Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 2422 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 2422 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Torino il 14/04/1970
avverso l’ordinanza del 27/03/2024 del Tribunale di sorveglianza di Torino
Letti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione del consigliere, NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; letta la memoria della difesa, Avv. NOME COGNOME del 16 ottobre 2024, con la quale ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATI -0
Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di sorveglianza di Torino ha rigettato l’impugnazione proposta da NOME COGNOME avverso l’ordinanza del Magistrato di sorveglianza in sede, del 14 dicembre 2023, con la quale il condannato è stato dichiarato socialmente pericoloso, con proroga della misura di sicurezza detentiva della colonia agricola di anni uno, applicata il 10 ottobre 2023 dal Tribunale di sorveglianza di Torino, per un ulteriore periodo minimo di un anno.
2. Propone tempestivo ricorso per cassazione il condannato, per il tramite del difensore di fiducia, Avv. NOME COGNOME denunciando, con un unico articolato motivo, erronea applicazione dell’art. 1, comma 1-quater, d.l. n. 52 del 2014 come convertito, che indica i criteri per la durata massima delle misure di sicurezza intramuraria, nonché dell’art. 209, comma primo e secondo, cod. pen.
COGNOME è internato in colonia agricola, in esecuzione della sentenza del Tribunale di Torino del 20 luglio 2011, divenuta irrevocabile, pronuncia che lo ha dichiarato delinquente abituale, in conseguenza della condanna per il reato di furto aggravato, ai sensi dell’art. 102 cod. pen.
Si riporta, a p. 3 del ricorso, stralcio della sentenza di merito che motiva circa l’applicazione della misura di sicurezza e che richiama due precedenti condanne, di cui ai nn. 27 e 28 del certificato del Casellario giudiziale, che riguardano, ciascuno, quale reato più grave, il reato di rapina aggravata.
Nella fase dell’esecuzione, non sono intervenute diverse valutazioni dell’abitualità del reato che resta, dunque, legata all’unica sentenza citata.
Nel momento in cui è stato determinato il termine finale della misura di sicurezza intramuraria, i giudici di sorveglianza lo hanno calcolato in venti anni, invece che in anni sei come richiesto dalla’difesa.
Tanto, è avvenuto in virtù del principio di assorbimento contenuto nell’art. 209 cod. pen.
La norma, secondo i giudici del Tribunale di sorveglianza, deve essere interpretata nel senso che il limite temporale si riferisce non solo alla pronuncia che regge la declaratoria di abitualità, ma anche alle ulteriori sentenze che fondano la declaratoria di abitualità del reato, prendendo in esame quella che giudica il reato più grave.
La difesa contesta questo ragionamento, in primo luogo, perché la norma, ove così interpretata, presupporrebbe la condanna e l’espiazione di più misure di sicurezza con diversi provvedimenti.
Nel caso di specie, invece, il condannato è stato destinatario di un’unica misura di sicurezza.
I giudici di sorveglianza richiamano un unico precedente (Sez. 1, n. 41230 del 8/10/2019), a parere della difesa non in termini, in quanto relativo al caso di condannato, riconosciuto delinquente abituale, ex art. 103 cod. pen., sulla scorta dell’intero curriculum criminale.
Nel caso del citato precedente, quindi, il criterio dell’assorbimento ha operato come principio mitigatore a favore del condannato, perché, trattandosi di plurime condanne, se si fosse applicato il criterio del cumulo materiale, la misura di sicurezza non sarebbe mai cessata.
Invece, nel caso al vaglio, si finisce per applicare il criterio dell’assorbimento non come criterio mitigatore ma per ampliare il numero delle condanne oggetto
di valutazione, riprendendone altre due, quelle di cui ai nn. 27 e 28 del certificato del Casellario giudiziale, con sentenze nelle quali non è intervenuta declaratoria di abitualità.
Si segnalano, quindi, conseguenze pregiudizievoli per il condannato passando la misura di sicurezza, quanto alla durata massima, da quella di anni sei a quella di venti anni, applicando un criterio interpretativo in materia di libertà personale in violazione dell’art. 1, comma 1-quater del d.l. n. 52 del 2014, come convertito, secondo il quale le misure di sicurezza detentive anche definitive, compreso il ricovero nelle residenze per l’esecuzione della misura, non possono durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso, avuto riguardo alla previsione edittale massima valutando la pena e così determinandolo ai sensi dell’art. 278 cod. proc. pen.
2.2 In secondo luogo, si osserva che COGNOME si trova ad espiare una misura di sicurezza ancorata alle condanne per due rapine aggravate, di cui nessun giudice, né di cognizione né di sorveglianza, ha mai valutato l’idoneità a esprimere l’attitudine a delinquere del condannato.
Tanto, per la difesa, in violazione degli artt. 3 e 27 Cost. sotto il profilo dell’umanità e attitudine rieducativa della pena e del principio di uguaglianza.
