Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 20331 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 20331 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato il 20/10/1950 a CANDIA COGNOME avverso la sentenza in data 04/12/2024 della CORTE DI CASSAZIONE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
sentita la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
sentito l’Avvocato NOME COGNOME che ha illustrato i motivi del ricorso e ha insistito per il suo accoglimento;
sentito l’Avvocato NOME COGNOME che si è associato alle conclusioni dell’Avvocato COGNOME
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME per il tramite dei propri procuratori speciali, propone ricorso straordinario avverso la sentenza della Corte di cassazione n. 3755 del 04/12/2024 (dep. il 2025), che -per quello che qui interessa- ha rigettato il ricorso presentato avverso la sentenza in data 07/03/2024 della Corte di appello di
Brescia, nella parte in cui lo aveva condannato per il reato di cui all’art. 326 cod. pen., contestato in relazione alla prima condotta descritta al capo B).
1.1. Secondo il ricorrente, la Corte di cassazione è incorsa in errore di fatto, perché non ha trattato e valutato i l motivo d’impugnazione interposto al punto 12 del ricorso, con il quale era stato denunciato il ‘Vizio di motivazione per palese travisamento della prova, laddove si nega, contrariamente a quanto accertato, che l’imputato non avrebbe potuto ricorrere alla procedura ordinaria, perché tra i nominativi indicati da COGNOME comparivano due consiglieri CSM, uno dei quali (dr. COGNOME, avrebbe presieduto la Prima Commissione, destinataria per regolamento di ogni segnalazione’.
Precisa che, alle pagine 16, 20 e 21 della sentenza oggetto di ricorso, veniva dichiarata la decisività di tale circostanza, così che la decisione assunta in relazione alla prima condotta del capo B) si fonda su un dato di fatto completamente erroneo.
1.2. In particolare, ripercorrendo i contenuti di tali pagine, si osserva come nella sentenza si sia più volte affermato che, la scelta di non rivolgersi al Procuratore generale della Repubblica territorialmente competente a risolvere i contrasti inerenti all’esercizio dell’azione , ai sensi dell’art. 6 decreto legislativo n. 106 del 2006, era stata dettata dalla ridotta affidabilità attribuita alla persona che ricopriva quel ruolo all’epoca dei fatti.
Si precisa, dunque, che la condanna di merito è stata ritenuta legittima in quanto l’imputato, pur essendo perfettamente a conoscenza di quale sarebbe stata la procedura corretta, avrebbe indotto l’incolpevole PM COGNOME a seguirne un’altra, perché personalmente riteneva ‘ non affidabile’ il Procuratore generale di Milano.
Si evidenzia, inoltre, che nella sentenza in esame si afferma che tale dato non era mai stato sottoposto a revisione critica nel ricorso e che, l’inconsistenza di tale ragione sul piano della rilevanza giuridica, rendeva inapplicabile l’esimente di cui all’art. 51 cod. pen., pure invocata nel ricorso.
1.3. Il ricorrente osserva e in ciò viene indicato l’errore di fatto – che «la scelta consapevole di non suggerire a COGNOME di seguire la procedura ordinaria era quella di evitare che il componente (nonché prossimo Presidente) della Prima Commissione, il Consigliere COGNOME venisse a conoscenza delle ‘propalazioni’ accusatorie di COGNOME nei di lui confronti. E questo perché, come più volte ribadito dall’imp utato anche nel ricorso proposto (nonché nei motivi aggiunti), il Procuratore generale non avrebbe potuto fare altro che inviare al CSM il plico riservato che sarebbe inevitabilmente finito alla Prima commissione, all’interno della quale ‘sedevano’ ben due Consiglieri fatti oggetto delle propalazioni accusatorie di COGNOME (COGNOME e COGNOME)».
Si aggiunge che il dato era stato sottoposto a revisione critica, per come emerge dalla lettura della stessa sentenza denunciata, che, nell’illustrare le ragioni del l’impugnazione , osserva che nei motivi decimo, undicesimo e dodicesimo si
censurava la sentenza della Corte di appello nella parte in cui aveva valorizzato, non la comunicazione, bensì le modalità della relativa comunicazione, perché non proveniente dagli organi a ciò preposti, oltre che non realizzata secondo le indicazioni formali dettate dalla normativa secondaria di riferimento, che prevede l’invio del plico chiuso al Comitato di Presidenza.
