Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 19496 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 19496 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a MARANO DI NAPOLI il 07/01/1964
avverso la sentenza del 02/07/2024 della CORTE APPELLO di BOLOGNA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dr.ssa NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
udito il Difensore: è presente l’Avvocato NOME COGNOME del Foro di BOLOGNA, in difesa di NOME COGNOME che si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1.La Corte di appello di Bologna il 2 luglio 2024, decidendo in sede di rinvio dalla S.C. (Sez. 3, n. 44170 del 04/07/2023, COGNOME, non mass.), ha confermato la sentenza, appellata dall’imputato, con cui il Tribunale di Bologna il 27 novembre 2020, all’esito del dibattimento, ha riconosciuto NOME COGNOME responsabile del reato di cui all’art. 5 del d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, per non avere presentato, essendovi obbligato in quanto legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE con oggetto costruzione di edifici, al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto, la dichiarazione annuale relativ4 a tale imposta per l’anno 2013, con imposta evasa pari a 58.640,00, data di consumazione del reato il 30 settembre 2014, termine ultimo di presentazione della dichiarazione, in conseguenza condannandolo, con le circostanze attenuanti generiche, alla pena stimata di giustizia.
2.Appare opportuno, per la migliore intelligenza del ricorso, dare atto della motivazione della sentenza di annullamento con rinvio (sub nn. da 1 a 5.3, pp. 2-9, del “considerato in diritto”), che ha fissato i principi cui deve attenersi i giudice di merito:
« Il ricorso è fondato.
Incontestata l’omessa presentazione della dichiarazione annuale relativa all’imposta sul valore aggiunto dovuta per l’anno 2013, il Tribunale aveva ritenuto il superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 d 2000, acriticamente recependo (senza dare, cioè, conto dei criteri di valutazione del dato probatorio) il ragionamento dell’Ente impositore, compendiato nell’avviso’ di accertamento richiamato dalla sentenza, che aveva calcolato il volume di affari in considerazione delle esistenze iniziali.
In sede di appello l’imputato aveva contestato l’acritico recepimento, in sede penale, del ragionamento induttivo effettuato in sede di accertamento fiscale. Aveva lamentato, inoltre, la mancanza, nel fascicolo del dibattimento, del PVC della GdF del 03/12/2014 e dell’avviso di accertamento, richiamati dall’informativa di reato ma ad essa mai allegati, nei quali si faceva riferimento alle rimanenze finali dell’anno 2012 (rimanenze iniziali del 2013). Orbene, si domandava l’appellante, non si comprende perché, a fronte del medesimo dato contabile (rimanenze finali 2012 = giacenze iniziali 2013), per l’anno di imposta 2012 non sia stata contraddittoriamente ritenuta superata la soglia di punibilità tanto più che, sempre secondo l’Ente impositore, l’importo di tali rimanenze era stato calcolato in base ai dati contenuti nella dichiarazione relativa all’anno 2011.
Dunque, il ragionamento induttivo si basava su dati contenuti in atti mai prodotti ed era connotato da profili di contraddittorietà.
Nel disattendere i rilievi difensivi, la Corte di appello si è limitata a da atto della “documentazione acquisita al fascicolo del dibattimento (in particolare il rapporto dell’Agenzia delle Entrate e relativi allegati)” che, secondo i Giudici distrettuali, ha consentito di accertare per l’anno di imposta 2013 un volume di affari pari ad euro 286.823,00 ed un’imposta evasa pari ad euro 58.640,00.
Tanto premesso, il primo motivo è fondato.
Prima ancora di stabilire se le presunzioni tributarie (semplici o gravi che siano) possano trovare ingresso nel processo penale e fondare una sentenza di condanna, è necessario che comunque il giudice dia conto dell’esistenza del fatto indiziante, in mancanza del quale è impossibile – già sul piano logico sostenere l’esistenza dell’indizio stesso.