Si denuncia anche contrasto con l’art. 3 CEDU che impone di evitare trattamenti umani e degradanti, trattandosi di internato sottoposto a regime sproporzionato rispetto alle emergenze processuali, avendo Leccese riportato una pena di mesi otto di reclusione, cui viene associata l’evenienza di permanere internato per venti anni.
3.11 Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME intervenuto con requisitoria scritta, ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
La difesa ha fatto pervenire conclusioni scritte, in data 16 ottobre 2024, con le quali ha chiesto raccoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1.In primo luogo, come osserva il Sostituto Procuratore generale, il giudizio di merito sulla pericolosità all’attualità, è stato svolto dal Tribunale di sorveglianza, con esclusione di ogni rischio di applicazione di un trattamento inumano, oltre che sproporzionato, alla situazione concreta.
Invero, anche nei casi di abitualità presunta dalla legge, di cui all’articolo 102 cod. pen., il giudice, chiamato a dichiararla, deve accertare la pericolosità sociale in termini di attualità e concretezza.
Ciò è stato affermato da tempo da questa Corte, che ha stabilito il principio secondo cui, poiché, nel regime introdotto dagli artt. 21 e 31 della legge 10 ottobre 1986 n. 663, recante modifiche all’ordinamento penitenziario, la dichiarazione di abitualità nel delitto presunta dalla legge richiede la contemporanea sussistenza, tanto dei presupposti indicati dall’art. 102 cod. pen., quanto dell’attuale e concreta pericolosità sociale del soggetto, ai sensi degli artt. 133 e 203 dello stesso codice, non soddisfa il correlativo obbligo di motivazione la pronuncia del Tribunale di sorveglianza che, nel dichiarare taluno delinquente abituale, si limiti, sull’apodittica presupposizione delle condizioni di cui al citato art. 102 cod. pen., a richiamarsi, per quanto attiene il requisito della attuale pericolosità del soggetto (pur essendo questo dedito da tempo a stabile attività lavorativa) ai “numerosi e gravi precedenti penali” del medesimo, non esprimendosi in tal modo alcun valido giudizio critico in ordine alla probabilità o meno della futura commissione di nuovi reati (cfr. Sez. 1, n. 1917 del 4/05/1992, Toscanello, n. 191034).
È appena il caso di ricordare che l’articolo 31 Legge n. 663 del 1986 (cd. legge Gozzini) ha abrogato l’articolo 204 cod. pen., che regolava proprio i casi di pericolosità presunta, e ha stabilito che “tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa”.
Anche nei casi di abitualità presunta deve, allora, valere il principio secondo cui la lontananza nel tempo della scadenza del titolo detentivo in esecuzione, legittima il magistrato di sorveglianza a soprassedere in ordine alla richiesta di dichiarazione della stessa, sul presupposto dell’impossibilità di formulare un giudizio di attualità della pericolosità sociale (Sez. 1, 4/05/2016, n. 25217, Gioia, Rv. 266980).
L’attualità della pericolosità sociale riguarda una categoria giuridica che richiama, ai sensi dell’art. 203 cod. pen., la “probabile commissione di nuovi reati”.
Dunque, la valutazione relativa alla pericolosità sociale presuppone un giudizio prognostico, di natura probabilistica, che deve essere compiuto sulla base di una serie di indicatori, normativamente individuati attraverso il riferimento ai criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen.
Tale giudizio concreto viene espletato con ragionamento ineccepibile dal Tribunale (cfr. p. 4) che sottolinea la perfetta congruità delle conclusioni cui è pervenuto il magistrato di sorveglianza, in sede di ultimo riesame della pericolosità sociale, svolto in data 14 dicembre del 2023.
Risultano esaminati gli elementi forniti con relazione comportamentale stilata dal funzionario giuridico pedagogico, del giorno 11 gennaio 2024, si stigmatizza il comportamento, reputato non corretto e non regolare,
dell’interessato fino al mese di ottobre 2023, si segnala la necessità di adesione a un programma terapeutico presso il Ser.d territorialmente competente, stante la condizione di salute del Leccese, programma indicato come necessario a sostenere il soggetto nel suo reinserimento, al fine di valutare se la pericolosità si sia attenuata, stante il rifiuto di sottoporsi a controlli nell’ottobre 2023.
1.2. Sotto il secondo profilo denunciato, risulta applicabile al caso al vaglio, il precedente citato dal Tribunale, ancorché adottato in un caso di abitualità ex art. 103 cod. pen.
Tale precedente prende in esame la questione, nella specie prospettata, dei limiti della durata massima delle misure di sicurezza, di cui all’art. 1, comma 1quater, d. I. cit., come convertito (cfr. Sez. 1, n. 41230 del 13/06/2019, Nobis, Rv. 277450 – 01).
