Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 6799 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 6799 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 11/01/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME NOME a BERGAMO il DATA_NASCITA RAGIONE_SOCIALE
avverso la sentenza del 04/04/2023 della CORTE DI CASSAZIONE di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 21474 del 4.4.2023, la Terza Sezione della Corte Suprema di Cassazione – per quanto qui rileva – ha dichiarato inammissibile il ricorso di NOME COGNOME e ha rigettato il ricorso della RAGIONE_SOCIALE avverso il provvedimento della Corte di appello di Brescia che, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva respinto l’opposizione all’esecuzione proposta dai medesimi ricorrenti.
La detta opposizione era finalizzata ad ottenere la restituzione della somma di euro 8.371.950,57, oggetto di confisca nell’ambito di un processo penale a carico, fra gli altri, del COGNOME e riguardante reati tributari ambientali (reati di cui agli artt. 3 e 10 d.lgs. n. 74/2000 e 260 d.lgs. n 152/2006).
In origine, il provvedimento di sequestro “per equivalente” emesso dal GIP presso il Tribunale di Bergamo aveva riguardato beni nella disponibilità degli indagati, fra cui il COGNOMECOGNOME fino alla concorrenza della somma di euro 8.371.950,57. Successivamente, il Tribunale di Bergamo, in accoglimento di apposita istanza, aveva sostituito tutti i beni sui quali era stato disposto i sequestro (e poi la confisca) con la somma di denaro dianzi indicata, versata dalla richiedente RAGIONE_SOCIALE
Il Procedimento penale era stato, infine, definito con sentenza in data 3.3.2018 della Corte di cassazione, che aveva dichiarato la prescrizione dei residui reati (altri erano già stati dichiarati prescritti in sede di merito), n disponendo sul provvedimento di confisca, che pertanto era rimasto in piedi.
Di qui, l’incidente di esecuzione di che trattasi, concernente appunto la confisca della somma di denaro in questione, definito con la citata sentenza della Corte di cassazione n. 21474/2023, avverso la quale i difensori di NOME COGNOME e di RAGIONE_SOCIALE propongono ricorso straordinario per cassazione, chiedendone la revoca, previa correzione dell’errore di fatto ivi contenuto.
In sintesi, si deduce che la sentenza impugnata abbia erroneamente ricondotto le somme sostituite da RAGIONE_SOCIALE a profitto diretto del reato tributario, come tale confiscabile ex art. 578-bis cod. pen. anche a seguito di proscioglimento per prescrizione del reato.
A detta dei ricorrenti, le argomentazioni della Terza Sezione – secondo cui la sostituzione dei beni confiscati con la somma di denaro versata dalla società ricorrente avrebbe determiNOME un mutamento della confisca, da “equivalente” a
confisca diretta del profitto del reato tributario commesso dagli imputati nell’interesse della società – sono viziate da un errore decisivo sulla ricostruzione della vicenda in esame, nel senso che è errato ricondurre ad RAGIONE_SOCIALE il presunto beneficio dei reati tributari oggetto di imputazione nel procedimento penale che ha visto il COGNOME imputato, così come il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito. Infatti, in nessun passaggio del procedimento in disamina è mai emerso o solo ipotizzato che RAGIONE_SOCIALE abbia in qualche modo goduto di benefici economici collegati alle fattispecie delittuose per cui si è proceduto, rimanendo detta società del tutto estranea a qualsivoglia contestazione o menzione nei relativi capi di imputazione. Una corretta percezione dei fatti deve, invece, portare a qualificare come “confisca per equivalente” la misura che ha colpito la somma di denaro versata da RAGIONE_SOCIALE, cui deve conseguire la restituzione della stessa all’avente diritto.
Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi.
I difensori dei ricorrenti hanno depositato una memoria scritta con la quale insistono per l’accoglimento dei ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I proposti ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
Va premesso che l’errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimità, che può essere valorizzato con il rimedio straordinario previsto dall’art. ‘625-bis cod. proc. pen., è solo l’errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizi stesso e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall’inesatta percezione delle risultanze processuali, che abbia condotto ad una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso. Qualora, invece, la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale non deducibile con il rimedio straordinario (cfr. Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, Rv. 221280 – 01).
L’estraneità del rimedio del ricorso straordinario all’errore che non abbia basi percettive ma solo giuridico-valutative è stata costantemente ribadita dalla
giurisprudenza di legittimità, anche di recente nel suo più autorevole consesso (cfr. Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, Rv. 263686 – 01).
Sulla stessa linea interpretativa, è stato affermato il principio secondo cui non rientrano nell’area dell’errore di fatto – e sono, quindi, inoppugnabili – gli errori di valutazione e di giudizio dovuti ad una non corretta interpretazione degli atti del processo di cassazione, da assimilare agli errori di diritto conseguenti all’inesatta ricostruzione del significato delle norme sostanziali e processuali (Sez. 5, n. 29240 del 01/06/2018, Rv. 273193 – 01).
Nel caso in disamina, occorre in primo luogo distinguere la posizione dei ricorrenti, in considerazione del fatto che il ricorso del COGNOME, nella sentenza oggetto di impugnazione, era già stato dichiarato inammissibile per carenza di interesse ad impugnare.
