Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 29589 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 29589 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Mola di Bari l’11/3/1971
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari del 14/6/2024
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 14.6.2024, la Corte d’Appello di Bari ha confermato la sentenza del Tribunale di Bari del 2.1.2023 di condanna di NOME COGNOME per il reato di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011 (commesso il 6.8.2017) alla pena di otto mesi di reclusione, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche.
I giudici di secondo grado danno atto che, con l’appello, il difensore di Macchia ha chiesto, in via principale, l’assoluzione del proprio assistito e, in via subordinata, l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen., evidenziando, in particolare, che non vi fosse prova sufficiente che i telefoni cellulari erano nella disponibilità del condannato e che il tribunale avesse travisato
le dichiarazioni spontanee degli imputati e dei testimoni, da cui emergeva pacificamente che entrambi i telefoni cellulari fossero di proprietà del coimputato NOME. I giudici rilevano, altresì, che, con memoria depositata in cancelleria, è stata denunciata la illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost. della norma che impone il divieto generalizzato di utilizzo di apparecchi cellulari, stante l’assenza di qualsivoglia limitazione per le utenze fisse.
La Corte d’Appello ha innanzitutto giudicato infondata la questione di costituzionalità, in quanto l’obbligo di non detenere cellulari è stato imposto a Macchia non in virtù di automatismi collegati al suo status di sorvegliato speciale, bensì a causa del fatto che egli è persona dedita alla commissione di reati in materia di stupefacente ed è circostanza notoria che il telefono mobile sia il mezzo più frequentemente utilizzato per lo spaccio di droga. Si tratta, dunque, di un divieto imposto dal tribunale della prevenzione nell’esercizio dei propri poteri prescrizionali, con un provvedimento che peraltro non risulta impugnato dall’imputato.
Quanto, poi, al motivo sulla responsabilità, la sentenza ha considerato l’inattendibilità delle dichiarazioni del coimputato, il quale, pur rivendicando la proprietà dei cellulari, non ha saputo riferire né i numeri degli apparecchi né i nominativi salvati in rubrica, e ciò a tacere del fatto che una delle utenze era intestata ad altra persona. Ha richiamato ulteriormente il dato degli sms comparsi su uno dei telefoni che erano inequivocabilmente indirizzati a Macchia, nonché le dichiarazioni di tre testi riguardanti la riconducibilità allo stesso Macchia dei cellulari. Di conseguenza, è da considerarsi provata la responsabilità dell’imputato per il reato ascrittogli.
Quanto alla causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen., la Corte d’Appello ha ritenuto che il fatto sia grave e che la violazione delle prescrizioni imposte all’imputato non presenti alcun profilo di lievità. Quanto al trattamento sanzionatorio, infine, la pena irrogata – ad avviso della Corte d’Appello – è da considerarsi congrua.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso il difensore di NOME COGNOME articolando tre motivi.
2.1 Con il primo motivo, deduce la illegittimità costituzionale della norma che consente l’applicazione del divieto di utilizzo di una utenza mobile al sorvegliato speciale.
Il motivo lamenta che la Corte d’Appello, anziché valutare la legittimità della norma in questione, ha proceduto a una integrazione della motivazione dell’ordinanza applicativa della sorveglianza speciale, che non aveva operato alcun collegamento tra il divieto di utilizzo del telefono cellulare e i reati commessi da Macchia in materia di stupefacenti. Di conseguenza, la motivazione della Corte
d’Appello sulla questione è apodittica e illogica, oltre che mancante sull’unica domanda presentata dall’appellante.
2.2 Con il secondo motivo, deduce la manifesta illogicità della motivazione in ordine al motivo d’appello con cui era stata sollecitata l’assoluzione.
La Corte d’Appello – secondo il ricorrente – non ha tenuto conto che i due telefoni cellulari erano intestati a persone diverse dall’imputato e ha confuso la detenzione dell’apparecchio con la possibilità di comunicazione con soggetti terzi. Il divieto di utilizzo del cellulare non comprende anche il divieto di detenzione dell’apparecchio per qualsiasi persona che si accompagni al sorvegliato e non è ragionevole ritenere che un soggetto che intendeva eventualmente comunicare con COGNOME non potesse rivolgersi al coimputato perché questi veicolasse l’informazione al sorvegliato.
2.3 Con il terzo motivo, deduce erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’art. 131bis cod. pen.
Il ricorso lamenta che la Corte d’Appello non ha considerato che l’imputato si accompagnava a un soggetto incensurato, che il contenuto dei messaggi non riguardava condotte illecite e che anche le persone che avevano comunicato con NOME erano incensurate: non si comprende, dunque, la valutazione di gravità della condotta. Il diniego è tanto più illogico se si considera che invece la particolare tenuità del fatto è stata riconosciuta al coimputato NOME
Con requisitoria scritta trasmessa il 5.5.2025, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso. Quanto al primo motivo, ha richiamato Sez. 1, n. 35796 del 2024 per farne discendere che nel caso in esame la prescrizione relativa ai telefoni è legittima, essendo stata adottata dal Tribunale con decreto che, come indicato dai giudici di merito, non risulta impugnato. Quanto alla disponibilità e all’utilizzo dei telefoni cellulari da parte del ricorrente, evidenzia che la motivazione è congrua e coerente con gli elementi evidenziati, priva di vizi di ordine logico-giuridico, come tale immune da censure rilevabili in sede di legittimità. Quanto al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen., rimarca che la motivazione appare coerente con le emergenze acquisite, con conseguente insussistenza di vizi censurabili in sede di legittimità, trattandosi di una valutazione da compiersi sulla base dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., rientrante nei poteri discrezionali del giudice, che non richiede la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato per le ragioni di seguito esposte.