Nel caso di specie l’imputato si era giustamente doluto in appello della mancanza (fisica) degli atti posti a base del ragionamento induttivo (divenuto accusatorio in sede penale), ma i Giudici distrettuali hanno totalmente negletto tale censura, limitandosi a ribadire la correttezza dei risultati conseguiti dalla Guardia di Finanza in sede di accertamento fiscale.
Quanto alla possibilità di utilizzare le “presunzioni tributarie” ne processo penale, il Collegio osserva quanto segue.
Il diritto penale tributario si caratterizza per la sua specialità che deriva dalla particolare materia che ne costituisce l’oggetto, ma resta pur sempre diritto penale, diritto cioè dei comportamenti ritenuti lesivi di beni giuridici o d valori ad essi preesistenti, non diritto degli atti o degli interessi regolati dal norme tributarie e certamente non dell’obbligazione tributaria.
In quanto “diritto penale”, esso si caratterizza per la sua natura autonoma e costitutiva rispetto alle altre branche del diritto, essendo stata da tempo ripudiata, per l’incandescenza del suo oggetto (la libertà personale), la teoria della funzione meramente sanzionatoria di istituti di altri rami del diritto.
Il diritto penale tributario non fornisce l’armamentario necessario a reprimere la violazione degli obblighi tributari altrove disciplinati. Non v’è dubbio che il comune oggetto di tutela sia il dovere di concorrere alle spese pubbliche, previsto dall’art. 53 Cost. quale specifica articolazione del più generale dovere di solidarietà di cui all’art. 2. Cost., ma tale tutela non viene penalmente perseguita in modo indiretto, sanzionando puramente e semplicemente gli obblighi tributari altrove disciplinati nell’an, nel quomodo e nel quando. Al legislatore penale tributario non sta a cuore il recupero in sé del gettito fiscale evaso, né il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria, ma esclusivamente la decisione circa la
natura illecita delle condotte e l’irrogazione delle relative sanzioni nel contesto dei principi fissati dall’art.27 della Costituzione.
La funzione della pena, l’inviolabilità della libertà personale che viene in gioco, la ineliminabile valorizzazione degli elementi soggettivi della condotta che innervano e danno sostanza alla natura esclusivamente personale della responsabilità penale e alla funzione rieducativa della pena, impongono una lettura “autonoma” delle norme penali tributarie, secondo i canoni interpretativi che l’inviolabilità del bene potenzialmente a rischio impongono (i soli “casi e modi previsti dalla legge” scilicet penale – entrata in vigore prima del fatto commesso).
Il disvalore espresso dalla condotta penalmente sanzionata, dunque, deve essere individuato esclusivamente all’interno della norma che la descrive che deve essere a sua volta applicata in conformità ai principi di stretta legalità, tassatività e determinatezza che governano l’interpretazione della legge penale, rifuggendo pertanto dalle sempre possibili suggestioni che il comune oggetto della materia trattata può comportare e che possono determinare il rischio sia di non ammesse interpretazioni analogiche che di scorciatoie probatorie volte ad attrarre nella fattispecie penale la pura e semplice constatazione dell’inadempimento dell’obbligo tributario che la norma stessa non ritiene sufficiente ai fini della punibilità dell’autore.
La presenza nella fattispecie penale di elementi normativi altrove disciplinati non può rappresentare la falla attraverso la quale il travaso di istituti giuridici di altri rami del diritto possa geneticamente mutare la norma penale. Gli elementi normativi della fattispecie sono parte integrante di una norma che ha ad oggetto, come detto, i comportamenti e dunque la persona prima di tutto e persegue interessi diversi da quelli disciplinati dalla fonte di appartenenza.
La violazione dell’obbligo di presentare una delle dichiarazioni annuali non esaurisce l’indagine penale perché è necessario accertare anche che ne sia derivata un’evasione effettiva di imposta superiore alla soglia indicata dall’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000.