Difatti, la Corte di legittimità aveva insindacabilmente affermato – sulla scorta di quanto risultante dal provvedimento ivi impugNOME, non contestato dalla difesa del COGNOME – che l’avente diritto alla restituzione della somma di denaro, dapprima sottoposta a sequestro e poi oggetto di confisca, fosse la società RAGIONE_SOCIALE e non il COGNOME. Ciò, proprio in considerazione della disposta sostituzione dei beni (appartenenti agli imputati) oggetto di sequestro preventivo, con la somma di denaro (pari ad euro 8.371.950,57) versata da RAGIONE_SOCIALE sul conto corrente bancario intestato alla Procura di Bergamo, sulla quale somma doveva intendersi la confisca disposta con la sentenza del Tribunale di Bergamo che, per l’effetto, revocava il vincolo cautelare sui beni immobili oggetto del sequestro preventivo a fini di confisca per equivalente.
Tanto premesso, è evidente che il ricorso straordinario proposto dal COGNOME sulla stessa questione non può che essere, a sua volta, inammissibile per carenza di interesse ad impugnare, essendo finalizzato, in definitiva, ad ottenere la restituzione della somma di denaro confiscata, di esclusiva pertinenza di RAGIONE_SOCIALE
Passando, dunque, al ricorso proposto da RAGIONE_SOCIALE, si osserva che lo stesso prospetta non consentite censure di merito, pretendendo che in questa sede sia, essenzialmente, riconosciuta l’estraneità della detta società agli illeciti tributari oggetto dell’originaria imputazione, peraltro senza addurre specifici elementi a supporto e quindi in violazione del principio di autosufficienza del ricorso.
In particolare, si sostiene l’esistenza di un errore di fatto sulla base di una asserita erronea valutazione della Corte di cassazione riguardante la valutazione della vicenda nel suo complesso, sotto il profilo del ritenuto – ma erroneo –
coinvolgimento della società RAGIONE_SOCIALE negli illeciti fiscali contestati agli imputati, tra cui il COGNOME, per cui – si sostiene – la somma di denaro confiscata non potrebbe mai essere qualificata come profitto del reato tributario, stante l’estraneità della società ai detti illeciti.
Ma è proprio tale estraneità ai reati fiscali che non può essere rimessa in discussione in questa sede, trattandosi di questione di fatto che, del resto, neanche poteva essere riesaminata dalla sentenza impugnata, attenendo al merito di una vicenda particolarmente complessa, in cui, fra l’altro, come rammentato dagli stessi ricorrenti, nella motivazione del provvedimento genetico di sequestro si faceva cenno alla RAGIONE_SOCIALE quale società in qualche modo controllata dal COGNOME.
In questa prospettiva, il ragionamento della Terza Sezione della Cassazione, in ciò asseverando le argomentazioni della Corte territoriale che aveva respinto l’istanza, è stato nel senso che la confisca disposta dal Tribunale di Bergamo era “diretta”, atteso che, in forza del provvedimento di sostituzione, “ha finito per cadere direttamente sulla somma di euro 8.371.950,57, ovvero sul profitto del reato conseguito dall’ente e versato spontaneamente dalla società che ha beneficiato del profitto del reato tributario”.
In proposito, è stato rammentato l’insegnamento delle Sezioni Unite Lucci, secondo cui la confisca delle somme di denaro di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (cfr. Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Rv. 264437 – 01). Né – si ripete – la questione della disponibilità di tale somma di denaro in capo ai soggetti coinvolti nel procedimento penale presupposto può formare oggetto di valutazione nella presente sede di legittimità.
Appare, quindi, evidente che, sul tema della confisca, la valutazione operata dalla Corte di legittimità nella sentenza impugnata non è frutto di una svista, ma, semmai, di un (eventuale) errore nella delibazione attinente alla qualificazione giuridica della confisca, in alcun modo emendabile mediante il ricorso straordinario.
Difatti, tale istituto non è invocabile allorché la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, trattandosi in tal caso non di un errore di fatto, bensì di giudizio; inoltre, sono estranei all’ambito di applicazione dell’istituto gli errori di interpretazione di norme giuridiche, sostanziali o
processuali, ovvero la supposta esistenza delle norme stesse o l’attribuzione ad esse di una inesatta portata, anche se dovuti ad ignoranza di indirizzi giurisprudenziali consolidati, nonché gli errori percettivi in cui sia incorso il giudice di merito, dovendosi questi ultimi far valere – anche se risoltisi in travisamento del fatto – soltanto nelle forme e nei limiti delle impugnazioni ordinarie (ex plurimis Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, Basile, Rv. 221283; Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, COGNOME, Rv. 250528; Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, Moroni, Rv. 263686; Sez. 4, n. 6770 del 17/01/2008, COGNOME, Rv. 239037; Sez. 6, n. 14296 del 20/03/2014, Apicella, Rv. 259503; Sez. 6, n. 37243 del 11/07/2014, COGNOME, Rv. 260817).
Stante l’inammissibilità dei ricorsi, e non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. sent. n. 186/2000), alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria, che si stima equo quantificare nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in data 11 gennaio 2024
re estensore
Il Presidente