Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 43097 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 43097 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 30/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a NAPOLI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 19/09/2023 della CORTE DI CASSAZIONE di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del PG NOME COGNOME che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 19 settembre 2023, la Prima sezione di questa Corte di Cassazione, per quanto qui di interesse, rigettava il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME avverso la pronuncia della Corte di appello di Napoli del 22 luglio 2022 che l’aveva ritenuto responsabile dei reati ascrittigli ai capi 1 e 126 della rubrica (assolvendolo dal delitto di cui al capo 127 per il quale il Tribunale aveva pronunciato condanna), riconosciuta la recidiva ed unificati gli stessi ai sensi e per gli effetti dell’art. 81 cpv cod. pen. con quelli giudicati con le sentenze della medesima Corte di appello, la prima del 15 giugno 2017, irrevocabile l’11 dicembre 2018, la seconda del 9 aprile 2018, irrevocabile il 21 giugno 2018, ed aveva così rideterminato la pena complessiva in anni 23 di reclusione.
Propone ricorso per errore di fatto, ai sensi dell’art. 625 bis cod. proc. pen., il condannato, a mezzo del proprio difensore AVV_NOTAIO, articolando le proprie censure in due motivi.
2.1. Con il primo eccepisce l’errore di fatto compiuto dalla Prima sezione in riferimento a quanto argomentato nel primo e nel secondo motivo del ricorso originario in ordine alla ritenuta colpevolezza dell’COGNOME per i delitti associativi contestatigli ai capi 1 e 126, rispettivamente ai sensi degli artt. 416 bis cod. pen. e 74 d.P.R. n. 309/1990, in entrambi i casi ricoprendo un ruolo di vertice.
La Prima sezione aveva rigettato i suddetti motivi di ricorso ritenendo che la Corte d’appello avesse congruamente motivato sulla attribuibilità al prevenuto del soprannome “NOME“, ritenuto, alla stregua del contenuto delle conversazioni intercettate, personaggio di vertice delle consorterie. Ruolo che, peraltro, NOME aveva rivestito anche in precedenza, fino al 2010. E che emergeva anche da quanto riferito dai collaboratori di giustizia COGNOME e COGNOME.
In realtà, osserva il ricorrente, nel ricorso originario si era censurato il percorso argomentativo che aveva condotto la Corte di merito ad identificare l’COGNOME nel “NOME” citato nelle conversazioni intercettate. Anche considerando che, in relazione ad altre imputazioni, si era pervenuti alla conclusione opposta, tanto da assolvere (già in prime cure) NOME dalle condotte estorsive contestategli ai capi 99, 100 e 117.
La Prima sezione aveva poi erroneamente ritenuto che, nel ricorso originario, non si fossero contestati i seguenti dati (nel loro valore probatorio):
la condanna del prevenuto in altro giudizio per la partecipazione, sempre in posizione apicale, al RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, partecipazione protrattasi almeno fino al 2010 e
la sua latitanza, a seguito dell’applicazione di misura di cautela conseguente al medesimo delitto associativo, protrattasi dal maggio 2012 all’agosto 2015;
la circostanza che, dalle propalazioni dei collaboranti COGNOME e COGNOME e dalle conversazioni intercettate, dovesse dedursi (nel nuovo processo) il conservato ruolo di vertice del prevenuto nel RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, almeno fino al 2013.
Tutte circostanze che il ricorrente assumeva, invece, di avere, invece, contestato quanto alla loro concludenza.
Rilevava il ricorrente che non avrebbe potuto attribuirsi una valenza probatoria al supposto stato di latitanza dell’COGNOME sia perché, dalla conversazione intercettata citata in sentenza, il dato non era affatto emerso in modo inequivoco (si era solo rilevato come il prevenuto “va scappando”), sia perché tale circostanza non poteva costituire un concreto indizio della perdurante partecipazione dell’COGNOME al sodalizio (anche considerando che l’arresto, che alla latitanza aveva posto fine, era avvenuto in luogo diverso da quello ove il RAGIONE_SOCIALE abitualmente operava).