Ai fini del d.lgs. n. 74 del 2000 per “imposta evasa” si intende “la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine” (art. 1, lett. f). Per l’accertamento dell’an e del quantum dell’imposta “dovuta” è giocoforza necessario far riferimento alla legislazione fiscale che si avvale però, in buona misura, anche di presunzioni (non sempre gravi, precise e concordanti). In
questa delicata operazione ricostruttiva, di natura squisitamente fattuale, il giudice penale deve utilizzare gli strumenti posti a sua disposizione dal codice di rito e, soprattutto, adottare il criterio di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio che costituisce il corollario della presunzione di innocenza costituzionalmente imposto dall’art. 27, comma secondo, Cost.. Il giudice non può, di conseguenza, far ricorso alle presunzioni tributarie semplici che, comportando l’inversione dell’onere della prova, sovvertono alla radice il principio della presunzione di innocenza dell’imputato, nemmeno quando ricorrono i casi previsti dall’art. 39, comma 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (così come non può direttamente stabilire l’imposta effettivamente dovuta in base agli studi di settore di cui all’art. 62-bis, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito con modificazioni dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427 e successive modificazioni e integrazioni, o alla determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche di cui all’art. 38, commi 4 e segg., d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600). Il giudice penale può utilizzare le informazioni e i dati acquisiti dagli uffic finanziari nell’ambito delle attività di cui agli artt. 31-bis, 32 e 33, d.P.R. n. 600 del 1970, ma non può avvalersi degli stessi criteri di giudizio ivi previsti per l’accertamento presuntivo dell’imposta dovuta giustificato, sul piano fiscale, dal comportamento non collaborativo del contribuente, né gli è preclusa la possibilità di acquisire e utilizzare, a fini di accertamento del reato, gli atti, i documenti, libri e i registri non esibiti o non trasmessi dal contribuente che quest’ultimo può utilizzare in sede tributaria solo se dimostri di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici finanziari per cause a lui non imputabili (art. 32, commi 3 e 4, d.P.R. n. 600 del 1973). In conformità a quanto prevede l’art. 220, disp. att, cod. proc. pen., può utilizzare, a fini di ricostruzione del fatto, il processo verbale di accertamento o di constatazione (ma non le valutazioni e i giudizi in essi contenuti) e le giustificazioni e i chiarimenti sollecitati in sede pre-contenziosa al contribuente ai sensi dell’art. 37-bis, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1973, purché tali atti siano stati redatti e assunti prima che emergano anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Rv. 220291; cfr. altresì Sez. 3, n. 1969 del 21/01/1997, Rv. 206944; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008, -Rv. 242523; Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Rv. 246599, che hanno ribadito il principio secondo il quale è causa di inutilizzabilità dei risultati probatori la violazione delle disposizioni del codice di procedura penale la cui osservanza, nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, è prevista per assicurare le fonti di prova in presenza di indizi di reato). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
L.] In conclusione, l’indagine che il giudice penale deve compiere deve essere volta all’accertamento autonomo e diretto degli elementi costitutivi del reato secondo i canoni propri del processo penale,
Del resto, trattandosi di reati e, dunque, dell’esercizio della giurisdizione penale, la sussistenza del “reato tributario”, sotto ogni suo aspetto (oggettivo e soggettivo), deve essere autonomamente accertata dal giudice penale secondo le norme del codice di procedura penale (artt. 1 e 2, cod. proc. pen.), imponendosi il rispetto di tali norme anche in sede ispettiva, quando – come detto – emergano fatti apprezzabili come reato (supra, 5 3.11).
Ne consegue che non v’è spazio nel processo penale di cognizione per l’ingresso di presunzioni (tantomeno legali) ma solo di indizi, valorizzabili a fini di prova nei limiti e modi indicati dall’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., valendo, per il processo penale, uno statuto probatorio suo proprio necessariamente strumentale al tendenziale accertamento della verità (le., della corrispondenza al vero) del fatto contestato nell’editto accusatorio.
I rilievi difensivi sono dunque corretti e assorbenti ogni altra questione posta con gli altri motivi, venendo in gioco la verifica della sussistenza del reato sotto il profilo del superamento (e del calcolo) della soglia di punibilità.
