Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 33635 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6   Num. 33635  Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 10/09/2025
1. NOME  COGNOME  propone  ricorso  straordinario avvero  la  sentenza  del  22 novembre 2024 della Seconda Sezione di questa Corte che dichiarava inammissibili i ricorsi proposti, tra gli altri, da NOME COGNOME avverso la sentenza del  7  novembre  2023  della  Corte  di  appello  di  Torino  in  relazione  ai  reati  di estorsione aggravata (artt. 110, 629 cod. pen.) e usura (art. 644 cod. pen.) ai danni di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Con i motivi di ricorso, sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente, svolta una premessa sulla perimetrazione dei motivi del ricorso straordinario per errore di fatto in relazione agli atti interni del giudizio di cassazione, denuncia:
2.1. inesatta percezione delle risultanze processuali e travisamento del motivo di ricorso nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che il ricorso, ai fini della riqualificazione giuridica del fatto, come delitto di cui all’art. 393 cod. pen. non si fosse confrontato con l’argomento della insinuazione al passivo della società RAGIONE_SOCIALE da parte della società RAGIONE_SOCIALE per l’intero importo del preteso credito, insinuazione ritenuta fattore ostativo alla riqualificazione giuridica dei fatti (pag. 9 della s.i.) e non esaminata dal ricorrente che, viceversa (pagg. da 5 a 8 dei motivi di ricorso) aveva svolto precisi rilievi sul punto e richiamato, a sostengo della riqualificazione, la sentenza n. 25176 del 25/06/2012. Anche nella sintesi dei motivi di ricorso tali deduzioni difensive, poi non esaminate dalla Corte di cassazione, erano state riportate;
2.2. omessa valutazione di circostanze rilevanti dedotte con i motivi nuovi e concernenti l’assenza di danno in capo alla persona offesa NOME COGNOME, danno che avrebbe dovuto essere accertato attraverso una prova rigorosa e il cui esame era stato pretermesso, ai fini della ritenuta sussistenza del reato di estorsione, sia nella sentenza della Corte di appello di Torino, che si era limitata a ricostruire il profilo dell’ingiusto profitto patrimoniale in capo agli imputati (elemento, questo, che neppure era stato accertato dalla sentenza di appello non essendo stato individuato a carico del ricorrente, la pretesa di una somma corrispondente ad un profitto ‘ulteriore’ rispetto a quello consistente nel credito vantato COGNOME e che non avrebbe inciso sulla posizione dello COGNOME) sia dalla Corte di Cassazione che non aveva esaminato il nucleo centrale della deduzione difensiva al riguardo della inesistenza del danno. 
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso straordinario di NOME COGNOME deve essere dichiarato inammissibile perché proposto per motivi manifestamente infondati.
La  nozione  di  «errore  di  fatto»  idonea  a  fondare  il  motivo  del  ricorso straordinario è stata delineata dalle Sezioni Unite in più occasioni.
Si è affermato che tale vizio consiste «in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti  interni  al  giudizio  stesso  e  connotato  dall’influenza  esercitata  sul  processo formativo della volontà, viziato dall’inesatta percezione delle risultanze processuali, che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe
stata adottata senza di esso» (Sez. Un, n. 16103 del 27/3/2002, Basile P., Rv. 221280; Sez. Un., n. 37505 del 14/7/2011, Corsini, Rv. 250527; Sez. Un., n. 18651 del 26/3/2015, Moroni, Rv.265248; nello stesso 8 senso, fra le tante, Sez. 4,  n.  17178  del  8/4/2015, Rv. 263443; Sez. 5, n. 7469 del 28/11/2013, dep. 2014, Rv. 259531; Sez. 1, n. 17362 del 15/4/2009, Rv. 244067; Sez. 4, n. 15137 del 8/3/2006, Rv. 233963).