Si precisa, inoltre, che il punto 12 era intitolato al vizio di motivazione proprio in relazione a quanto fin qui evidenziato, per come ribadito alle pagine 49, 50 e 51 del ricorso.
Vengono, dunque, riportati i contenuti delle testimonianze rese da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME per rappresentare come vi fosse un problema insuperabile, perché sulla base dei regolamenti vigenti, la segnalazione doveva necessariamente pervenire alla Prima Commissione, risultando confermato che il Procuratore generale avrebbe dovuto inviare il plico al Comitato di Presidenza, che, poi, a sua volta, avrebbe dovuto necessariamente inviarlo alla Prima Commissione.
1.4. Il ricorrente osserva, dunque, che tale dato è stato «omesso, nel senso che non lo ha trattato neppure per disattenderlo, ma lo ha semplicemente sostituito con altro dato totalmente travisato e definito dall’estensore ‘decisivo’ e ‘assorbente’, per confermare proprio su quello (‘di converso’) la legittimità della condanna di merito per ‘le c ondotte oggetto del primo capoverso del capo B’».
Con successive memorie in data 28/03/2025 e in data 05/05/2025 viene posto l’accento sulle ricadute dell’ errore percettivo, così indicato, in relazione alla configurabilità della scriminante de ll’art. 51 cod. pen. .
I ricorrenti osservano che, a fronte di una specifica deduzione per mancato riconoscimento illegittimo della causa di giustificazione putativa invocata dall’imputato, occorreva indicare in motivazione la ragione giuridica del rigetto del motivo d ‘impugnazione .
«E nel caso specifico -si osserva-, poiché: l’imputato aveva sin dall’inizio addotto una ragione del tutto diversa per giustificare la propria condotta, ovvero quella di evitare che la notizia pervenisse ai due diretti interessati che componevano l’organo cui sarebbe inevitabilmente pervenuta la segnalazione di Storari qualora si fosse ricorsi alla procedura ordinaria; e tale fatto è stato pienamente confermato a dibattimento da tutti i testi escussi, oltre che dalla mera lettura del regolamento imposto dalla procedura ordinaria, il mancato riconoscimento dell’invocata causa di giustificazione, quanto meno dal punto di vista putativo, imponeva, anche in sede di legittimità, che si desse atto in motivazione delle ragioni per le quali detta giustificazione doveva ritenersi infondata, o irrilevante, o anche solo inferiore rispetto ad altra ragione effettivamente accertata».
«Viceversa -si osserva ancora- la Corte di cassazione, dopo avere escluso la fondatezza delle motivazioni soggettive indicate dai precedenti due giudici di merito, ha nuovamente e totalmente omesso di considerare la regione giustificativa specifica addotta dall’imputato, per indicarne una terza, del tutto nuova, che, non solo risulta totalmente sfornita di agganci probatori, ma che si pone in evidente contrasto con il fatto accertato».
I ricorrenti concludono osservando: «il che comporta che, una volta emendato il palese errore di fatto su cui poggiava la Sentenza 1497/24, Codesta diversa Sezione della Suprema Corte dovrà nuovamente pronunciarsi sull’eventuale inconsistenza giuridica o meno della causa di giustificazione invocata dal ricorrente, per disattendere il motivo ritualmente dedotto sulla mancata applicazione dell’esimente putativa di cui all’art. 51 Cp.».
Si insiste, dunque, sull’ammissibilità del ricorso e sul suo accoglimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Va ricordato che l’errore di fatto passibile del rimedio previsto dall’art. 625bis cod. proc. pen. consiste in un errore percettivo, causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, viziato dall’inesatta percezione delle risultanze processuali che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso.
Dunque, qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio (in questo senso, tra molte, Sez. 5, n. 29240 del 01/06/2018, COGNOME, Rv. 273193 -01; Sez. 3, n. 47316 del 01/06/2017, Vinci, Rv. 271145; Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, COGNOME, Rv. 221280).
Così delineato l’ambito d el giudizio, va osservato che, con la sentenza che oggi si impugna, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso che l’odierno ricorrente aveva presentato avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia, che lo aveva condannato per il reato di rivelazione di segreti d’ufficio, commess o quale extraneus , inducendo e/o rafforzando nell’ intraneus il proposito del disvelamento degli atti coperti dal segreto.
