Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 21601 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 21601 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 13/01/2023 della CORTE DI CASSAZIONE di ROMA
udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; sentite le conclusioni del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO COGNOME per l’inammissibilità del ricorso; udito l’AVV_NOTAIO che conclude per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quinta Penale, con sentenza in data 13/1/2023, depositata il 20/4/2023, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da COGNOME NOME avverso la sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Reggio Calabria in data 8/3/2021 con la quale è stata confermata la condanna dello stesso in relazione ai reati di cui all’art. 416 bis cod. pen. e in materia di armi.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso ai sensi dell’art. 625 bis cod. proc. pen. il condannato che, a mezzo del difensore iha dedotto che la Corte di cassazione sarebbe incorsa in un errore percettivo laddove ha affermato che il collaboratore COGNOME avrebbe dichiarato che “COGNOME era uomo di fiducia di NOME” senza considerare che nell’atto di impugnazione si era
espressamente evidenziato che tale dichiarazione si riferiva alla sola “attività lavorativa”.
In data 31 gennaio 2024 è pervenuta una memoria con la quale il Procuratore Generale, AVV_NOTAIO, chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
Nell’unico motivo di ricorso la difesa deduce che la Corte di cassazione sarebbe incorsa in un errore percettivo laddove ha affermato che il collaboratore COGNOME avrebbe dichiarato che “COGNOME era uomo di fiducia di NOME” senza considerare che nell’atto di impugnazione si era espressamente evidenziato che tale dichiarazione si riferiva alla sola “attività lavorativa”.
La doglianza è manifestamente infondata.
2.1. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno più volte chiarito (Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, COGNOME, Rv. 263686 – 01; Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, COGNOME, Rv. 221280 – 01) che l’errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità e oggetto del rimedio previsto dall’art. 625 bis cod. proc. pen. consiste in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall’inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso. Nella motivazione di tale sentenza è stato precisato che: 1) qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio; 2) sono estranei all’ambito di applicazione dell’istituto gli errori di interpretazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, ovvero la supposta esistenza delle norme stesse o l’attribuzione ad esse di una inesatta portata, anche se dovuti ad ignoranza di indirizzi giurisprudenziali consolidati, nonché gli errori percettivi in cui sia incorso il giudice di merito, dovendosi questi ultimi far valere – anche se risoltisi in travisamento del fatto – soltanto nelle forme e nei limiti del impugnazioni ordinarie; 3) l’operatività del ricorso straordinario non può essere limitata alle decisioni relative all’accertamento dei fatti processuali, non
risultando giustificata una simile restrizione dall’effettiva portata della norma in quanto l’errore percettivo può cadere su qualsiasi dato fattuale.
Tali principi sono stati costantemente riaffermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, essendosi in particolare ribadito anche dalle Sezioni Unite che, qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall’orizzonte del rimedio previsto dall’art. 625 bis cod. proc. pen. (Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, COGNOME, Rv. 250527 – 01; in senso analogo, Sez. 6, n. 28424 del 23/06/2022, COGNOME, Rv. 283667 – 01; Sez. 1, n. 50489 del 17/10/2019, COGNOME, Rv. 277453 – 01; Sez. 3, n. 4731.6 del 01/06/2017, vinci, Rv. 271145 – 01; Sez. 2, n. 41782 del 30/09/2015, COGNOME, Rv. 265248 01; Sez. 5, n. 7469 del 28/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259531 – 01).
2.2. L’applicazione dei principi esposti impone di escludere che nel caso di specie sia ravvisabile un errore di fatto percettivo.
Nelle pagine 48 e 49 della sentenza’ infatti, la Corte, facendo specifico riferimento al contributo fornito dal ricorrente al clan quale custode di armi anche micidiali, ha dato corretto conto degli elementi sui quali ha fondato il giudizio in temini di adeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in ordine allo status di partecipe dell’associazione.
Ciò senza attribuire alcuno specifico rilievo all’affermazione oggetto del presunto errore percettivo e dell’attuale censura, richiamata solo in temini accidentali per replicare alla doglianza della difesa in merito alla ritenuta attendibilità del collaboratore.
In una corretta prospettiva, infatti, la riferita circostanza per cui “NOME era uomo di fiducía’NOME NOME” è indicata senza fare riferimento a una specifica attività, sia essa lavorativa o meno, e al solo fine di ribadire che il giudizio di attendibilità era stato correttamente effettuato e che le dichiarazioni erano state utilizzate per confortare un compendio probatorio già autonomamente solido.
Ragioni queste per le quali risulta evidente che la Corte non è incorsa in alcun errore percettivo e l’eventuale errore di valutazione contenuto nella sentenza è del tutto privo di qualsivoglia rilievo quanto alla decisione in termini di inammissibilità del ricorso allora proposto nell’interesse dell’attuale ricorrente.
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal
ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che P ritiene equa, di euro tremila a favore della cassa delle ammende.
P.Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 16 febbraio 2024.