Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 44537 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 44537 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 19/11/2024
SENTENZA
sul ricorso straordinario proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Torre del Greco il 03/08/1965
avverso la sentenza del 29/11/2023 della Corte di cassazione letti gli atti, il ricorso e l’ordinanza impugnata; udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME udite le conclusioni del Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore, Avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.11 difensore e procuratore speciale di NOME COGNOME ha proposto ricorso straordinario avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Seconda Sezione di questa Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto avverso la sentenza emessa il 19 settembre 2022 dalla Corte di appello di Napoli, che aveva confermato l’affermazione di responsabilità del COGNOME per i reati di concorso
esterno in associazione mafiosa e di estorsione aggravata, rispettivamente contestati ai capi A) e C).
Tre sono gli errori di fatto in cui sarebbe incorsa questa Corte.
1.1. GLYPH Il primo errore di fatto viene individuato nella dichiarazione cli inammissibilità del quarto motivo di impugnazione con il quale si eccepiva l’inutilizzabilità degli atti di indagine successivi al decreto di archiviazione assenza di un provvedimento di riapertura delle indagini, con particolare riferimento alla testimonianza del m.11o COGNOME.
Dopo aver riprodotto integralmente il quarto motivo di impugnazione e ricostruito puntualmente l’iter processuale successivo alla proposizione dell’eccezione in primo grado, riportando l’ordinanza del Tribunale e la documentazione integrativa prodotta dal P.m. alle udienze del 7, 14 e 25 settembre 2020, dalla quale emergeva che il COGNOME era già iscritto nell’ambito del proc. pen. n. 24509/2010 per i delitti di estorsione, il difensore evidenzia che sia il Tribunale e la Corte di appello, sia questa Corte avevano erroneamente affermato che il procedimento archiviato fosse a carico di ignoti.
In particolare, evidenzia che questa Corte, pur dando atto del deposito cii una memoria di replica alla requisitoria del PG e di ulteriore documentazione, aveva condiviso le argomentazioni dei giudici di merito e censurato la mancata allegazione del decreto di archiviazione nei confronti del COGNOME in relazione al reato di estorsione di cui al capo C) o la mancata trascrizione con allegazione degli estremi.
Sostiene, invece, il ricorrente che nella memoria era richiamata la documentazione prodotta dal P.m. all’udienza del 14 settembre 2020 – dalla quale risultava che il COGNOME era già iscritto nel procedimento n.24509/2010, definito con archiviazione anche per il reato di estorsione nei confronti della persona offesa NOME COGNOME– e che alla memoria era stata allegata la documentazione prodotta dal P.m. proprio al fine di dimostrare l’errore di valutazione della Corte territoriale e del P.G., ma detta documentazione, nuovamente allegata al ricorso, non è stata esaminata, determinando l’errore di fatto di questa Corte, che, come già detto, ha contestato l’omessa indicazione degli estremi del decreto di archiviazione. Conseguentemente, la decisione si fonda su un presupposto erroneo, che ha falsato la decisione, trattandosi di un elemento decisivo.
1.2. Il secondo errore di fatto riguarda il diciottesimo motivo di impugnazione e il quinto motivo aggiunto, relativi alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 I. n. 203/91, attuale art.416-bis.1 cod. pen., nell duplice declinazione del metodo e dell’agevolazione mafiosa. Su tale punto questa Corte ha omesso di motivare, avendo erroneamente ritenuto idonea la motivazione resa nella sentenza di appello.
Invece, la difesa aveva dedotto l’insussistenza del metodo mafioso per non essere state utilizzate modalità intimidatorie per realizzare l’estorsione, tant’è che persino il collaboratore di giustizia NOME NOME aveva ritenuto il pagamento un atto di liberalità piuttosto che un’estorsione.
Si riporta a tal fine la deposizione del collaboratore, che in dibattimento aveva escluso che il COGNOME avesse fermato i lavori e reso dichiarazioni diverse da quelle rese al PM nel 2015 in merito ai passaggi del denaro consegnato dal COGNOME, persona offesa, prima di giungere nelle mani del dichiarante e alla quota trattenuta dal COGNOME.