La vicenda trova origine in un conflitto interno alla Procura della Repubblica di Milano, riferito da NOME COGNOME magistrato appartenente a quell’Ufficio, il quale denunciava una situazione di stallo per la mancata adozione di un provvedimento di iscrizione da lui sollecitato all ‘allora Capo di quella Procura, in relazione alla
emersione di fatti di rilevanza penale a carico di alcuni magistrati che, all’epoca dei fatti, erano Consiglieri del Consiglio Superiore della Magistratura.
La condotta materiale di rivelazione del segreto di ufficio è stata individuata nel fatto che l’ intraneus, (ossia COGNOME) in tale contesto, disvelava all’odierno ricorrente le notizie coperte da segreto, mentre, per definire l’asserita conflittualità interna alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, si sarebbe dovuto rivolgere al Procuratore generale della Repubblica territorialmente competente, ossia all’organo a cui, l’art. 6 del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, assegna il compito di acquisire dati al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale, l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato, nonché il puntuale esercizio da parte dei Procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti.
Tale scelta di non percorrere la via istituzionale è stata suggerita dall’odierno ricorrente e in ciò è stata individuata la condotta di induzione e/o di rafforzamento realizzata dall’ extraneus rispetto al disvelamento illecito realizzato dall’ intraneus .
2.2. Proprio su tale ultimo frammento della decisione viene individuato l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte di cassazione, con particolare riferimento alle ragioni che avevano indotto l’odierno ricorrente a suggerire un percorso diverso da quello istituzionale.
Il ricorrente, infatti, rimarca che nella sentenza si osserva -più volte- che COGNOME suggeriva a COGNOME di non rivolgersi al Procuratore generale perché quel ruolo, all’epoca dei fatti, era ricoperto da una persona di scarsa affidabilità .
Si deduce che, invece, tanto era stato suggerito per una ragione diversa, ossia perché, percorrendo la via istituzionale, i fatti, che dovevano essere tenuti riservati, sarebbero pervenuti proprio nelle mani dei magistrati coinvolti, in quanto entrambi componenti della Prima Commissione del CSM, presso la quale il Comitato di Presidenza avrebbe dovuto far pervenire il plico riservato, ai sensi della normativa secondaria all’epoca vigente.
Si precisa, infatti, che il Procuratore generale avrebbe dovuto inviare il plico riservato al Comitato di Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura che, a sua volta, avrebbe dovuto trasmetterlo alla Prima Commissione, dove sedevano i due magistrati asseritamente coinvolti nella loggia riservata, secondo quanto narrato da COGNOME.
Si puntualizza che il tema era stato devoluto con il 12° motivo d’impugnazione, con il quale era stato denunciato il ‘Vizio di motivazione per palese travisamento della prova, laddove si nega, contrariamente a quanto accertato, che l’imputato non avrebbe potuto ricorrere alla procedura ordinaria, perché tra i nominativi indicati da COGNOME comparivano due consiglieri CSM, uno dei quali (dr. COGNOME),
avrebbe presieduto la Prima Commissione, destinatario per regolamento di ogni segnalazione’.
Così delimitati i termini della vicenda e, al suo interno, la questione oggi sollevata, va ricordato che «è inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto quando l’errore in cui si assume che la Corte di cassazione sia incorsa abbia natura valutativa e si innesti su un sostrato fattuale correttamente percepito» (Sez. 6, n. 28424 del 23/06/2022, COGNOME, Rv. 283667 -01).
3.1. Ciò premesso, va rilevato che l’inaffidabilità del Procuratore generale , quale ragione per evitare la via istituzionale, viene indicata dalla Corte di cassazione quale circostanza riferita dallo stesso COGNOME, per come sottolineato alla pagina 16 della sentenza oggi impugnata, là dove si legge: «A fronte del paventato stallo rispetto alla solerte adozione del provvedimento di iscrizione sollecitato da COGNOME, la via istituzionale da seguire nel definire tale asserita conflittualità interna all’ufficio di provenienza non presentava margini di incertezza forieri di dubbi applicativi, in linea con quanto condivisibilmente rimarcato nelle conformi decisioni dei Giudici del merito.