Quanto al primo motivo, il ricorso, pur censurando che la Corte d’Appello non abbia accolto la richiesta di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, non denuncia espressamente l’illegittimità costituzionale di una specifica norma che ha trovato applicazione nel giudizio, ma sollecita più che altro un sindacato del decreto di applicazione della sorveglianza speciale -che avrebbe potuto impugnare nella sua sede naturale – adottato dal Tribunale di Prevenzione.
In questo modo, la questione di legittimità costituzionale non può essere presa in considerazione, perché sollevata in violazione dell’art. 23 L. n. 53 del 1987, il quale prevede che la parte debba appositamente indicare ‘le disposizioni della legge o dell’atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimità costituzionale’.
Tra l’altro, non a caso né il ricorso, né prima ancora (per quello che risulta dalla sentenza impugnata) l’atto di appello, hanno indicato la norma sospettata di incostituzionalità, in quanto non esiste una disposizione di legge che preveda la prescrizione di non detenere cellulari.
Tale prescrizione trova piuttosto la fonte nel potere discrezionale del giudice della prevenzione, il quale, secondo quanto stabilisce l’art. 8, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011, può imporre, oltre che le prescrizioni specificamente previste nella medesima disposizione di legge (tra le quali non è espressamente compresa quella di non detenere telefoni cellulari), anche tutte quelle che comunque ‘ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale’.
Nell’esaminare e disattendere la richiesta di sollevare questione di legittimità costituzionale, peraltro, la Corte d’Appello ha comunque dato atto della correttezza – che in ogni caso avrebbe dovuto eventualmente essere contestata in sede di prevenzione, con l’impugnazione del decreto ex art. 10 d.lgs. n. 159 del 2011 della decisione del tribunale in relazione alle specifiche esigenze di tutela sociale collegate alla dedizione di Macchia alla detenzione e cessione di sostanze stupefacenti.
Il primo motivo, pertanto, è manifestamente infondato.
Egualmente inammissibile è il secondo motivo di ricorso, che lamenta la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui ritiene provata la violazione da parte di Macchia del divieto di non detenere o portare indosso telefoni cellulari.
A tal proposito, le due conformi sentenze di merito hanno dato congruamente atto che nell’autovettura condotta dal coimputato NOME, sulla quale era trasportato COGNOME come passeggero, furono rinvenuti sul cruscotto due telefoni, che, in base delle dichiarazioni dello stesso NOME e dei testimoni, sono stati ragionevolmente
ricondotti alla disponibilità e all’uso tendenzialmente costanti da parte del ricorrente.
Il motivo di ricorso è meramente rivalutativo e sollecita non più che l’attribuzione agli elementi posti a fondamento della decisione di un significato diverso da quello adottato dai giudici del merito onde accreditare una ricostruzione alternativa del fatto (ovvero, che NOME avesse occasionalmente fatto da tramite tra COGNOME e persone che volevano comunicare con lui), ma così deducendo censure attinenti a vizi della motivazione non sindacabili in sede di legittimità.
Di qui, la sua manifesta infondatezza.
Quanto al terzo motivo, la sentenza impugnata motiva adeguatamente il diniego dell’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131bis cod. pen. con il riferimento alla gravità del fatto e della violazione delle prescrizioni della misura di sorveglianza speciale.
Si tratta di una motivazione che – contrariamente a quanto dedotto nel motivo di ricorso – è nient’affatto manifestamente illogica, in quanto fa corretta applicazione del principio secondo cui, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, il giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. 7, n. 10481 del 19/1/2022, Deplano, Rv. 283044 – 01; Sez. 6, n. 55107 dell’8/11/2018, COGNOME, Rv. 274647 – 01); di conseguenza, è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell’assenza anche di uno soltanto dei presupposti richiesti dall’art. 131bis cod. pen . , ritenuto, evidentemente, decisivo (Sez. 3, n. 34151 del 18/6/2018, COGNOME, Rv. 273678 – 01).
Il ricorrente contrasta tale motivazione con il riferimento a circostanze non strettamente attinenti alla condotta incriminata, che pertanto non arriva ad inficiare la conclusione cui è giunta la Corte d’Appello.
Priva di pregio è, inoltre, la doglianza relativa alla presunta disparità di trattamento che COGNOME avrebbe subito rispetto al suo computato, a cui è invece stata applicata la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.
L’obiezione trascura di considerare che il coimputato NOME rispondeva di un fatto di reato diverso da quello per cui è stato condannato il ricorrente, sicché la posizione processuale di ciascuno è rimasta autonoma e ciò esclude ogni automatismo nella valutazione, dovendosi invece separatamente verificare – ciò cui ha concretamente proceduto la Corte d’Appello – la sussistenza o meno delle condizioni per l’applicazione dell’art. 131bis cod. pen. in capo a ciascun singolo imputato che l’ha richiesta.
Il motivo, dunque, è infondato.
Alla luce di quanto fin qui osservato, pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 21.5.2025