condotta dovesse essere inquadrata nel reato meno grave di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. A suo dire, aveva agito per far valere un proprio diritto, sebbene con modalità non consentite. Oltre a ciò, lamentava la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e di quella per danno di lieve entità.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo manifestamente infondato su tutti i fronti. I giudici hanno confermato in toto la valutazione della Corte d’Appello, fornendo una chiara spiegazione sui principi giuridici che regolano la materia e che hanno portato al rigetto delle istanze del ricorrente.
L’Analisi sull’Esercizio Arbitrario delle Proprie Ragioni
Il punto centrale della decisione riguarda il primo motivo di ricorso. La Cassazione ha ribadito che per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, è necessario che l’agente sia animato dal fine di esercitare un diritto che crede, ragionevolmente, di poter far valere davanti a un giudice. La sua pretesa deve coincidere perfettamente con l’oggetto della tutela offerta dall’ordinamento giuridico.
Nel caso di specie, invece, è emerso che l’imputato ha agito per procurarsi un “ingiusto profitto”. Egli era consapevole che quanto pretendeva non era giuridicamente azionabile. Questa consapevolezza fa venir meno l’elemento soggettivo tipico dell’esercizio arbitrario e sposta la condotta nell’alveo di reati più gravi, come l’estorsione. La differenza, come sottolineato dalla Corte richiamando un precedente delle Sezioni Unite, sta proprio qui: non si tratta più della sostituzione dello strumento pubblico con quello privato per tutelare un diritto, ma dell’imposizione di una pretesa che non ha fondamento legale.
Il Diniego delle Circostanze Attenuanti
Anche gli altri due motivi di ricorso sono stati respinti. Per quanto riguarda le attenuanti generiche, la Corte ha ricordato che, secondo un orientamento consolidato, il giudice di merito non è tenuto a un’analisi minuziosa di tutti gli elementi, ma è sufficiente che motivi il diniego facendo riferimento agli aspetti ritenuti più rilevanti.
Analogamente, la richiesta di applicazione dell’attenuante per il danno di speciale tenuità (art. 62 n. 4 c.p.) è stata giudicata infondata, poiché la Corte d’Appello aveva correttamente motivato il suo diniego basandosi sul “rilievo del pregiudizio arrecato”, ritenuto non trascurabile.
Le Motivazioni della Decisione
La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso inammissibile perché le argomentazioni proposte erano una semplice riproposizione di censure già esaminate e correttamente respinte nei gradi di merito. La distinzione fondamentale operata dai giudici si basa sull’intenzione dell’agente: chi agisce per un “ingiusto profitto”, sapendo che la sua pretesa è illegittima, non può invocare la fattispecie più lieve dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Le motivazioni addotte per il diniego delle attenuanti sono state inoltre considerate adeguate e conformi ai principi giurisprudenziali.
Conclusioni: Implicazioni Pratiche
Questa ordinanza rafforza un principio cardine: l’intenzione e la consapevolezza dell’agente sono decisive per qualificare giuridicamente una condotta. Chi si fa “giustizia da sé” deve essere mosso dalla convinzione di tutelare un diritto realmente esistente e azionabile. Se l’obiettivo diventa quello di ottenere un vantaggio indebito, che va oltre i confini del diritto stesso, la condotta assume una gravità ben maggiore. La decisione serve da monito: l’ordinamento giuridico non tollera scorciatoie, soprattutto quando sono finalizzate a conseguire profitti che la legge non riconosce.
Quando un’azione di autotutela si qualifica come esercizio arbitrario delle proprie ragioni e non come un reato più grave?
Si qualifica come esercizio arbitrario quando l’agente agisce nella ragionevole opinione di esercitare un proprio diritto, la cui pretesa corrisponde esattamente all’oggetto di una potenziale tutela giudiziaria.
Cosa distingue l’esercizio arbitrario da reati come l’estorsione?
La distinzione risiede nell’obiettivo dell’agente: nell’esercizio arbitrario si persegue un diritto che si ritiene legittimo, mentre in reati come l’estorsione si mira a un “ingiusto profitto”, ovvero un vantaggio che si sa non essere giuridicamente tutelabile.
È sufficiente una motivazione sintetica per negare le circostanze attenuanti generiche?
Sì, secondo la giurisprudenza consolidata citata nell’ordinanza, per motivare adeguatamente il diniego delle attenuanti generiche è sufficiente un congruo riferimento da parte del giudice agli elementi ritenuti decisivi o rilevanti, senza la necessità di un’analisi dettagliata di ogni singolo aspetto.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 10017 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 10017 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 23/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME (CUI 03GKREB) nato il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 23/03/2023 della CORTE APPELLO di FIRENZE
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Letto il ricorso di NOME, ritenuto che il primo motivo di ricorso in relazione alla qualificazione delle condotte contestate al capo 1) è meramente riproduttivo di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito;
che la Corte d’appello in relazione alla richiesta di qualificazione del fatto come delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha correttamente fatto applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite a mente del quale “la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente” (cfr. Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, COGNOME) in particolare, si è correttamente esclusa la ricorrenza della differente ipotesi dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni tenuto conto che l’imputato ha agito al fine di procurare a sé un ingiusto profitto, nella consapevolezza che quanto pretendeva non era giuridicamente azionabile, e non invece nella ragionevole opinione di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli competeva;
considerato che il secondo motivo di ricorso, che contesta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è manifestamente infondato perché, secondo l’indirizzo consolidato della Corte di legittimità (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, COGNOME, Rv. 279549 – 02; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269), nel motivare il diniego del beneficio richiesto, è sufficiente un congruo riferimento, da parte del giudice di merito, agli elementi ritenuti decisivi o rilevanti, come avvenuto nella specie (si veda, in particolare, pag. 5);
ritenuto che il terzo motivo di ricorso che contesta la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n.4 c.p. è manifestamente infondato in quanto la Corte d’appello ha correttamente motivato a pag. 5 dell’impugnata sentenza le ragioni del diniego, essendosi fatto riferimento al rilievo del pregiudizio arrecato;
rilevato che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla somma di euro tremila in favore delle Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2024
Il Consigliere Estensore
Il Presidente