Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 46789 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 46789 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a GELA il 29/03/1960
avverso l’ordinanza del 20/06/2024 della CORTE APPELLO di CALTANISSETTA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG, dott. NOME COGNOME il quale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 20 giugno 2024 la Corte di appello di Caltanissetta, quale giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’istanza, presentata da COGNOME intesa alla declaratoria di nullità dell’ordine di esecuzione emesso nei suoi confronti dal locale Procuratore generale in relazione alla pena irrogatagli con sentenza del 16 marzo 2022, divenuta irrevocabile il 10 luglio 2023, con la quale egli è stato condannato alla pena di trenta anni di reclusione per il delitto di associazione mafiosa, previo riconoscimento della continuazione tra detto reato e quelli in precedenza autonomamente accertati ed indicati nell’ordinanza resa dalla Corte di assise di appello di Milano il 21 febbraio 2017 ai sensi dell’art. 671 cod. proc. peri..
In proposito, ha, tra l’altro, osservato, in ordine all’epoca di commissione del delitto di associazione mafiosa – contestato, quanto al termine finale, in forma «aperta» – che correttamente il pubblico ministero ha stimato la cessazione della permanenza al 31 marzo 2021, giorno di emissione della sentenza di primo grado, atteso che «ferma la valenza di natura processuale della individuazione della data di cessazione della permanenza con quella di pronuncia della sentenza di condanna non corrispondente a una presunzione di colpevolezza fino a quella data, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, deve osservarsi che le intercettazioni in atti e gli elementi valorizzati nella sentenza d’appello, confermata dalla Corte di Cassazione, dimostrano l’operatività di COGNOME nel contesto associativo mafioso di appartenenza», risultando, invero, «provato in atti che il prevenuto veniva costantemente informato dal fratello NOME, l’unico dei fratelli in stato libertà, attraverso i colloqui in carcere, delle attività illecite del sodalizio ris alle quali prestava il proprio apporto deliberativo».
Ha, quindi, ritenuto che «la condotta associativa del prevenuto si è protratta almeno fino alla data dell’arresto di COGNOME NOME, intervenuto in data 4.10.2017» e che, non essendovi contezza di una successiva dissociazione di COGNOME, la sua militanza associativa deve reputarsi estesa sino al :31 marzo 2021, data di emissione della sentenza di primo grado, che ne segna la cessazione, processuale e sostanziale.
.1.1. Sotto altro aspetto, il giudice dell’esecuzione ha chiarito, in replica specifica prospettazione difensiva, che il riconoscimento della continuazione tra il più grave delitto associativo e quelli indicati nell’ordinanza del 21 febbraio 2017 e la conseguente rideterminazione in dieci anni di reclusione della pena a tale titolo complessivamente irrogata, che sino a quel momento raggiungeva, nel complesso, trenta anni di reclusione, hanno fatto sì che l’esecuzione di detta sanzione debba intendersi conclusa alla data, il 31 marzo 2021, di commissione del reato
associativo, cui si riferisce l’unica pena che Crocifisso deve, a questo punto, scontare, con decorrenza dal momento di cessazione della permanenza.
In proposito, la Corte di appello ha rilevato che il principio, consacrato all’art. 657, comma 4, cod. proc. pen., che osta all’imputazione di periodi di carcerazione anteriori a pene inflitte per reati commessi successivamente impedisce che, nella determinazione della sanzione che COGNOME deve ancora scontare, si possa tenere conto della detenzione da lui patita in eccesso, per i reati che l’ordinanza del 21 febbraio 2017 ha considerato espressione del medesimo disegno criminoso, in epoca anteriore all’applicazione, con la sentenza di condanna per il reato associativo, della disciplina del reato continuato.
Ha, infine, stimato che nella determinazione della pena residua debba, ivece, tenersi conto della restrizione subita a titolo cautelare per il delitto oggetto del pi recente accertamento.