Anzichè portare a conoscenza del Consiglio Superiore della Magistratura la vicenda in questione -contattandone un componente, in via tanto informale quanto meramente confidenziale, con modalità all’evidenza poco compatibili con la serietà e delicatezza dei temi in gioco-, COGNOME avrebbe potuto e dovuto rivolgersi al Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello territorialmente competente, chiamato, ex art. 6 d.lgs n. 106/2006, a risolvere i contrasti inerenti all’esercizio dell’azione penale e all’iscrizione delle notizie di reato.
Del resto, che fosse questa, senza incertezza di sorta, sul piano ordinamentale, la corretta via istituzionale da seguire, è aspetto che lo stesso ricorrente ha mostrato non solo di conoscere, ma anche di condividere, affermando, nel corso del suo esame dibattimentale, che tale modalità di azione non venne in concreto privilegiata a causa della ridotta affidabilità della persona che all’epoca temporaneamente rappresentava l’Ufficio della Procura Generale milanese (si veda la sentenza impugnata, pagina 106)».
Nella sentenza impugnata, quindi, si rimarca come sia stato lo stesso COGNOME, nel corso del suo esame dibattimentale, a riferire che sconsigliò a COGNOME di rivolgersi al Procuratore generale, in ragione dell’inaffidabilità della persona che ricopriva quella carica.
Tale notazione serve a evidenziare che il fatto considerato nella decisione assunta dalla Corte di cassazione è vero, reale e non contestato, così che in relazione a esso non si configura alcun errore percettivo.
Tanto vale a dire che quanto evidenziato dal ricorrente -ossia che la via istituzionale veniva sconsigliata perché avrebbe portato il plico nelle mani dei magistrati interessati- è una circostanza ulteriore rispetto a quella tenuta in
considerazione dalla Corte di cassazione, i cui effetti, nella prospettiva decisionale, non vengono elisi dall’esistenza di a ltra aggiuntiva ragione.
3.2. Tanto evidenziato, va osservato che «in tema di ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, l’omessa motivazione in ordine ad uno o più motivi di ricorso per cassazione non dà luogo ad errore di fatto rilevante a norma dell’art. 625bis cod. proc. pen., allorché il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso, ovvero qualora l’omissione sia soltanto apparente, risultando le censure formulate con il relativo motivo assorbite dall’esame di altro motivo preso in considerazione, o, ancora, quando l’omesso esame del motivo non risulti decisivo, in quanto da esso non discenda, secondo un rapporto di derivazione causale necessaria, una decisione incontrovertibilmente diversa da quella che sarebbe stata adottata se il motivo fosse stato considerato; in tale ultima ipotesi, è onere del ricorrente dimostrare che la doglianza non riprodotta era, contro la regola di cui all’art.173 disp. att. cod. proc. pen., decisiva e che il suo omesso esame è conseguenza di un sicuro errore di percezione» (Sez. 2, n. 53657 del 17/11/2016, COGNOME, Rv. 268982 -01).
Il ricorrente ha osservato che la Corte di cassazione ha più volte puntualizzato che le ragioni della mancata attivazione della via istituzionale, così come accertate dalla Corte di appello, erano da considerarsi decisive.
Va rilevato, però, che tale decisività è stata rimarcata dalla Corte di cassazione nel senso dell’assorbimento di tutte le ulteriori questioni, ivi compresa quella oggi in disamina, e non nel senso voluto dal ricorrente.
Nel ritenuto in fatto, invero, la Corte di cassazione enuncia anche il motivo esposto al punto 12 del ricorso, riassumendolo al paragrafo 6 e alle pagine 5 e 6, così dando atto di averlo tenuto in considerazione.
Nel ‘Considerato in diritto’, poi, spiega che l’elemento psicologico del reato a carico di COGNOME viene ricavato dalla dimostrata consapevolezza che la notizia riservata doveva essere veicolata al Procuratore generale e non in via confidenziale a lui stesso.
In tal senso, viene valorizzato il dato sopra indicato, accertato dalla corte di appello, perché riferito dallo stesso COGNOME in occasione del suo esame dibattimentale davanti ai giudici di merito.
