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Droga parlata: Cassazione su intercettazioni e reato

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi di due imputati condannati per reati legati agli stupefacenti. La sentenza ribadisce la validità delle condanne basate sul principio della “droga parlata”, ovvero su prove derivanti da intercettazioni anche in assenza di sequestro della sostanza. Inoltre, la Corte ha precisato la distinzione tra la mera connivenza non punibile e il concorso attivo nel reato, che può consistere anche nel fornire suggerimenti sulla qualità dello stupefacente ai compratori.

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Pubblicato il 19 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Droga parlata: quando le intercettazioni bastano per la condanna

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 35309 del 2024, torna su un tema cruciale nel diritto penale moderno: la cosiddetta droga parlata. Questo principio si applica quando l’accusa di spaccio di stupefacenti si fonda principalmente su prove emerse da intercettazioni telefoniche o ambientali, anche in assenza del sequestro materiale della sostanza. La pronuncia offre anche importanti chiarimenti sulla linea di demarcazione tra la semplice connivenza, non punibile, e il concorso attivo nel reato.

I Fatti del Processo

Il caso trae origine da una sentenza della Corte di Appello che aveva confermato la responsabilità penale di due individui per delitti legati agli stupefacenti. Uno degli imputati era stato inoltre accusato di ricettazione, accusa dalla quale era stato poi assolto in appello. La condanna per i reati di droga si basava in larga parte sulle risultanze di attività investigative, incluse intercettazioni. Contro questa decisione, entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando questioni distinte ma ugualmente rilevanti.

I Motivi del Ricorso: “Droga Parlata” e Connivenza

Il primo ricorrente ha contestato la condanna sostenendo la violazione del principio di colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. A suo dire, le prove raccolte, derivanti esclusivamente da intercettazioni (la cosiddetta droga parlata), non erano sufficienti a fondare un giudizio di penale responsabilità. Lamentava inoltre una valutazione parziale ed errata delle testimonianze.

Il secondo ricorrente, invece, ha basato la sua difesa sulla distinzione tra concorso di persone nel reato e mera connivenza non punibile. Egli sosteneva di aver mantenuto un comportamento passivo, senza fornire un contributo causale concreto alla realizzazione dell’attività di spaccio condotta da altri.

La Decisione della Cassazione sul tema della “droga parlata”

La Suprema Corte ha dichiarato entrambi i ricorsi inammissibili, confermando integralmente la decisione della Corte di Appello. I giudici hanno ritenuto le argomentazioni dei ricorrenti infondate e, in parte, generiche, cogliendo l’occasione per ribadire principi consolidati in materia.

Le motivazioni

Per quanto riguarda il primo ricorso, la Cassazione ha affermato che la sussistenza del reato di cessione di sostanze stupefacenti può legittimamente essere desunta dal contenuto delle conversazioni intercettate. Quando il tenore di tali conversazioni è sintomatico dell’organizzazione di un’attività illecita, esse costituiscono una prova valida. Il giudice di merito deve valutare tali elementi con particolare rigore, ma non è possibile chiedere alla Cassazione un riesame del materiale probatorio, compito che spetta esclusivamente ai giudici di primo e secondo grado. Nel caso di specie, le intercettazioni erano state ritenute chiaramente indicative dell’esistenza di traffici di droga.

In relazione al secondo ricorso, la Corte ha tracciato una netta linea di demarcazione tra connivenza e concorso. La connivenza non punibile presuppone un comportamento meramente passivo. Il concorso di persone, al contrario, richiede un contributo consapevole, che può manifestarsi anche in forme che si limitano ad agevolare il proposito criminoso altrui. Nel caso esaminato, dalle intercettazioni e dalle testimonianze era emerso che il ricorrente non si era limitato a osservare, ma aveva fornito attivamente ai cessionari suggerimenti sulla qualità della droga, vantandone l’efficacia. Questo comportamento, secondo la Corte, integra un contributo concreto all’attività illecita e configura pienamente il concorso nel reato.

Le conclusioni

La sentenza consolida due importanti principi giurisprudenziali. In primo luogo, conferma che le prove basate sulla droga parlata sono pienamente ammissibili per fondare una sentenza di condanna, a condizione che il giudice le valuti con la massima attenzione e che il loro significato sia logico e inequivocabile. In secondo luogo, chiarisce che qualsiasi contributo attivo, anche se solo verbale come un consiglio o un incoraggiamento, volto a facilitare un’attività di spaccio, fa uscire il soggetto dall’area della non punibilità per proiettarlo in quella della responsabilità penale a titolo di concorso.

Una persona può essere condannata per spaccio solo sulla base di conversazioni intercettate, senza che la droga sia stata trovata e sequestrata?
Sì, la Corte di Cassazione conferma che è possibile. Questa fattispecie, nota come “droga parlata”, è ammessa a condizione che le conversazioni intercettate siano valutate dal giudice con particolare rigore e che il loro contenuto dimostri in modo chiaro e logico l’esistenza dell’attività di spaccio, senza lasciare spazio a un ragionevole dubbio.

Qual è la differenza tra essere complici in un reato di spaccio e la semplice connivenza non punibile?
La sentenza spiega che la connivenza non punibile si ha quando una persona, pur sapendo del reato, mantiene un comportamento puramente passivo. Si ha invece un concorso di persone nel reato, che è punibile, quando si fornisce un contributo consapevole all’attività illecita. Tale contributo può essere anche un’azione apparentemente minore, come fornire suggerimenti sulla qualità della droga o garantire una certa sicurezza al venditore.

È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare le prove come le trascrizioni delle intercettazioni?
No. La sentenza ribadisce che il ricorso per cassazione serve a verificare la corretta applicazione della legge (giudizio di legittimità), non a rivalutare i fatti o le prove (giudizio di merito). Non si può chiedere alla Suprema Corte di fornire una nuova interpretazione delle prove già esaminate dai giudici di primo e secondo grado, a meno che la motivazione della sentenza impugnata non sia palesemente illogica o contraddittoria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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