NOME COGNOME propone, con l’assistenza dell’avv. NOME COGNOME ricorso per cassazione affidato ad un unico, articolato motivo, con il quale deduce violazione di legge.
2.1. Ascrive, da un canto, al giudice dell’esecuzione di avere omesso di vagliare la censura sollevata con l’incidente di esecuzione, relativa all’illegittima autonoma modificazione, da parte del pubblico ministero ed in occasione dell’adozione di un provvedimento avente natura meramente amministrativa, della data di cessazione della permanenza del reato associativo, già indicata in precedente provvedimento di cumulo nel 16 aprile 2010.
Evidenzia, in particolare, che detta iniziativa, adottata senza il preventivo, necessario coinvolgimento del giudice dell’esecuzione, risulta, per di più, finalizzata ad un risultato contrastante con quanto stabilito con riferimento alla posizione, processualmente identica, di NOME COGNOME.
Lamenta, altresì, che il giudice dell’esecuzione si è arrogato il potere di avallare il contegno, processualmente irrituale, del Procuratore generale, così esorbitando dai limiti della questione devolutagli, circoscritta alla verifi dell’ortodossia dell’iter seguito dal pubblico ministero.
2.2. Rinzivillo si duole, ancora, dell’esclusione dal novero delle pene in esecuzione, da parte della Corte di appello, di quella inflittagli per i reati di all’ordinanza del 21 febbraio 2017, decisione per lui foriera di notevoli pregiudizi perché, nel sancire l’insussistenza delle condizioni per l’applicazione di una pluralità di cumuli parziali, ha, di fatto, neutralizzato l’incidenza della liberazio anticipata già riconosciutagli per quelle sanzioni, pari, nel complesso, a 1035 giorni.
Il Procuratore generale ha chiesto, con requisitoria scritta, dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Il ricorrente, il 3 ottobre 2024, ha depositato una memoria, con motivi aggiunti, con la quale ha ribadito quanto esposto nel libello introduttivo del giudizio di legittimità e replicato ai rilievi svolti dal Procuratore generale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e, pertanto, passibile di rigetto.
La giurisprudenza di legittimità si è da tempo assestata nel senso che, se «In sede esecutiva non è consentito modificare la data del commesso reato, accertata nel giudizio di cognizione con sentenza passata in giudicato, anche quando GLYPH il GLYPH “tempus commisi delicti” GLYPH non GLYPH sia GLYPH precisamente GLYPH indicato nell’imputazione» (Sez. 1, n. 25219 del 20/05/2021, COGNOME, Rv. 281443 – 01; Sez. 3, n. 8180 del 20/01/2016, COGNOME, Rv. 266283 – 01), ad opposte conclusioni deve, per converso, pervenirsi allorché il tempus commissi delicti non ha formato oggetto di specifico accertamento da parte del giudice della cognizione, né è indicato in modo preciso e con ben definiti riferimenti fattuali nel capo di imputazione (così, tra le altre, Sez. 1, n. 35766 del 11/11/2020, COGNOME, Rv.280093 – 01; Sez. 1, n. 25735 del 12/06/2008, COGNOME, Rv. 240475 – 01).
Al cospetto di tali presupposti, il giudice dell’esecuzione può, invero, prendere conoscenza del contenuto della sentenza e, occorrendo, degli atti del procedimento, per ricavarne tutti gli elementi da cui sia possibile desumere l’effettiva data del reato, ove essa sia rilevante ai fini della decisione che gli demandata; ciò che accade, tra l’altro, laddove si discuta, come nel caso in esame, dell’applicazione della regola sancita dall’art. 657, comma 4, cod. proc. pen..
Nella fattispecie, la Corte di appello di Napoli ha proceduto alla determinazione della data di cessazione della permanenza del delitto associativo commesso da COGNOME aspetto che – per quanto emerge dal provvedimento impugnato e, peraltro, non contestato dal ricorrente – non era stato specificamente affrontato nel corso del giudizio di cognizione.