Nella sentenza in esame si sottolinea che tale dato comprova la consapevolezza della illiceità della scelta di non seguire la via istituzionale, in ciò rinvenendosi l ‘esteriorizzazione del dolo generico richiesto per la configurazione del reato di cui all’art. 326 cod. pen.. .
In tale ordito argomentativo, le ulteriori ragioni che hanno indotto a suggerire strade alternative a quella istituzionale, risultano affatto ininfluenti e superflue quanto alla sussistenza di tale consapevolezza, già dimostrata con quanto affermato dallo stesso COGNOME in sede dibattimentale, ossia sulla base di un dato di fatto correttamente percepito.
Proprio in tal senso va intesa la decisività più volte affermata dalla Corte di cassazione, ossia nel senso dell’assorbimento delle ulteriori questioni connes se alla vicenda, in quanto superflue e/o ininfluenti.
Tanto viene precisato alla pagina 20 della sentenza impugnata -dove si rimarca la ‘assorbente decisività’ – e, soprattutto, ai paragrafi 10.2., 10.3. e 10.4. e alle relative pagine 20, 21 e 22, da dove emerge evidente che la decisività è riferita alla delineata consapevolezza (e non alle ragioni che hanno condotto a sviare dalla via istituzionale , per come dedotto nell’odierno ricorso ) e che tale dimostrata consapevolezza rende recessive tutte le ulteriori questioni sviluppate con il ricorso.
3.3. La decisione della Corte di cassazione, dunque, è fondata su un elemento di fatto della cui realità e corretta percezione non si dubita e che è stata ritenuta dimostrativa della consapevolezza della scelta illecita operata dall’odierno ricorrente.
Tanto vale a evidenziare come la decisione non sia fondata su di un errore di percezione, ma su un dato di fatto correttamente percepito e la cui valutazione e portata assorbente ritenuta dai giudici non può essere oggetto di ricorso straordinario.
3.4. Tale portata assorbente, peraltro, viene rimarcata nella sentenza impugnata, proprio con specifico riferimento alla dedotta possibilità che la notizia riservata potesse giungere nelle mani degli stessi membri del CSM asseritamente coinvolti nella c.d. Loggia Ungheria, laddove, seguendo la via istituzionale, gli atti fossero stati trasmessi al Procuratore generale.
A tale riguardo, invero, nella sentenza impugnata si sottolinea che l’accesso del CSM agli atti coperti da segreto investigativo era tutt’altro che automatico e sostanzialmente ipotetico, atteso che , in base alla normativa vigente all’epoca dei fatti, era nella facoltà del Procuratore generale, ove investito della questione, di non ostenderne il contenuto.
Da ciò si traeva la conclusione che, anche sotto l’ ulteriore profilo paventato dal ricorrente, la scelta di non percorrere la via istituzionale risultava comunque ingiustificata, al pari della ritenuta inaffidabilità della persona che rivestiva il ruolo istituzionale d’interesse .
Tanto si ricava chiaramente dalla lettura della sentenza impugnata, dove ai paragrafi 7.2. e 7.3. viene trattato il tema della consapevolezza della illiceità dello sviamento dalla via istituzionale per la ritenuta inaffidabilità della persona del procuratore generale, e al paragrafo 7.4. si rimarca come -parimenti- risultava ‘ manifestamente inconferente ‘ anche l’ulteriore giustificazione addotta, attesa la natura meramente ipotetica del costrutto secondo cui il coinvolgimento del Procuratore generale avrebbe senz’altro comportato la trasmissione degli atti al Consiglio Superiore della Magistratura.
Per maggiore chiarezza e completezza, si riportano i brani ora citati, dalla cui lettura emerge che il tema che si assume omesso, invece, è stato puntualmente affrontato nella sentenza impugnata, dove se ne evidenziava la natura congetturale, se confrontato alla normativa primaria e secondaria vigente all’epoca dei fa tti, per come evidenziato anche dalla Corte di appello di Brescia:
« A fronte del paventato stallo rispetto alla solerte adozione del provvedimento di iscrizione sollecitato da COGNOME, la via istituzionale da seguire nel definire tale asserita conflittualità interna all’ufficio di provenienza non presentava margini di incertezza forieri di dubbi applicativi, in linea con quanto condivisibilmente rimarcato nelle conformi decisioni dei Giudici del merito.