Ciò nondimeno si rendono necessarie alcune precisazioni relative agli argomenti dedotti con il secondo motivo.
Il reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, si consuma nel momento in cui scade il termine ultimo stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione, momento nel quale deve sussistere il dolo specifico di evasione il quale, a sua volta, presuppone la consapevolezza dell’ammontare delle imposte evase e non dichiarate, non richiedendo affatto la norma anche la coincidenza tra il soggetto gravato dell’obbligo dichiarativo e quello che ha posto in essere le operazioni imponibili.
Non v’è dubbio che il fine di evasione qualifica la condotta sul piano penale; ove venga accertata un’imposta effettivamente dovuta superiore a quella dichiarata (o non dichiarata affatto) e/o componenti positive di reddito inferiori a quelle effettive o elementi passivi fittizi, l’indagine non avrebbe verificato altro che alcuni degli elementi costitutivi del reato, quelli che qualificano, sul piano oggettivo, l’offesa degli interessi erariali e giustificano (ma non esauriscono) la rilevanza penale della condotta. Ma tale indagine non assorbe quella relativa all’accertamento del dolo specifico di evasione che nei reati dichiarativi concorre a tipizzare la condotta. Altrimenti si corre il rischio di identificare il dolo specifi di evasione con la pura e semplice consapevolezza dell’obbligo dichiarativo violato e dell’entità dell’imposta non dichiarata. Un’operazione dogmaticamente errata che trasformerebbe il dolo specifico di evasione nella generica volontà di non dichiarare al Fisco l’imposta dovuta, con l’ulteriore inaccettabile conseguenza di assorbire tutti i reati in materia dichiarati va negli indistinti ill amministrativi di cui agli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, d.lgs. 18 dicembre
1997, n. 441 e di far sostanzialmente resuscitare la contravvenzione di omessa presentazione delle dichiarazioni ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, già prevista dall’abrogato art. 1, comma 1, d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito con I. 7 agosto 1982, n. 516, che questa Corte ha già affermato non essere in continuità normativa con l’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000 anche e proprio per la necessità del dolo specifico di evasione, in precedenza non richiesto (Sez. U, n. 35 del 13/12/2000, COGNOME, Rv. 217374).
Il reato è illecito di modo; il dolo di evasione è volontà di evasione dell’imposta mediante le specifiche condotte tipizzate dal legislatore penale tributario. Se per il legislatore penale tributario nemmeno l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, o le false rappresentazioni contabili e i mezzi fraudolenti per impedire l’accertamento delle imposte, sono sufficienti ad attribuire penale rilevanza alle condotte di cui agli artt. 2 e 3, d.lgs. n. 74 del 2000, essendo necessario il fine di evasione, a maggior ragione il “dolo di omissione” non solo non può essere ritenuto sufficiente a integrare, sul piano soggettivo, il reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, ma nemmeno può essere confuso con il dolo di evasione. La volontà omissiva prova la consapevolezza della sussistenza dell’obbligazione tributaria e del suo oggetto, e dunque di uno o alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie, non prova il fine ulteriore della condotta.
Il dolo di evasione esprime l’autentico disvalore penale della condotta e restituisce alla fattispecie la sua funzione selettiva di condotte offensive ad un grado non ulteriormente tollerabile del medesimo bene tutelato anche a livello amministrativo. L’inviolabilità della libertà personale costituisce il metro di misura della rilevanza penale di condotte che potrebbero essere sanzionate in altro modo. Al legislatore penale non interessa il recupero del gettito fiscale ma della persona. Il dolo specifico di evasione, per la sua forte carica intenzionale, c segna il punto di frattura più grave tra l’atteggiamento antidoveroso dell’autore Lt, a ii7i del fatto illecito, l’ordinamento ~ ed il bene protetto, un punto di non ritorno che giustifica il sacrificio della inviolabilità della libertà personale considerazione del livello di aggressione al bene e della funzione rieducativa della pena. E’ proprio questo scopo che nei reati in materia di dichiarazioni fiscali giustifica, rispetto agli omologhi illeciti amministrativi, la reazione punitiva dell Stato e ne spiega la rilevanza penale che si giustifica solo in costanza di condotte poste in essere nella deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo.