Era stata contestata la sussistenza dell’aggravante anche sotto il profilo dell’agevolazione, non essendo provata la consapevolezza del COGNOME, concorrente esterno, di agevolare il clan mediante la turbativa della gara per l’aggiudicazione dell’appalto della nettezza urbana al Ciummo, che gli elargiva un compenso in segno di riconoscenza per l’appalto vinto, risultando inconferente il riferimento alla captazione della famiglia COGNOME perché non attinente alla vicenda in esame.
A fronte di tali specifiche censure questa Corte si è limitata ad affermare la sussistenza dell’aggravante sotto il duplice profilo del metodo mafioso per l’imposizione del pizzo a cadenze regolari e dell’agevolazione dell’organizzazione camorristica per la consapevolezza del COGNOME della destinazione delle somme estorte alle casse del clan.
1.3. Un ulteriore errore di fatto riguarda il quindicesimo motivo di impugnazione relativo all’aggravante di cui al quarto comma dell’art. 416-bis cod. pen.
La difesa aveva contestato la valutazione della Corte di appello sul punto per assenza di consapevolezza e di profili di colpa del COGNOME sulla disponibilità di armi da parte dei clan COGNOME e COGNOME, non essendo sufficiente la disponibilità di armi da parte di un associato, in quanto le uniche armi di cui era a conoscenza il ricorrente erano quelle con cui il COGNOME lo aveva minacciato; né risultava conferente il riferimento del COGNOME ai casalesi in una conversazione del dicembre 2011, nella quale non vi era alcun riferimento alle armi, né risultavano fatti di sangue nel biennio in cui si colloca la condotta del ricorrente.
Anche sul punto vi è un errore di fatto per avere questa Corte fatto riferimento ad un’intercettazione, che non contiene alcun accenno alle armi, ma dalla quale si è desunta la conoscenza delle dinamiche associative e della disponibilità di armi da parte del clan. La difesa rappresenta di aver prodotto presso la cancelleria di questa Corte ulteriori sentenze relative al territorio di Torre del Greco per confutare la tesi dei giudici di merito, ma anche questo elemento non è stato considerato nella sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è inammissibile perché proposto per motivi che esulano dal perimetro del rimedio straordinario utilizzato, atteso che il ricorrente impropriamente deduce errori di diritto e non di fatto.
Precisato, infatti, che l’errore di fatto verificatosi nel giudizio di legittimit oggetto del rimedio previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen. consiste in un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte ci cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall’influenza decisiva esercitata sul processo formativo della volontà, è pacifico che qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall’orizzonte del rimedio previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen. (Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, COGNOME, Rv. 250527; Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, COGNOME, Rv. 263686).
2.11 primo motivo relativo all’inutilizzabilità degli atti di indagine successivi al decreto di archiviazione emesso nel proc. n. 24509/2010 iscritto il 7 maggio 2010, non seguito da un provvedimento di autorizzazione alla riapertura delle indagini, palesemente deduce un errore di diritto e non di fatto.
Secondo la prospettazione del ricorrente l’errore in cui sarebbe incorsa questa Corte riguarderebbe appunto l’iscrizione del COGNOME per il delitto di estorsione aggravata, definito con il decreto di archiviazione prodotto dal P.m. nel corso del dibattimento di primo grado, come si ricava anche dalla documentazione non solo richiamata, ma allegata al ricorso, a differenza di quanto affermato in sentenza, laddove questa Corte censura la mancata allegazione del decreto e afferma che l’archiviazione riguardava un procedimento a carico di persona non identificata.