Anzichè portare a conoscenza del Consiglio Superiore della Magistratura la vicenda in questione -contattandone un componente, in via tanto informale quanto meramente confidenziale, con modalità all’evidenza poco compatibili con la serietà e delicatezza dei temi in gioco-, COGNOME avrebbe potuto e dovuto rivolgersi al Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello territorialmente competente, chiamato, ex art. 6 d.lgs n. 106/2006, a risolvere i contrasti inerenti all’esercizio dell’azione penale e all’iscrizione delle notizie di reato.
7.3. Del resto, che fosse questa, senza incertezza di sorta, sul piano ordinamentale, la corretta via istituzionale da seguire, è aspetto che lo stesso ricorrente ha mostrato non solo di conoscere, ma anche di condividere, affermando, nel corso del suo esame dibattimentale, che tale modalità di azione non venne in concreto privilegiata a causa della ridotta affidabilità della persona che all’epoca temporaneamente rappresentava l’Ufficio della Procura Generale milanese (si veda la sentenza impugnata, pagina 106).
Dato, questo, mai sottoposto a revisione critica da parte del ricorso; e che, di converso, assume una assorbente decisività nell’ottica della confermata affermazione di responsabilità, anche sotto il versante soggettivo, per quel che più avanti si dirà.
7.4. Anche a voler ritenere, come in tesi prospettato dal ricorrente, che le dichiarazioni di COGNOME – nella parte in cui riguardavano il funzionamento dell’organo di autogoverno della Magistratura nella precedente consiliatura, in tesi influenzato dalla loggia segreta descritta dal predetto dichiarante – potessero in qualche modo investire le competenze ascritte al Consiglio Superiore, prescindendo dal formale coinvolgimento di Magistrati nella relativa indagine, ciò malgrado non si perviene comunque ad una conclusione diversa: una tale prospettiva, infatti, non consentiva e non consente comunque di ritenere le esigenze sottese al segreto investigativo, apposto sui relativi verbali di interrogatorio, recessive rispetto a quelle di acquisizione “consiliare” dei relativi dati conoscitivi, per l’evidente erroneità della ricostruzione della pertinente normativa di riferimento.
A fronte della segretazione imposta dalla disciplina normativa primaria (nel caso in esame dall’art. 329 cit.), si è puntualmente evidenziato nella impugnata
sentenza che le fonti normative secondarie destinate ad incidere sul tema (ossia le circolari consiliari deliberate tra il 1994 e il 1995, ivi citate alla pagina 101) rendevano e rendono meramente facoltativo e, dunque, tutt’altro che automatico l’accesso del Consiglio Superiore della Magistratura ad atti coperti dal segreto investigativo, legati a notizie di reato o, comunque, a fatti o circostanze che possano lambire le competenze dell’Ufficio giudiziario procedente: quest’ultimo infatti (in persona del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello o del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, in forza dell’ultima delle circolari citate, quella del 17 maggio 1995) potrebbe sempre rifiutarne l’ostensione, omettendo la trasmissione e giustificando le ragioni di opportunità di una siffatta scelta.
Il che, ancora una volta, rendeva manifestamente inconferente la soluzione privilegiata dai due concorrenti, vieppiù se filtrata alla luce della imprescindibile comparazione tra la delicatezza della materia gestita, per la rilevante connotazione pubblicistica delle ragioni sottese all’apposizione del segreto investigativo, e la chiarezza del percorso istituzionale predisposto dall’ordinamento nel definire la situazione di difficoltà in cui, a suo dire, si era trovato COGNOME nel gestire l’attività di indagine conseguenziale alle dichiarazioni rese da COGNOME».