La Corte di merito aveva poi incongruamente superato l’evidente contraddizione fra il NOME (ritenuto l’COGNOME) ed il fatto che, in una conversazione intercettata, si fosse affermato che tale soggetto non aveva subito “periodi di carcerazione”, diversamente da quanto accaduto all’odierno condannato, solo valorizzando il fatto che si era fatto riferimento a “lunghi” periodi di carcerazione, come tali non incompatibili con i pregressi del prevenuto.
Né corrispondeva al vero che i collaboratori di giustizia COGNOME e COGNOME avessero riferito che COGNOME risultasse un compartecipe del RAGIONE_SOCIALE COGNOME fino al 2013, tanto che non si erano neppure indicate le specifiche dichiarazioni da cui lo si era potuto dedurre. Né ciò aveva trovato conferma nelle ricostruzioni di altri dichiaranti che, anzi, avevano riferito come, a partire dal 2010, il prevenuto ne fosse stato allontanato.
Si era poi omesso di considerare che si era accertato in giudizio come il RAGIONE_SOCIALE avesse mutato la sua struttura di vertice fin dal 2012.
2.2. Con il secondo motivo lamenta l’errore di fatto in cui la Prima sezione sarebbe incorsa in relazione a quanto dedotto nell’undicesimo motivo del ricorso originario, relativo alla illegalità della pena fissata per il delitto associativo punit ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. perché calcolata secondo i limiti edittali introdotti con la modifica legislativa del maggio 2015.
Si era eccepito, sul punto, il difetto assoluto di motivazione da parte della Corte di appello.
La Prima sezione, sul punto, si era limitata ad affermare che la diversa associazione a delinquere volta al traffico di stupefacenti era proseguita fino al
2016, così da doversi dedurre anche l’operatività fino a tale data del sodalizio mafioso di cui la citata associazione era diretta promanazione.
Si era così omesso di considerare che era la pubblica accusa a dovere dimostrare che il RAGIONE_SOCIALE mafioso avesse anch’esso proseguito la propria attività fino a tale data. E come il singolo imputato vi avesse, fino ad allora, partecipato.
Prova che era del tutto mancata alla stregua anche di quanto si era osservato in ordine agli errori di fatto denunciati nel primo motivo del presente ricorso.
Nessuno dei collaboratori di giustizia aveva, infatti, riferito che l’operatività del sodalizio era proseguita fino all’indicato 2016, né ciò poteva evincersi dalle conversazioni intercettate, tutte del 2012, l’anno in cui, poi, come si è ricordato, era mutato il vertice della consorteria.
Né la permanenza del delitto fino al 2016 poteva essere dedotta dagli elementi circostanziali ricordati nella parte generale della sentenza impugnata (che si riportavano, contestandone il significato probatorio).
Il Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte, nella persona del sostituto NOME COGNOME ha inviato requisitoria scritta con la quale ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso promosso nell’interesse dell’COGNOME è inammissibile.
Si è, infatti, autorevolmente precisato che, in tema di ricorso straordinario per errore di fatto, qualora la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio, come tale escluso dall’orizzonte del rimedio previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen. (Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, Moroni, Rv. 263686).
Si è, pertanto, ulteriormente precisato come:
sia inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto quando l’errore in cui si assume che la Corte di cassazione sia incorsa abbia natura valutativa e si innesti su un sostrato fattuale correttamente percepito (Sez. 6, n. 28424 del 23/06/2022, COGNOME, Rv. 283667);
il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso i provvedimenti della Corte di cassazione non possa avere ad oggetto il travisamento del fatto o della prova, poiché l’istituto è funzionale a rimuovere i vizi di percezione delle pronunce di legittimità, e non anche quelli del ragionamento (Sez. 3, Sentenza n. 11172 del 15/12/2023, dep. 2024, Dema, Rv. 286048);
non dia luogo a errore di fatto rilevante a norma dell’art. 625-bis cod. proc. pen. l’omesso scrutinio di specifiche deduzioni contenute in un motivo di ricorso per cassazione, qualora le stesse siano state implicitamente valutate e disattese dalla Corte (Sez. 5, n. 26271 del 26/05/2023, COGNOME, Rv. 284697).