Non si può di conseguenza ritenere sufficiente, ai fini della prova del dolo specifico, la mera consapevolezza dell’entità dell’imposta evasa; l’entità dell’imposta evasa costituisce solo uno degli elementi del fatto tipico, la cui consapevolezza potrebbe, al più, giustificare un addebito a titolo di dolo
generico, non di certo di dolo specifico che richiede un quid pluris rispetto alla mera consapevolezza dell’oggetto dell’omissione. Tale dato può essere certamente valorizzato insieme con altri dai quali possa essere tratta la convinzione che l’omissione era finalizzata all’evasione dell’imposta: il mancato pagamento postumo dell’imposta evasa, in tempi naturalmente ragionevoli e non, per esempio, a distanza’ di anni, può certamente essere preso in considerazione; così come può essere utilmente valutata la reiterazione dell’omissione per più anni di imposta o, come nel caso di specie, il disinteresse rispetto alle richieste e verifiche tributarie.
In ultima analisi deve essere ripudiato un metodo di accertamento del dolo che si risolve nella (indiretta) affermazione del dolus in re ipsa.
Deve essere altresì precisato che nella operazione ricostruttiva dell’imposta evasa, il giudice penale non può dare per scontati fatti che non sono dimostrati. Oggetto di prova (art. 187 cod. proc. pen.) non sono solo i fatti dedotti dal pubblico ministero ma anche quelli dedotti o allegati dalle altre parti e di cui il giudice deve dare conto nella motivazione della sentenza (art. 546, comma 1, lett. c, cod. proc. pen.).
Il fatto impositivo che incide sull’entità dell’imposta evasa sottraendola all’ordinarietà (e dunque diminuendone l’entità) deve essere dimostrato direttamente dall’interessato, non potendo essere meramente e genericamente postulato. Il fatto che la cessione degli immobili è soggetta all’IVA agevolata del 4% quando l’immobile stesso è destinato a prima casa dall’acquirente è affermazione vera, ma generica e inidonea persino a rendere ragionevole il dubbio sull’entità dell’imposta evasa.
Il dubbio idoneo ad introdurre una ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti è soltanto quello “ragionevole”, ovvero quello che trova conforto nella logica, sicché, in caso di prospettazioni alternative, occorre comunque individuare gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, non potendo il dubbio fondarsi su un’ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, P., Rv. 281647 – 04; Sez. 6, n. 10093 del 05/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275290 – 01; Sez. 4, n. 48541 del 19/06/2018, COGNOME, Rv. 274358 – 01; Sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, COGNOME, Rv. 259204 – 01; Sez. 4, n. 30862 del 17/06/2011, COGNOME, Rv. 250903 – 01).
Nel caso di specie, la genericità delle deduzioni difensive si traduce nella irrazionalità del dubbio (genericamente) prospettato alla base di una impossibile lettura alternativa dei fatti».
3.Ciò premesso, ricorre per la cassazione della sentenza l’imputato, tramite Difensore di fiducia, affidandosi a tre motivi con i quali, richiamata in sintesi la
struttura della decisione impugnata, denunzia promiscuamente violazione di legge e difetto di motivazione.
3.1. Con il primo motivo lamenta violazione degli artt. 24, 27 e 111 Cost., 5 del d. Igs. n. 74 del 2000, 192, 530, 533, 546 e 627 cod. proc. pen. e 173 disp. att. cod. proc. pen., travisamento della prova ed omissione, mera apparenza, tautologicità, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per avere riconosciuto sussistente l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000.
La motivazione della sentenza impugnata presenterebbe numerose aporie.