3.5. Da quanto fin qui esposto si raggiungono due conclusioni:
il fatto valorizzato dalla Corte di cassazione per ritenere la sussistenza del dolo generico -ossia il consapevole sviamento dalla via istituzionale per la ritenuta ridotta affidabilità del Procuratore generale- è un dato processualmente accertato e correttamente percepito, insindacabile in questa sede nella prospettiva valutativa;
l’ulteriore ragione addotta a giustificazione dalla scelta di non seguire la via istituzionale -secondo la quale il coinvolgimento del Procuratore generale avrebbe comportato la necessaria trasmissione degli atti al CSM, con la conseguenza che essi sarebbero stati portati a conoscenza dei magistrati che si assumevano coinvolti nella c.d. Loggia Ungheria- è stata puntualmente considerata nella sentenza impugnata, dove si è sottolineato che tale evenienza era meramente ipotetica, contrastava con la normativa primaria e secondaria vigente all’epoca dei fatti (che lasciava al Procuratore generale la facoltà di trasmettere o meno gli atti coperti da segreto investigativo al CSM) ed era comunque ingiustificata rispetto alla delicatezza della materia e alle rilevanti connotazioni pubblicistiche sottese all’apposizione del segreto investigativo, oltre che ‘manifestamente inconferente rispetto alla «chiarezza del percorso istituzionale predisposta dall’ordinamento nel definire la situazione di difficoltà in cui -a suo dire- si era trovato COGNOME ».
Con le memorie in data 28/03/2025 e in data 05/05/2025 si assume che l’esatta individuazione della ragione che ha condotto a suggerire lo sviamento dal percorso istituzionale avrebbe delle ricadute quanto alla configurabilità della
scriminante dell’art. 51 cod. pen., sulla quale la Corte di cassazione avrebbe omesso di pronunciarsi.
4.1. Quanto esposto ai paragrafi precedenti dimostra la manifesta infondatezza dell ‘assunto , visto che la sentenza impugnata si è occupata anche della ragione sottesa allo sviamento dal percorso istituzionale che si assume omessa, tanto da non lasciare spazio all’assunto secondo cui la Corte di cassazione non avrebbe dato risposta alle ricadute in punto di configurabilità della scriminante dell’adempimento del dovere, sia pure in ipotesi putativa.
4.1. Anche in questo caso, al contrario di quanto dedotto, la Corte di cassazione si è occupata della scriminate dell’adempimento del dovere in ipotesi putativa, negando la sua configurabilità sulla scorta della piena consapevolezza della illiceità della scelta di non percorrere la via istituzionale.
Scelta che -per come visto- si è ritenuta ingiustificata sia in relazione alla assunta inaffidabilità del Procuratore generale, sia in relazione al paventato pericolo che gli atti pervenissero nelle mani dei componenti del CSM asseritamente coinvolti nella Loggia Ungheria, ove si fosse seguita la via istituzionale.
Si legge, infatti, al paragrafo 10.2. della sentenza impugnata:
«10.2. Tale consapevolezza assume, per quanto già anticipato, un portato di assorbente decisività.
10.2.1. Per un verso esclude a monte la possibilità di ritenere obbligata, anche nell’intimo, seppur erroneo, convincimento dell’imputato, la condotta delittuosa messa in atto, così da neutralizzare, senza incertezze, la rivendicata applicabilità dell’art. 51 cod. pen., atteso che, per una scelta del tutto personale e marcatamente arbitraria, il ricorrente – nel manifestare la sua opinione all’ intraneus , determinante nel quadro della rivelazione del segreto da questi operata -ha ritenuto di trascurare volutamente quella ritualmente prevista dall’ordinamento per ovviare al problema che si intendeva risolvere».
Nella sentenza impugnata, dunque, è stato affrontato il tema della scriminante in forma putativa dell’adempimento del dovere , escludendone la sua configurabilità in ragione della consapevolezza della illiceità della scelta di non percorrere la via istituzionale.
4.2. Il compiuto esame della questione è dimostrato anche dal fatto che il tema delle ricadute sull’elemento soggettiv o (e quindi della scriminante putativa) è stato affrontato dalla Corte di cassazione anche in relazione a un ulteriore profilo, pure prospettato al punto 26 del ricorso originario ed evocato con l’odierno ricorso.
In quel punto 26, invero, si sosteneva, in via principale, che potesse configurarsi la scriminante putativa e, in via subordinata, si deduceva l’errore dell’imputato determinato tra l’altro – dalle interpretazioni date dal CSM nelle circolari, risoluzioni e risposte ai quesiti, sottolineandosi che «ciò vale anche per l’esimente
di cui all’art. 51 Codice Penale, ritenuta sussistente dall’imputato senza che in tale valutazione sia ravvisabile colpa».