Il motivo è destituito di ogni fondamento perché la censura di questa Corte espressamente si riferisce alla mancata produzione del decreto di archiviazione relativo all’estorsione di cui al capo C) – pag. 7 sentenza impugnata-, mentre é lo stesso ricorrente a dare atto che l’estorsione cui si riferiva la produzione del P.m. era quella di cui al capo B) in danno di NOME (pag. 20 ricorso); peraltro, dalla documentazione trascritta nel ricorso risulta che il proc. n. 24509/10, iscritto il 7 maggio 2010, contemplava anche il nome del COGNOME per concorso in corruzione aggravata dall’art. 7 d.l. 152/91 accertata il 30 luglio 2014 e un’estorsione aggravata dall’art. 7 d.l. 152/91 commessa nel 2008 (v. pag. 15 ricorso), a riprova delle progressive iscrizioni in ordine alle quali non vi é
specifica dimostrazione dell’avvenuta archiviazione, non essendo documentata l’intervenuta archiviazione mediante produzione del decreto, come rilevato anche dal PG di udienza.
Ne deriva che correttamente questa Corte ha ritenuto precluso, in presenza di un decreto di archiviazione e della mancata riapertura delle indagini, l’esercizio dell’azione penale per lo stesso fatto di reato da parte del medesimo ufficio del P.m., ma altrettanto correttamente ha escluso che detta ipotesi si fosse verificata nel caso di specie, atteso che con l’emersione di indizi di reità a carico del COGNOME era stata operata una separata iscrizione e uno stralcio, come da annotazione rilevabile dagli atti allegati.
Anche con il secondo motivo si deduce palesemente un errore di diritto e non di fatto, attinente alla valutazione del materiale probatorio integrante l’aggravante mafiosa nella duplice declinazione oggettiva e soggettiva. All’evidenza il ricorrente censura la motivazione resa sul punto e propone una lettura alternativa e riduttiva del fatto, sostenendo che persino il collaboratore di giustizia COGNOME avrebbe escluso il ricorso ad intimidazioni, avendo la persona offesa affermato che si trattava di “un pensiero”, trascurando le convergenti dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia sui rapporti tra l’imputato ed esponenti della criminalità organizzata, sul suo ruolo di intermediario dei clan all’interno del comune di Torre del Greco e sul suo coinvolgimento nelle estorsioni relative agli appalti pubblici. In particolare, l’obiezione trascura rilievo attribuito alle dichiarazioni del COGNOME, che aveva ammesso di aver gestito personalmente l’estorsione di cui al capo C) ed era conoscenza diretta dei fatti (pag. 7-8 sentenza impugnata).
Analoghe considerazioni valgono per il profilo soggettivo dell’aggravante, alla luce delle convergenti dichiarazioni dei collaboratori sul coinvolgimento del COGNOME nelle estorsioni alle imprese, affidatarie di appalti pubblici, alle quali estorceva denaro, riversandone parte agli esponenti del clan, nonché ai plurimi riscontri risultanti da intercettazioni ambientali, dimostrativi dei ripetuti incont con il legale rappresentante della Eco Ego per esigere il pagamento di quote estorsive per conto dei clan COGNOME e COGNOME in parte trattenute per sé e in parte consegnate agli esponenti di dette organizzazioni criminali (pag. 8-9 sentenza impugnata).
Analogamente anche l’ultimo motivo formalmente deduce un terzo errore di fatto che, in realtà, investe la valutazione probatoria degli elementi considerati ai fini della configurabilità dell’aggravante, elencati a pag. 10 della sentenza impugnata e costituiti essenzialmente dalla natura dei rapporti intrattenuti dal COGNOME con i clan, dalla disponibilità di armi da parte di dette
associazioni criminali, risultante da sentenze passate in giudicato acquisite, nonché da alcuni colloqui intercettati, sicché la contestazione relativa solo a quest’ultimo elemento, oltre ad essere del tutto generica, non è dirimente.
Le censure difensive si risolvono, pertanto, in una contestazione del profilo valutativo delle affermazioni contenute in sentenza, benché non siano in ogni caso censurabili, ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen., né il travisamento del fatto né il travisamento della prova, che esulano dai confini del ricorso straordinario, previsto per eliminare i vizi di percezione e non anche quelli di ragionamento (Sez. 3, n. 11172 del 15/12/2023, dep. 2024, Dema, Rv. 286048).
Le considerazioni che precedono destinano il ricorso alla inammissibilità ed alla conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, equitativamente determinata in tremila euro.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso, 19 novembre 2024
Il consigliere estensore
GLYPH