Data le superiori premesse in ordine al perimetro dell’errore di fatto, rilevante ai fini del rimedio previsto dall’art. 625 bis cod. proc. pen., appare evidente come tutte le censure mosse nel ricorso lo travalichino, posto che – dalla contraddittorietà dell’identificazione del “NOME” citato nelle conversazioni intercettate, alla valutazione del portato probatorio delle stesse conversazioni e delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia – afferiscono tutte a presunti errori di valutazione, o di travisamento, della prova.
Già solo per questo ne deriva l’inammissibilità dei motivi.
Peraltro, le obiezioni mosse, con l’appello e con il ricorso originario prima ed oggi impropriamente replicate con il ricorso straordinario, avevano trovato adeguata risposta nella sentenza della Prima sezione, che si assume ora essere il portato di una serie di errori di fatto decisivi.
3.1. Quanto alla identificazione del “NOME” nell’COGNOME, in relazione ai due delitti associativi (e non ai singoli fatti estorsivi), la Prima sezione aveva richiamato le considerazioni della Corte di merito (rinvenibili a pg. 304 e ss della sentenza d’appello) in ordine alla sicura identificazione del prevenuto nel “NOME” a cui nelle conversazioni intercettate si era fatto riferimento, anche perché tale deduzione aveva trovato adeguata conferma in altre circostanze quali, fra le altre, l’utilizzo di ulteriori soprannomi che sempre all’COGNOME appartenevano.
Diversamente da quanto era avvenuto per le singole estorsioni rispetto alle quali la possibilità di individuare l’COGNOME nel “NOME” ivi citato non si era potuta giovare di altri elementi di conferma (tanto da essere da queste assolto già dal Tribunale)
Senza che poi possa neppure ipotizzarsi un errore di fatto (e non, eventualmente, di giudizio) nella interpretazione data, dai giudici del merito prima e dalla Prima sezione poi, in ordine al “NOME” ed ai periodi di detenzione, più o meno “lunghi”, che questi avrebbe patito nel corso della sua vita.
3.2. Quanto alla partecipazione dell’COGNOME al sodalizio, con ruolo apicale (in perfetta continuità con il giudicato di una precedente sentenza, fino all’anno 2010), la Prima sezione aveva ritenuto parimenti prive di manifesti vizi logici le
considerazioni della Corte di merito in ordine alle conferme provenienti dalle conversazioni intercettate e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
A tali fonti si era poi aggiunto il fatto che l’COGNOME era rimasto latitante per anni, così dimostrando di poter disporre delle complicità e delle disponibilità economiche necessarie a mantenere tale stato (che ben potevano essere valorizzate come ulteriore indice di partecipazione alla consorteria).
3.3. Quanto alla data della cessata permanenza dei delitti associativi, ed in particolare del delitto punito dall’art. 416 bis cod. pen., oltre alla data della intervenuta modifica dei limiti edittali delle pene ivi previste (con l’art. 5, comma 1, lett. a), L. 27 maggio 2015, n. 69), deve innanzitutto considerarsi che la latitanza era stato ritenuto uno degli indici da cui dedurre la permanente appartenenza del prevenuto al RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE – con giudizio non censurabile con il rimedio di cui all’art. 625 bis cod. proc. pen. – e che tale stato era cessato nell’agosto del 2015 e, quindi, in data successiva al ricordato innalzamento dei limiti edittali.
Né può considerarsi un errore di fatto (e, per vero, neppure di giudizio), la valutazione della Prima sezione circa il fatto che la operatività dell’associazione mafiosa dovesse coincidere, sul piano cronologico, con quella dell’associazione volta al traffico di stupefacenti, tanto più che si era accertato che la seconda altro non era che un’emanazione della prima.
Conclusivamente resta confermata l’inammissibilità di entrambi i motivi di ricorso.
Ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, versando il medesimo in colpa, della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso, in Roma il 30 settembre 2024.