Il ragionamento sviluppato, al riguardo, dal giudice dell’esecuzione appare lineare e coerente, perché incentrato sulla razionale e ponderata disamina delle emergenze istruttorie, e non trova smentita, a dispetto di quanto obiettato dal ricorrente, dalla diversa indicazione contenuta, sul punto, nell’ordine di esecuzione per la carcerazione emesso in relazione alla distinta posizione di NOME COGNOME
che non appare in alcun modo vincolante in ragione dell’autonomia dei provvedimenti, il cui contenuto non si palesa, stante la natura e la funzione dell’atto, vincolante.
3.1. Ciò posto, va detto che COGNOME, nel lamentare che il giudice dell’esecuzione – che egli aveva adito al solo fine di contestare la legittimazione del pubblico ministero a modificare, motu proprio, la data del commesso reato è andato ultra petita, svolge una contestazione di tangibile e marcata fragilità perché imperniata sul fallace postulato secondo cui il Procuratore generale sarebbe intervenuto su un profilo in precedenza già compiutamente definito, laddove, al contrario, il tema controverso era, nella sostanza, del tutto impregiudicato, stanti il silenzio, in proposito, del giudice della cognizione e la provvisorietà dell’indicazione, incidentale e priva di concreta rilevanza, contenuta nel procedente ordine di esecuzione per la carcerazione.
Il vero è, piuttosto, che il Procuratore generale ha proceduto alla precisa enucleazione della data di cessazione della militanza associativa di COGNOME solo all’indomani del passaggio in giudicato della sentenza che riconducendo ad un unico disegno criminoso sia il delitto ex art. 416-bis cod. pen. che quelli legati, a loro volta, dal vincolo della continuazione per effett dell’ordinanza del 21 febbraio 2017 – ha rideterminato la pena per i delitti diversi da quello di maggiore gravità e reso attuale la necessità di verificare quali pene dovessero ritenersi in esecuzione ed a partire da quale momento.
L’incidente di esecuzione introdotto dal condannato era, dunque, volto ad accertare a tutto tondo la legittimità dell’operato del pubblico ministero, rispetto alla quale la Corte di appello ha offerto un riscontro ampiamente positivo.
3.2. La decisione impugnata si palesa, del pari, ineccepibile nella parte dedicata all’individuazione della pena in esecuzione ed all’imputazione della detenzione patita in relazione alla sanzione rideterminata nell’ambito del procedimento per associazione mafiosa ed ormai estinta.
La statuizione della Corte di appello è stata, infatti, resa in risposta a specifica asserzione dell’istante, il quale aveva sostenuto che la concomitante esecuzione della pena inflittagli per i reati di cui all’ordinanza del 21 febbraio 2017 – ancora in itinere e destinata, a suo modo di vedere, a protrarsi sino al 5 novembre 2027 – avrebbe imposto di procedere alla formazione di cumuli parziali, con decorrenza al 16 aprile 2010, così prospettando una tesi che il giudice dell’esecuzione ha ricusato in ragione sia della collocazione al 31 marzo 2021 della cessazione della permanenza del delitto associativo che dell’avvenuta, completa espiazione della pena di dieci anni di reclusione rideterminata a titolo di aumento per la continuazione rispetto a quella, di venti anni di reclusione, irrogata per il reato pi grave.
3.3. L’articolazione – dal punto di vista fattuale, logico, giuridico dell’ordinanza impugnata si palesa, in conclusione, armonica e scevra da qualsivoglia vizio, tantomeno di ultrapetizione, posto che la Corte di appello si è limitata ad affrontare gli aspetti critici spontaneamente segnalati da COGNOME (afferenti, si ribadisce, alla protrazione della sua partecipazione mafiosa ed all’individuazione delle pene in corso di espiazione) ed a trarne le necessarie conseguenze, onde non v’è luogo a discutere di esercizio del potere in forza di indebita e non prevista iniziativa officiosa.
Dal rigetto del ricorso discende la condanna di COGNOME al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616, comma 1, primo periodo, cod. proc. pen..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 22/10/2024.