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Esercizio abusivo professione: assolta la titolare

La Corte di Cassazione ha annullato la condanna per esercizio abusivo della professione di farmacista a carico della titolare di una parafarmacia, il cui familiare non abilitato aveva venduto farmaci in sua assenza. La Corte ha stabilito che la mera proprietà dell’esercizio commerciale non è sufficiente a dimostrare un concorso nel reato, in assenza di prove che la titolare abbia consentito o istigato la condotta illecita.

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Pubblicato il 14 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Esercizio Abusivo Professione Farmacista: Titolare Assolta, la Proprietà Non Basta

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 7100/2025) ha chiarito un punto cruciale in materia di esercizio abusivo della professione di farmacista: la titolare di una parafarmacia non è automaticamente responsabile se un’altra persona, non abilitata, vende farmaci in sua assenza. Per configurare un concorso nel reato, è necessaria la prova di un contributo attivo, materiale o morale, che in questo caso mancava del tutto.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da una sentenza del Tribunale di Catanzaro. Una farmacista, titolare di una parafarmacia, era stata ritenuta responsabile del reato di esercizio abusivo della professione. Il fatto illecito era stato materialmente commesso dalla sorella della titolare, la quale, priva di abilitazione, aveva venduto due farmaci da banco in un arco di tempo di venti minuti, approfittando dell’assenza della farmacista. Il tribunale di merito, pur riconoscendo la responsabilità della titolare, aveva applicato la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.).

Contro questa decisione, la farmacista ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo la totale assenza di prove sulla sua partecipazione, materiale o morale, al reato commesso dalla sorella.

La Questione Legale: Titolarità e Responsabilità Penale

Il nodo centrale della questione era stabilire se la titolare di una parafarmacia avesse una sorta di “posizione di garanzia” che la rendesse responsabile per gli illeciti commessi da terzi all’interno del suo esercizio, anche in sua assenza. La difesa ha sostenuto che il tribunale aveva erroneamente attribuito una responsabilità penale basandosi sulla semplice titolarità dell’attività commerciale, senza dimostrare alcun coinvolgimento diretto o indiretto della farmacista.

La normativa di settore (art. 5, d.l. n. 223/2006) impone la presenza e l’assistenza di un farmacista abilitato durante la vendita di medicinali in parafarmacia. Tuttavia, questa norma mira a garantire la corretta dispensazione del farmaco, ma non implica automaticamente una responsabilità penale per concorso in reato a carico del titolare assente.

La Decisione della Corte di Cassazione sull’Esercizio Abusivo della Professione Farmacista

La Suprema Corte ha accolto pienamente il ricorso, annullando la sentenza impugnata senza rinvio “per non aver commesso il fatto”. Gli Ermellini hanno smontato l’impianto accusatorio, evidenziando come mancasse qualsiasi elemento per affermare un concorso della ricorrente nel reato.

Le Motivazioni

La Corte ha distinto nettamente tra l’autore materiale del reato (la sorella non abilitata) e la posizione della titolare. Sebbene il fatto materiale dell’esercizio abusivo della professione sussistesse, per attribuire una responsabilità concorsuale alla farmacista era necessario dimostrare che lei avesse:

1. Determinato o istigato la sorella a vendere i farmaci.
2. Deliberatamente consentito tale condotta, impartendo direttive o creando le condizioni affinché avvenisse.

Nel caso di specie, non è emersa alcuna prova in tal senso. La sentenza impugnata si era limitata a dedurre il “consenso” della titolare da dati oggettivi (la parafarmacia aperta, la presenza della sorella all’interno), trasformando un sospetto in una prova di colpevolezza. La Cassazione ha ribadito che la responsabilità penale è personale e non può derivare da una mera posizione formale, come la titolarità di un’impresa.

In altre parole, non è stato provato né il profilo causale (un contributo effettivo alla commissione del reato) né quello psicologico (la volontà di concorrere all’illecito). Di conseguenza, attribuire una responsabilità omissiva o commissiva alla farmacista per un fatto commesso interamente da un’altra persona era giuridicamente infondato.

Le Conclusioni

Questa pronuncia stabilisce un principio fondamentale: la titolarità di un’attività commerciale non crea un automatismo di responsabilità penale per i reati commessi da terzi al suo interno. Per configurare un concorso di persone nel reato, l’accusa deve fornire la prova rigorosa di un contributo concreto – sia esso un’istigazione, un accordo o un aiuto materiale – da parte del titolare. In assenza di tale prova, il semplice legame di parentela o la proprietà dell’esercizio non sono sufficienti a fondare una condanna. La farmacista è stata quindi giustamente assolta, poiché estranea alla condotta illecita della sorella.

La titolare di una parafarmacia è sempre responsabile se un non abilitato vende farmaci in sua assenza?
No. Secondo la sentenza, la titolare non è automaticamente responsabile. Per affermare una sua responsabilità penale a titolo di concorso, è necessario provare che abbia determinato, consentito o dato specifiche direttive affinché la vendita illecita avvenisse.

Cosa serve per dimostrare la complicità nell’esercizio abusivo della professione?
È necessaria la prova di una partecipazione attiva, materiale o morale, alla commissione del reato. La semplice circostanza che la parafarmacia fosse aperta e che all’interno vi fosse una persona non abilitata non è sufficiente a dimostrare il consenso o il contributo della titolare all’illecito.

Perché la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza precedente?
La Corte ha annullato la sentenza perché il giudice di merito aveva erroneamente attribuito una responsabilità penale alla titolare senza alcuna prova del suo concorso nel reato. Mancava la dimostrazione sia del nesso causale tra la sua condotta e il fatto, sia dell’elemento psicologico (la volontà di partecipare all’illecito).

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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