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Dosimetria della pena: il potere del giudice

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile un ricorso riguardante la dosimetria della pena per un reato di lieve entità. Viene ribadito l’ampio potere discrezionale del giudice nel determinare la sanzione entro i limiti edittali, sottolineando che una motivazione dettagliata non è necessaria se la pena non è superiore alla media e se la decisione è supportata da elementi come i precedenti penali dell’imputato.

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Pubblicato il 16 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Dosimetria della pena: il confine tra discrezionalità del giudice e obbligo di motivazione

La determinazione della giusta pena è uno dei compiti più delicati del giudice penale. L’ordinanza della Corte di Cassazione in esame offre importanti chiarimenti sui principi che regolano la dosimetria della pena, confermando l’ampio potere discrezionale del magistrato e i limiti del sindacato di legittimità. Il caso riguarda un ricorso presentato contro una sentenza della Corte d’Appello che, pur riconoscendo la lieve entità di un reato, aveva comminato una pena ritenuta eccessiva dal condannato. La Suprema Corte, dichiarando il ricorso inammissibile, ha ribadito come la valutazione del giudice di merito sia insindacabile se logicamente motivata, anche in modo sintetico.

Il caso in esame: la decisione della Corte d’Appello

La vicenda processuale ha origine dalla decisione della Corte d’Appello di Catania, che aveva parzialmente riformato una sentenza di primo grado. I giudici d’appello avevano riqualificato i fatti contestati all’imputato come reato di lieve entità ai sensi dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. 309/90 (Testo Unico sugli stupefacenti). Nonostante la minore gravità del reato, la pena era stata rideterminata in un anno e sei mesi di reclusione e 2.400 euro di multa. L’imputato, ritenendo la sanzione sproporzionata, ha proposto ricorso per Cassazione.

I motivi del ricorso: una contestazione sulla dosimetria della pena

L’unico motivo di ricorso si fondava su un presunto vizio di motivazione relativo alla dosimetria della pena. Il ricorrente sosteneva che i giudici di merito non avessero tenuto adeguatamente conto della non particolare offensività del fatto e della sua non rilevante capacità a delinquere, elementi che avrebbero dovuto condurre a una pena più mite. In sostanza, si contestava una violazione dei principi che guidano il giudice nella quantificazione della sanzione penale.

L’ampio potere discrezionale del giudice

La Corte di Cassazione, nel dichiarare il ricorso inammissibile, ha richiamato un principio consolidato nella giurisprudenza. La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito. Questo potere viene esercitato correttamente anche quando il giudice valuta gli elementi indicati nell’art. 133 del codice penale (gravità del reato e capacità a delinquere del reo) in modo globale e persino intuitivo, senza una disamina analitica di ciascun criterio. La legge, infatti, non richiede una motivazione ipertrofica, ma una giustificazione che dia conto delle ragioni della scelta sanzionatoria.

Le motivazioni della decisione

Nel caso specifico, la Suprema Corte ha osservato due aspetti cruciali. Primo, la pena applicata dalla Corte d’Appello non era superiore alla misura media prevista dalla legge per quel reato. Di conseguenza, non era necessaria un’argomentazione particolarmente dettagliata per giustificarla. Secondo, e ancora più importante, i giudici di merito avevano comunque fornito una motivazione, ancorché sintetica, valorizzando elementi concreti: un precedente specifico e altre due sentenze di condanna intervenute negli anni precedenti per fatti della stessa specie. Questi elementi, secondo la Cassazione, sono sufficienti a giustificare la pena inflitta, rendendo il ricorso manifestamente infondato e, quindi, inammissibile.

Conclusioni

L’ordinanza ribadisce un punto fermo del diritto penale: il potere del giudice nella dosimetria della pena è ampio e la sua valutazione è difficilmente censurabile in sede di legittimità, a meno che non sia affetta da un’illogicità manifesta o da un’assenza totale di motivazione. La presenza di precedenti penali, anche se relativi a fatti per cui è stata applicata una pena mite, costituisce un fattore legittimamente valutabile per negare il minimo della pena. La decisione comporta per il ricorrente la condanna al pagamento delle spese processuali e di una somma alla Cassa delle Ammende, a conferma delle conseguenze negative di un ricorso proposto senza validi presupposti.

Il giudice deve sempre motivare in modo dettagliato la misura della pena applicata?
No. Secondo la Corte di Cassazione, il giudice adempie al suo obbligo anche con una valutazione sintetica o globale degli elementi previsti dall’art. 133 del codice penale. Una motivazione più dettagliata non è necessaria se la pena inflitta non supera la misura media edittale.

I precedenti penali possono giustificare una pena superiore al minimo anche per un reato di lieve entità?
Sì. Nel caso specifico, la Corte ha ritenuto che il giudice di merito avesse legittimamente valorizzato i precedenti specifici dell’imputato per determinare la pena, confermando che la storia criminale del reo è un criterio valido per la dosimetria, anche a fronte di un reato qualificato come di lieve entità.

Cosa succede quando un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
Il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e, se non vi sono cause di esonero, al versamento di una somma di denaro alla Cassa delle Ammende, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale. In questo caso, la somma è stata fissata in tremila euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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