In primo luogo, si farebbe derivare la responsabilità penale dalla mera somma di pretesi notevoli incassi negli anni di imposta 2012 e 2013, senza, tuttavia, spiegare come si sarebbe prodotta l’imposta IVA non versata, la cui entità avrebbe superato la soglia di rilevanza penale; infatti, non si giustifica in base a quale meccanismo normativo-contabile i ricavi dell’anno 2012, pari a complessivi 313.000,00 euro quali “rimanenze finali”, che hanno prodotto IVA, non versata, per un totale di 15.05000 euro, possano poi rifluire nell’anno successivo 2013 quali “esistenze iniziali”, producendo un’IVA non versata per un totale di euro 58.640,00; tra l’altro, «in questo modo le entrate monetarie di un anno si replicherebbeagicamente nell’anno successivo, pur senza svolgimento di alcuna attività societaria (e quindi senza reali ricavi), e con assoggettamento alla medesima tassazione. In sostanza, per un curioso ribaltamento dei meccanismi di comuni operazioni commerciali si tratterebbe di prendere uno (per la Ma.Gi.) e di pagare due (all’Agenzia delle entrate). E’ chiaro che si tratta di una conclusione insostenibile non essendo possibile tassare due volte la medesima entrata (violazione di legge). Il ricavo prodotto nell’ambito di una determinata annualità non si può trasferire automaticamente in quella successiva. Si produce e si esaurisce nel medesimo anno di imposta» (così a p. 11 del ricorso). Peraltro, sempre ad avviso della Difesa, «non vi è chi non veda che le Esistenze iniziali (al di là della loro essenza, che si stenta a capire nel caso di specie) non possono consistere in somme di denaro, in quanto beni in sé e per sé improduttivi di IVA. Marra quindi non aveva alcun onere di giustificarne l’impiego» (così a p. 12 del ricorso). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
In secondo luogo, esisterebbe una contraddizione che si stima insuperabile alla p. 9 della sentenza impugnata, ove si legge che, secondo i calcoli dell’Agenzia delle entrate, nell’anno 2013 l’imposta evasa a titolo di IVA sarebbe di 58.640,00 euro, mentre, del tutto inconciliabilmente, sulla base del processo verbale di constatazione (acronimo P.V.C.) risulta invece che, a fronte di ricavi di vendita per euro complessivi 20.536,00 euro, l’IVA a debito e poi evasa sarebbe soltanto di euro 2.054,00, quindi sotto la soglia di punibilità.
La sentenza sarebbe, poi, ulteriormente illogica e contraddittoria in maniera manifesta nella parte in cui dà per ammesso che, pur con i medesimi importi quanto alle “rimanenze finali” del 2012 ed alle “esistenze iniziali” del 2013, possano sorgere differenti conseguenze giuridiche: con la conseguenza di una del tutto inspiegabile – liceità penale per l’anno 2012 e, invece, responsabilità penale per l’anno 2013.
Inoltre, posto il contrasto di dati contabili, i giudici avrebbero optato – s ritiene irragionevolmente e senza giustificazione – per la ricostruzione effettuata dall’Agenzia delle entrate, che, peraltro, rifacendosi ad un avviso di accertamento non presente in atti perché mai acquisito, nemmeno in sede di rinnovazione istruttoria, indica VIVA dovuta nella misura di 58.640,00 euro quale risultato di mere ipotesi e di presunzioni, in chiara violazione dei principi fissati dalla sentenza rescindente e, conseguentemente, dell’art. 627 cod. proc. pen., piuttosto che per gli accertamenti contabili diretti operati dalla Guardia di finanza, che ha rinvenuto, quanto all’anno 2013, fatture per euro 20.536,00, con IVA incassata al 10% e dovuta (sotto-soglia) pari al 2.053,64 euro.
Ancora: manifesta illogicità deriverebbe dall’avere sottinteso i decidenti che l’imposta evasa di 58.640,00 euro possa derivare dalla somma dei redditi di tre anni consecutivi (2011, 2012 e 2013), ove, invece, occorre considerare unicamente un anno di imposta, l’anno 2013.