Va premesso che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 83/2017, adottata proprio con riferimento all’art. 1, comma 1 -quater, d. I. n. 52 del 2014, ha affermato che per tutte le misure di sicurezza detentive, ivi compresa anche la casa di lavoro, deve esserci un limite massimo di durata, il quale deve essere determinato con riferimento al massimo della pena edittale per il reato commesso.
Invero, nel precedente di legittimità citato, questa Corte ha sostenuto il condivisibile principio secondo il quale, in tema di misure di sicurezza detentive, provvisorie o definitive, quando l’applicazione della misura consegue alla dichiarazione di delinquenza abituale, il limite di durata massima, previsto dall’art. 1, comma 1 -quater, d. I. 31 marzo 2014 n. 52, convertito dalla legge 30 maggio 2014, n. 81, deve essere individuato nel massimo edittale previsto per il delitto più grave in relazione al quale l’abitualità è stata pronunciata. Si tratta di principio applicabile anche nel caso al vaglio, in cui l’abitualità è stata dichiarata reputate sussistenti le condizioni di cui all’art. 102 cod. pen.
Invero, poiché la norma speciale non contempla il caso in cui l’applicazione della misura di sicurezza detentiva consegue alla dichiarazione di delinquenza abituale pronunciata a partire dall’emissione di più sentenze di condanna, per svariati reati, si individua una fattispecie complessa che presuppone la reiterazione dei reati e delle condanne quali elementi che fondano una probabilità di nuove condotte di rilevanza penale, la quale dovrà, in ogni caso, essere concretamente accertata dal giudice procedente, secondo i parametri sin qui enucleati.
La soluzione interpretativa del criterio del cumulo materiale non può essere condivisa posto che questa condurrebbe a individuare il limite nella somma aritmetica dei massimi edittali relativi a ciascuno dei delitti non colposi che hanno determinato tale declaratoria, addivenendo a soluzione che contrasta con l’art. 209 cod. pen. mercé il quale, quando una persona ha commesso più fatti
per i quali siano applicabili più misure di sicurezza della medesima specie, è ordinata una sola misura di sicurezza.
L’altra opzione, quella che individua il limite di durata massima della misura nel massimo edittale previsto per il delitto più grave, è stata ritenuta, nel caso preso in considerazione nel precedente di legittimità citato dal Tribunale, soluzione preferibile per ragioni sistematiche, oltre che più favorevole.
Nel caso al vaglio, non vi sono ragioni per discostarsi da tale criterio, pur risultando apprezzabili gli argomenti posti dalla difesa a fondamento della tesi opposta.
Invero, la pena edittale massima cui rapportare la durata della misura di sicurezza, è, nella specie, quella prevista per il reato di rapina aggravata, irrogata con una precedente pronuncia irrevocabile, comunque presa in esame e considerata, ai fini della declaratoria di abitualità a delinquere del condannato, posta a base dell’applicazione della misura di sicurezza.
Dunque, il Tribunale di sorveglianza ha coerentemente ritenuto che il termine di durata massima della misura di sicurezza detentiva in esecuzione dovesse essere determinato tenendo conto di quella pena, nel suo massimo regime edittale, anche se, in relazione a quella sentenza di condanna, non risultava applicata alcuna misura di sicurezza.
Detta lettura è coerente con il sistema, posto che deve notarsi che, ai sensi dell’art. 205, comma secondo, cod. pen., le misure di sicurezza possono essere ordinate anche con provvedimento successivo e, anzi, in ogni tempo, nei casi stabiliti dalla legge (art. 109 cod. pen.). Quindi, queste non sono necessariamente correlate alla pena irrogata con una determinata sentenza.
Invero, la dichiarazione di abitualità, per quanto stabilito dalla legge (art. 109 cod. pen.), non si arresta all’esame di una sola condanna ma, anzi, presuppone la commissione di più reati, sicché quel fatto, intanto accede all’abitualità, in quanto vi sono altre pronunce di condanna che gli attribuiscono rilievo a tale fine.
Sicché, coerente con il complessivo sistema appare l’interpretazione cui ha fatto riferimento il Tribunale, nonché conforme ai principi sanciti dal Giudice delle leggi, in vista della segnalata necessità, in relazione allo statuto proprio delle misure di sicurezza, comunque, di accedere a una valutazione giurisdizionale, in concreto, in ordine alla sussistenza, in fase genetica, della pericolosità sociale del soggetto e, in costanza di esecuzione della misura, della permanenza di tale requisito (cfr. Corte Cost. sent. n. 66 del 2023, secondo la quale le misure di sicurezza trovano la loro peculiare ragion d’essere nella funzione di contenimento della pericolosità sociale del soggetto, con la conseguenza che esse operano se e quando l’autore del fatto la esprime in concreto, sia nel momento dell’applicazione della misura, sia nel momento della sua esecuzione).
2. Si impone, quindi, il rigetto del ricorso con la condanna alle spese ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 21 novembre 2024
Il Consigliere estensore
Presidente