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che: a) deve essere esclusa ogni possibilità di dedurre, attraverso l’art. 625bis cod. proc. pen., errori valutativi o di giudizio; b) sono estranei all’ambito di applicazione dell’istituto gli errori di interpretazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, ovvero la supposta esistenza delle norme stesse o l’attribuzione ad esse di una inesatta portata, anche se dovuti ad ignoranza di indirizzi giurisprudenziali consolidati, nonché gli errori percettivi in cui sia incorso il giudice di merito, dovendosi questi ultimi far valere ─ anche se risoltisi in travisamento del fatto ─ soltanto nelle forme e nei limiti delle impugnazioni ordinarie; c) l’operatività del ricorso straordinario non può essere limitata alle decisioni relative all’accertamento dei fatti processuali, non risultando giustificata una simile restrizione dall’effettiva portata della norma, atteso che l’errore percettivo può cadere su qualsiasi dato fattuale; d) l’errore di fatto censurabile secondo il dettato dell’art. 625bis cod. proc. pen. deve consistere in una inesatta percezione di risultanze direttamente ricavabili da atti relativi al giudizio di cassazione; e) l’errore di fatto deve rivestire «inderogabile carattere decisivo»; f) l’errore di fatto può consistere anche nell’omissione dell’esame di uno o più motivi del ricorso per cassazione, sempre che risulti dipeso «da una vera e propria svista materiale, ossia da una disattenzione di ordine meramente percettivo, che abbia causato l’erronea supposizione dell’inesistenza della censura», ovverossia che l’omesso esplicito esame lasci presupporre la mancata lettura del motivo di ricorso e da tale mancata lettura discenda, secondo «un rapporto di derivazione causale necessaria», una decisione che può ritenersi incontrovertibilmente diversa da quella che sarebbe stata adottata a seguito della considerazione del motivo; g) il disposto dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, secondo cui «nella sentenza della Corte di Cassazione i motivi di ricorso sono enunziati nei limiti strettamente indispensabili per la motivazione», non consente di presupporre che ogni argomento prospettato a sostegno delle censure e non analiticamente riprodotto in sentenza sia stato non letto, anziché implicitamente ritenuto non rilevante.
Non sussistono i supposti errori in fatto nella lettura degli atti relativi al giudizio di Cassazione dedotti dal ricorrente.
Con il primo motivo NOME COGNOME deduce che la Corte di cassazione avrebbe, da una parte, sostenuto che il ricorrente non si era confrontato con un decisivo punto della sentenza di appello relativo alla rilevanza della insinuazione al passivo fallimentare della società RAGIONE_SOCIALE da parte della RAGIONE_SOCIALE e, dall’altro, che la Corte di Cassazione avrebbe pretermesso l’analisi della rilevanza di tale circostanza ai fini della sussistenza dell’elemento piscologico del reato che segna la differenza tra il reato di estorsione e quello di esercizi arbitrario delle proprie ragioni.
Il rilievo difensivo si rivela, tuttavia, manifestamente infondato: il ricorrente censura, infatti, proponendone la lettura quale errore di fatto, un presunto errore di  interpretazione  delle  norme  giuridiche  sostanziali  in  relazione  agli  elementi costitutivi del reato di estorsione e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 cod. pen.
La Seconda Sezione della Corte di cassazione ha, infatti, censurato in radice la prospettazione difensiva secondo la quale l’elemento che differenzia i reati in esame risiede nell’elemento psicologico dell’agente poiché, invece, ha messo in evidenza che elemento imprescindibile, ai fini della preliminare verifica della sussistenza del reato di cui all’art. 393 cod. pen. è costituito dalla esistenza di un credito azionabile «posto che la possibilità di ricorso al giudice è uno dei presupposti del reato di cui all’art. 393 cod. pen. e deve sussistere sia in termini materiali che giuridici, ovvero il soggetto deve trovarsi nella possibilità di far ricorso all’autorità giudiziaria e il diritto preteso deve essere suscettibile di effettiva realizzazione giudiziale».
Tale presupposto, sulla scorta del diffuso richiamo alle sentenze di merito, è stato ritenuto insussistente poiché, come ampiamente precisato nella parte iniziale del punto della decisione, «l’avvenuta insinuazione al passivo fallimentare della società RAGIONE_SOCIALE da parte della RAGIONE_SOCIALE per l’intero importo impediva che lo stesso importo potesse essere azionato una seconda volta».