La Corte di cassazione ha dato puntuale risposta anche al tema così introdotto, visto che al paragrafo 10.2.2., dopo avere escluso (al precedente paragrafo 10.2.1., già riportato) la configurabilità della scriminante putativa, affronta anche la questione della possibilità che il ricorrente fosse incorso in un errore del dato normativo di riferimento, tale da giustificare l’applicazione dell’art. 47, comma terzo, cod. pen..
Si legge, infatti, nella sentenza:
« 10.2. Tale consapevolezza assume, per quanto già anticipato, un portato di assorbente decisività.
10.2.1. Per un verso esclude a monte la possibilità di ritenere obbligata, anche nell’intimo, seppur erroneo, convincimento dell’imputato, la condotta delittuosa messa in atto, così da neutralizzare, senza incertezze, la rivendicata applicabilità dell’art. 51 cod. pen., atteso che, per una scelta del tutto personale e marcatamente arbitraria, il ricorrente – nel manifestare la sua opinione all’ intraneus , determinante nel quadro della rivelazione del segreto da questi operata – ha ritenuto di trascurare volutamente quella ritualmente prevista dall’ordinamento per ovviare al problema che si intendeva risolvere.
10.2.2. Per altro verso, costituisce un ulteriore tassello a conferma della piena condivisibilità della valutazione operata dai Giudici del merito nell’escludere, quantomeno con riguardo al COGNOME, che la relativa condotta potesse ritenersi ammantata da una erronea comprensione del dato normativo di riferimento, tale da giustificare l’applicabilità dell’art. 47, comma 3, cod. pen..
La consapevolezza del corretto percorso istituzionale da suggerire a COGNOME per superare la situazione di stallo che questi ebbe a rappresentargli prima di procedere alla rivelazione del segreto; la cautela necessariamente imposta dalla presenza di una segretazione imposta ex lege; il contenuto normativo, di non particolare complessità, della disciplina regolamentare dettata dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura quanto alle modalità di gestione di vicende di interesse del detto organo coperte dal sequestro investigativo, tutt’altro che rare, costituiscono elementi che, partitamente e globalmente vagliati, danno piena ragione giustificativa della correttezza della decisione sul punto assunta dai Giudici del merito.
Sono, quelli or ora indicati, tutti argomenti che, letti alla luce dello spessore professionale del ricorrente e delle sue specifiche competenze acquisite nel tempo anche sul piano ordinamentale proprio in ragione della carica rivestita all’epoca dei fatti, del tutto coerentemente sono stati apprezzati a sostegno della ritenuta insussistenza di un errore sul fatto».
Anche il tema della possibilità di configurare la scriminante dell’adempimento del dovere in ipotesi putativa, quindi, viene esaminato in tutti i profili in cui è stato prospettato nel ricorso ordinario, peraltro ritenuti assorbiti in ragione della consapevolezza dell’illicei tà della condotta tenuta e in considerazione della rilevata incompatibilità tra tale consapevolezza e la scriminante, oltre che escludendosi la possibilità di un errore ai sensi dell’art. 47, comma terzo, cod. pen. sulla comprensione del dato normativo di riferimento.
Va rimarcato come il riferimento alla disciplina regolamentare richiami quanto esposto nel paragrafo 7.4. (sopra riportato) della sentenza impugnata, dove si sottolineava che l’idea secondo cui il rispetto della via istituzionale avrebbe necessariamente portato gli atti nelle mani dei magistrati che sedevano nella Prima Commissione del CSM contrastava con la normativa primaria e secondaria, per come anche sottolineato dai giudici della Corte di appello di Brescia.
La lettura coordinata, complessiva e non parcellizzata della motivazione, porta a concludere che la sentenza impugnata ha trattato tutti i temi che oggi si assumono omessi, senza incorrere in alcun errore percettivo, dovendosi ricordare il principio generale secondo il quale la pronuncia costituisce un tutto coerente e organico, nel cui ambito ogni punto va posto in relazione agli altri, potendo la ragione di una determinata statuizione risultare anche da altri punti della sentenza ai quali sia stato fatto richiamo, sia pure implicito, così che il vizio di omessa motivazione non può essere ravvisato sulla base di una critica frammentaria dei suoi singoli punti.
Quanto esposto conduce alla declaratoria d ‘ inammissibilità del ricorso, cui segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 21/05/2025