La sentenza, inoltre, non chiarirebbe il motivo per cui i ricavi del 2011, pari ad euro 461.649,96 con IVA al 4% e al 10% ; per complessivi euro 18.450,00 (come si legge alla p. 1 del P.V.C.)) non hanno rappresentato le “esistenze iniziali” per l’anno d’imposta 2012, ove, invece, vengono presi in considerazione autonomi ricavi per euro 313.000,00 euro, allorquando nell’anno 2013 le rimanenze finali del 2012 diventano, inspiegabilmente e illogicamente, le “esistenze iniziali” di pari importo.
Quanto, poi, alla utilizzazione da parte della Corte di appello dell’argomento della mancata opposizione dell’imputato all’avviso di accertamento (p. 12), si richiama l’insegnamento della S.C. di cassazione nella sentenza rescindente circa l’impossibilitè, di utilizzare strumenti del diritto tributario e presunzioni semplici non potendo trarsi elementi di prova dal comportamento, ipoteticamente inerte, tenuto dall’imputato in sede tributaria ed incombendo sull’accusa l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi del reato.
Circa il riferimento della Corte territoriale (alle pp. 11-12) alla mancata dimostrazione da parte del ricorrente di essere assoggettato all’IVA agevolata al 4%, si sottolinea criticamente avere la Corte territoriale male applicato il principio di diritto fissato dalla S.C., in quanto il quadro probatorio era nel frattempo mutato a seguito di acquisizione, in sede di rinnovazione istruttoria,
del verbale (P.V.C.) della Guardia di Finanza, che si allega al ricorso, nel quale si legge (alle pp. 17-18, allegati nn. 7-8) che l’imposta IVA è pari a 2.053,64 euro, 17f/ la cui evasione non può costituire reato, essendo al di sotto Pksoglia di punibilità: onde – si ritiene – un travisamento delle emergenze processuali.
3.2. Con il secondo motivo, svolto in subordine rispetto al primo, si duole della violazione degli artt. 24, 27 e 111 Cost., 5 del d. Igs. n. 74 del 2000, 43 cod. pen., 125, 192, 530, 533, 546 e 627 cod. proc. pen. e 173 disp. att. cod. proc. pen., di travisamento della prova e di omissione, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per avere riconosciuto in capo a NOME Marra l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 5 del d. Igs. n. 74 del 2000.
Riferito il ragionamento che si legge alla p. 12 della decisione impugnata in tema di elemento soggettivo, incentrato sulla omissione della dichiarazione, sul mancato pagamento per due anni consecutivi e sulla mancata contestazione o impugnazione degli accertamenti, cioè, in realtà, elementi puramente neutri dal punto di vista penale, si osserva che al riguardo la Corte di appello riprende la motivazione che si rinviene alla pp. 13-16 della sentenza di appello già annullata, violando il principio di diritto fissato nella sentenza rescindente, che ha escluso radicalmente la possibilità di ravvisare il dolo in re ipsa, scrivendo la S.C., tra l’altro, che «il “dolo di omissione” non solo non può essere ritenuto sufficiente a integrare, sul piano soggettivo, il reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, ma nemmeno può essere confuso con il dolo di evasione», che è «è volontà di evasione dell’imposta mediante le specifiche condotte tipizzate dal legislatore penale tributario» e «che richiede un quid plu ris rispetto alla mera consapevolezza dell’oggetto dell’omissione».
3.3. Tramite l’ultimo motivo Giovanni Marra censura ulteriore violazione degli artt. 24, 27 e 111 Cost., 5 del d. Igs. n. 74 del 2000, 131-bis cod. pen., 125, 192, 530 e 546 cod. proc. pen. e, nel contempo, travisamento della prova ed omissione, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.
Posto in luce che la Corte territoriale (alla penultima pagina) ha escluso l’applicazione della causa di non punibilità in considerazione dell’entità dell’imposta evasa, si sottolinea criticamente la manifesta illogicità della giustificazione ed il travisamento della prova, essendo l’imposta evasa, nella prospettiva accolta dai giudici, connotata da lieve scostamento (soli 8.000,00 euro) rispetto alla soglia della rilevanza penale ed essendo, inoltre, i precedenti penali dell’imputato risalenti nel tempo.