La Seconda Sezione penale ha proseguito evidenziando come «gli imputati fossero consapevoli di ciò è emerso dalla deposizione dell’AVV_NOTAIO che, interpellato da NOME e da NOME, aveva chiaramente spiegato che non era possibile recuperare dalla persona fisica un credito vantato nei confronti della società», pervenendo, così, alla conclusione che coerentemente la Corte di appello «ha concluso che la somma minore pretesa dagli imputati fosse dettata da un’ottica verosimilmente punitiva e sanzionatoria per l’inadempimento della società da lui amministrata…».
Ciò  che  rileva,  ed  acquista  rilevanza  decisiva  ai  fini  della  qualificazione giuridica del fatto come reato di estorsione, non è la ‘correttezza’ della procedura civilistica o l’importo della somma pretesa dall’odierno ricorrente e dai coimputato
ma la impossibilità giuridica di azionare nei confronti del debitore ─ COGNOME COGNOME, persona fisica ─ il credito che era esatto con modalità coercitive ribadita la precisazione che, come ben evidenziato nella sentenza delle Sezioni Unite pure richiamata dai ricorrenti, non sono le modalità della esazione a rendere configurabile l’uno o l’altro reato (l’esercizio arbitrario o l’estorsione) ma la pretesa dell’agente – cioè l’esercizio di un diritto – che, tuttavia, deve essere azionabile in sede giudiziaria. A tal riguardo la oggetto di ricorso ha riportato significativi passaggi della sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione (n. 29541 del 16/07/2020, Filardo Rv. 280027) nella parte in cui chiarisce che ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente (Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, Rv. 263589; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Rv. 268362) ribadendo che «pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, COGNOME, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, COGNOME, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967)».
Il riferimento della sentenza oggetto di ricorso al mancato rilievo, da parte del ricorrente, non attiene alla valutazione di una mancata impugnazione sebbene al mancato opportuno confronto esegetico dei motivi di ricorso con l’esegesi della disposizione di cui all’art. 393 cod. pen.  che, del resto, anche con l’odierno ricorso, viene riproposta attraverso l’analisi di principi risalenti che sono stati oggetto di esame (e confutazione critica) proprio con la decisione delle Sezioni Unite.
3.A non diverse conclusioni deve giungersi anche per quel che concerne  il secondo motivo di ricorso, con cui si deduce l’errore in cui la Corte sarebbe incorsa, da una parte, nel ritenere sostanzialmente provata l’ingiustizia del patrimoniale in capo agli imputati e dall’altra la inesistenza del danno in capo alla persona offesa, NOME  COGNOME,  poiché  l’onere  di  retribuire  gli  imputati  sarebbe  ricaduto  sul
creditore. Anche in tal caso, non si può ritenere esistente un errore percettivo, nel senso indicato, ma, ancora una volta, il ricorso denuncia l’erronea applicazione della legge penale alla vicenda oggetto di scrutinio da parte del Collegio della Seconda Sezione penale che hanno ritenuto sussistenti, in capo agli imputati, un ingiusto profitto derivante dalla indebita esazione allo COGNOME di un credito inesigibile (perché già azionato), il che configura l’ingiusto profitto poiché il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in luogo di quello di estorsione, è configurabile solo quando il terzo abbia commesso il fatto «al solo fine» di esercitare un preteso diritto per conto del suo effettivo titolare dal quale abbia avuto incarico di attivarsi e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale. Qualora il terzo agente ─ seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 cod. pen. nella previsione dell’art. 393 stesso codice ─ inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione, principi correttamente applicati in ragione della circostanza che, come si è detto innanzi, per viva voce degli imputati, veniva esclusa essendo stata ricondotta la pretesa esattiva ad un accordo che la persona offesa avrebbe preso con gli imputati avendo il creditore escluso il conferimento di alcun mandato agli imputati (cfr. pag. 9 della sentenza oggetto di ricorso).
Dalla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. Considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila euro, in favore della Cassa delle ammende. La Cancelleria è incaricata degli adempimenti in dispositivo. 
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 10 settembre 2025
La Consigliera relatrice NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME