Sentenza di Cassazione Penale Sez. U Num. 9788 Anno 2025
Penale Sent. Sez. U Num. 9788 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/01/2025
SENTENZA
sul ricorso straordinario ex art. 625-bis cod. proc. pen. proposto da NOME COGNOME nato a San Giuseppe Vesuviano il 28/03/1951, per la correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza n. 30016/24 del
28/03/2024 delle Sezioni Unite penali;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal componente NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso; uditi per il richiedente, gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 28 marzo 2024 le Sezioni Unite della Corte di cassazione si sono pronunciate sul ricorso proposto, fra l’altro, da NOME COGNOME avverso la sentenza in data 21 novembre 2021 della Corte di appello di Napoli: in particolare, con riguardo alla posizione di COGNOME, hanno annullato senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al delitto di estorsione di cui al capo R), perché il fatto non sussiste, e hanno nel resto rigettato il ricorso, riferito fra l’alt al delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. per la partecipazione al clan COGNOME, rideterminando la pena in anni dodici di reclusione.
Ha proposto ricorso, ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. per errore di fatto, NOME COGNOME tramite i difensori avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOME muniti di procura speciale.
Si rileva nel ricorso che con riguardo al reato associativo la prova dell’addebito era stata essenzialmente tratta dalle dichiarazioni del collaboratore COGNOME, esaminato al dibattimento ai sensi dell’art. 210, comma 1, cod. proc. pen., quale imputato di reato connesso, avvertito della sola facoltà di non rispondere.
Fin dal primo grado era stato al riguardo eccepito che avrebbe dovuto procedersi ai sensi dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen. con gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, lett. c) cod. proc. pen. e con il giuramento ai sensi dell’art. 497 cod. proc. pen., tema poi riproposto con il terzo motivo di ricorso.
Nella sentenza delle Sezioni Unite tale motivo era stato dichiarato manifestamente infondato, in quanto le condotte attribuite dal collaboratore al ricorrente, in riferimento ad una serie di truffe concordate dal sodalizio dei Vollaro con quello facente capo al clan COGNOME, vedevano il dichiarante direttamente coinvolto, quale rappresentante dei primi, tanto che il Pubblico ministero aveva comunicato di averlo iscritto nel registro degli indagati per il delitto di associazione per delinquere finalizzata alle truffe, aggravato ai sensi dell’art. 7 legge n. 203 del 1991.
Avevano aggiunto le Sezioni Unite che avvertimento e dichiarazione di impegno, relativi all’imputato in procedimento connesso che non si avvalga della facoltà di non rispondere, riguardano solo la posizione del dichiarante non coinvolto nello stesso fatto.
Alla resa dei conti si era ritenuto che fosse applicabile l’art. 210, comma 1, cod. proc. pen., come se il collaboratore fosse coinvolto nel medesimo fatto ex art. 416-bis cod. pen.
In ciò si annidava l’errore di fatto, in quanto COGNOME e Morcavallo erano all’epoca solo coindagati in diverso procedimento penale (RGNR 20194/2010), per fatto diverso, cioè le truffe aggravate, rispetto a quello oggetto della condanna pronunciata a carico di COGNOME, cioè l’art. 416-bis cod. pen.
Pertanto, nell’esame del 21 gennaio 2016 Morcavallo aveva reso dichiarazioni solo sul fatto oggetto del processo a carico di Annunziata, in cui il predetto non era coinvolto, avendo dunque deposto per reato connesso o collegato, quale soggetto non coinvolto nello stesso fatto agli effetti dell’art. 12 lett. a), cod. proc pen., come erroneamente ritenuto.
Tra i fatti-reato, cioè quelli di cui agli artt. 416-bis e 416 cod. pen., vi er autonomia strutturale e soggettiva, dovendosi dunque applicare l’art. 210, comma 6, cod. proc. pen. con l’avviso di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), cod. proc. pen., fermo restando che il collaboratore nell’atto istruttorio del 23 gennaio 2015 aveva già ricevuto gli avvisi di cui all’art. 64 cod. proc. pen., esponendo i fatti relativi al truffe.
Su tali basi avrebbe dovuto ravvisarsi l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Morcavallo nel corso del dibattimento, secondo quanto ritenuto da Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, COGNOME, Rv. 264480 – 01.
Correlativamente la sentenza in questa sede impugnata avrebbe dovuto ritenersi inficiata da errore di fatto, in quanto il dichiarante non era un imputato coinvolto nello stesso fatto contestato ad Annunziata, dovendosi dunque, proprio in ragione del principio affermato in tale sentenza, rilevare l’applicabilità di una diversa disciplina per l’escussione del dichiarante, discendendone il venir meno della fonte di prova e l’assenza di elementi a sostegno dell’accusa, fermo restando che la posizione di Morcavallo aveva comunque formato oggetto di archiviazione nel 2018.
Il ricorrente chiede dunque l’accoglimento del ricorso e comunque pregiudizialmente la sospensione dell’esecuzione della sentenza di condanna.
Con decreto del 19 dicembre 2024 la Prima Presidente ha fissato l’udienza del 22 gennaio 2025 dinanzi alle Sezioni Unite in diversa composizione, per la trattazione del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile, perché presentato per motivo diverso da quelli consentiti ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen.
Deve al riguardo rilevarsi che «l’errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità e oggetto del rimedio previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen. consiste
in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall’inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso» (Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, Basile, Rv. 221280 – 01): in tale prospettiva si è sottolineato nella stessa pronuncia che qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, e che sono estranei all’ambito di applicazione dell’istituto gli errori d interpretazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, ovvero la supposta esistenza delle norme stesse o l’attribuzione ad esse di una inesatta portata.
Il principio è stato successivamente più volte ribadito, essendosi, in particolare, rilevato che «qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall’orizzonte del rimedio previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen.» (Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, COGNOME, Rv. 263686 – 01; Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, COGNOME, Rv. 250527 – 01; nello stesso senso, ex plurimis, Sez. 6, n. 28424 del 23/06/2022, COGNOME, Rv. 283667 -01; Sez. 2, n. 53657 del 17/11/2016, COGNOME, Rv. 268981 – 01; Sez. 6, n. 46065 del 17/09/2014, COGNOME, Rv. 260819 – 01, riferite al tema della valutazione giuridica di circostanze di fatto correttamente percepite o comunque a quello della deduzione di errore valutativo che si innesti su un sostrato fattuale correttamente percepito).
Proprio alla luce di tali principi deve essere valutato il profilo dedotto in questa sede.
3.1. La sentenza impugnata ha dato conto di quanto formava oggetto del terzo motivo dell’originario ricorso, concernente il tema della corretta qualificazione del dichiarante Morcavallo, ai fini dell’applicazione del regime ad essa correlato.
Nel rispondere alla deduzione in quella sede formulata le Sezioni Unite hanno rilevato la manifesta infondatezza del motivo: in primo luogo hanno, al riguardo, sottolineato che «dai contenuti dell’esame dibattimentale del predetto collaboratore di giustizia emerge che le condotte da lui attribuite al ricorrente – là dove fa riferimento alla perpetrazione di una serie di truffe concordate dal sodalizio dei Vollaro e da quello facente capo ai Fabbrocino – vedono il dichiarante direttamente coinvolto nelle relative attività quale rappresentante dei primi, tanto che nell’udienza dibattimentale del 26 gennaio 2016 il Pubblico ministero comunicò
di averlo iscritto nel registro degli indagati per il delitto di associazione per delinquere finalizzata alla truffa, con l’aggravante prevista dall’art. 7 della legge n. 203 del 1991»; in secondo luogo, hanno precisato che «gli avvertimenti previsti dall’art. 64 cod. proc. pen. e la dichiarazione di impegno prescritta dall’art. 497 cod. proc. pen. per l’imputato in procedimento connesso o collegato che non si avvalga della facoltà di non rispondere riguardano esclusivamente la posizione del dichiarante «non coinvolto nello stesso fatto», non sussistendo alla luce di tale analisi «le condizioni per ritenere che il dichiarante dovesse essere chiamato a riferire di fatti involgenti esclusivamente l’altrui responsabilità».
3.2. Orbene, le Sezioni Unite hanno indicato i presupposti fattuali della propria valutazione, riferiti alle vicende oggetto delle dichiarazioni, coinvolgenti lo stesso collaboratore di giustizia, e alla iscrizione del dichiarante nel registro degli indagati per il reato di associazione per delinquere finalizzata alle truffe, aggravato ai sensi dell’art. 7 legge n. 203 del 1991: proprio sulla scorta di tali dati di fatto hanno ritenuto che il collaboratore non fosse stato chiamato a riferire di fatti involgenti esclusivamente l’altrui responsabilità, quale presupposto necessario per un diversa qualificazione del dichiarante.
Ma, a fronte di quei presupposti, di per sé incontroversi, le censure sollevate in questa sede dal ricorrente si risolvono, in realtà, nella contestazione del significato giuridico attribuibile agli stessi, in funzione della riconducibilità d dichiarante ad una figura soggettiva diversa da quella individuata dalle Sezioni Unite e implicante l’applicazione dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., con conseguente formulazione dell’avviso di cui all’art 64, comma 3, lett. c), cod. proc. pen. e attribuzione della veste di testimone assistito.
Ciò significa che il ricorso non deduce un errore percettivo nella lettura degli atti, ma un errore valutativo, avente ad oggetto l’inquadramento giuridico dei fatti e l’interpretazione delle norme processuali, cioè proprio quanto deve ritenersi precluso alla luce dei principi in precedenza richiamati.
Di qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa sottesi alla causa dell’inammissibilità, a quello della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 22/01/2025.