Si chiede, dunque, l’annullamento della sentenza impugnata.
4. Il P.G.con nota dell’Il febbraio 2025 ha chiesto la trattazione orale del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.0sserva il Collegio che sussistono i presupposti per rilevare, ai sensi dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., l’intervenuta causa estintiva del reato per cui si procede, essendo spirato il 28 gennaio 2025 il termine massimo di prescrizione (infatti, fatto del 30 settembre 2014, che è il termine ultimo di presentazione della dichiarazione IVA per l’anno 2013, come si legge sia nel capo di imputazione sia alla p. 2 della sentenza del Tribunale + sei anni quale termine massimo di prescrizione, essendo prevista per il delitto una pena massima ex art. 5 d. Ivo n. 74 del 2000 di cinque anni di reclusione + 1/3 ai sensi dell’art. 17, comma 1-bis, del d. Igs n. 74 del 2000, in vigore a partire dal 16 settembre 2011, quindi applicabile al caso di specie, + 2 an ni = 8 anni + 1 /4 per l’ultimo evento interruttivo = 10 anni = 30 settembre 2024, cui aggiungere 120 giorni di sospensione, dal 28 gennaio 2020 al 27 maggio 2020, per astensione della Difesa dall’attività di udienza = 28 gennaio 2025; peraltro, l’illecito risulterebbe prescritto anche prendendo le mosse, secondo l’insegnamento di Sez. 3, n. 11977 del 09/01/2014, Finco, Rv. 258892, dalla avvenuta notifica a mani proprie dell’imputato, quale legale rappresentante della società, del processo verbale di costatazione, effettuato, come si legge alla p. 1 della sentenza impugnata e alla p. 1 di quella del Tribunale, il giorno 3 dicembre 2024, in quanto aggiungendo a tale data dieci anni e 120 giorni si giunge alla data del 2 marzo 2025).
2. Il ricorso in esame, infatti, non presenta profili di inammissibilità, per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perché basato su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l’intervenuta prescrizione, e ciò con particolare riferimento ai temi oggetto dei due primi motivi di impugnazione ossia la sussistenza o meno sia dell’elemento oggettivo sia di quello soggettivo – doloso – del reato.
Pertanto, GLYPH sussistono GLYPH i GLYPH presupposti, GLYPH discendenti GLYPH dalla GLYPH intervenuta instaurazione di un valido rapporto processuale di impugnazione, per rilevare e dichiarare la causa di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. che, tenuto conto della suindicata sospensione, è maturata successivamente rispetto all’adozione della sentenza impugnata (che è stata emessa il 2 luglio 2024).
Risulta superfluo qualsiasi approfondimento al riguardo, in considerazione della maturata prescrizione: invero, a prescindere dalla fondatezza o meno degli assunti del ricorrente, è ben noto che, secondo consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità, qualora già risulti una causa di estinzione del reato, non rileva la sussistenza di eventuali nullità, addirittura pur se di ordine
generale, in quanto l’inevitabile rinvio al giudice di merito è incompatibile con il principio dell’immediata applicabilità della causa estintiva (cfr. Sez. U, n. 1021
del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220511) e non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in presenza,
come nel caso di specie, di una causa di estinzione del reato, quale la prescrizione (v. Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, COGNOME, Rv. 244275).
Si osserva, infine, che non ricorrono le condizioni per una pronuncia assolutoria di merito
ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen.: non emergendo,
cioè
dunque, all’evidenza circostanze tali da imporre, quale mera “constatazione”
presa d’atto, la necessità di assoluzione (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009,
COGNOME, Rv. 244274), discende, di necessità, la pronunzia in dispositivo.
3.
Si impone, in definitiva, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per essere il reato contestato estinto per prescrizione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione. GLYPH i 11 Così deciso il fl”. -09.