Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 38803 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 38803 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 25/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Napoli il DATA_NASCITA, avverso la sentenza in data Corte d’appello di Brescia in data 22/11/2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni trasmesse, in data 3/9/2024, dal Procuratore generale nella persona del sostituto AVV_NOTAIO NOME COGNOME che ha chiesto di dichiarare il ricorso inammissibile con le statuizioni conseguenziali e, in data 19/9/2024, dall’AVV_NOTAIO, difensore di COGNOME, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 10/5/2021 il Tribunale di Brescia ritenne COGNOME responsabile del reato di cui all’art. 10 d.lgs. 74/2000 per aver, quale liquidatore della RAGIONE_SOCIALE, al fine di evadere le imposte o di permettere ad altri di evaderle, occultato o distrutto le scritture contabili dell società così da non consentire la ricostruzione dei redditi e del volume di affari, e, ritenuta la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, riconosciute le attenuanti generiche equivalenti, lo condannò alla pena di mesi sei di reclusione, oltre alle pene accessorie.
Con sentenza in data 22/11/2023, la Corte d’appello di Brescia, in parziale accoglimento dell’appello, ritenuta la recidiva specifica e infraquinquennale, equivalente alle attenuanti, e la continuazione tra il reato in valutazione e i reati giudicati con sentenza della Corte d’appello di Brescia in data 28/3/2023, div. irr. il 12/9/2023, rideterminò la pena in mesi tre di reclusione “quale aumento in continuazione sulla pena” inflitta dalla sentenza divenuta irrevocabile, restando così fissata la pena finale in anni due e mesi tre di reclusione, con conferma nel resto.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del difensore, COGNOME che, con unico motivo, denuncia: la violazione dell’art. 649 cod. proc. pen., per non aver la Corte territoriale riconosciuto che l’imputato era stato già condannato, con sentenza passata in giudicato, per lo stesso fatto per cui si procedeva; la mancanza di motivazione, per non essersi la Corte territoriale confrontata con gli argomenti dedotti dalla difesa a sostegno dell’eccezione del bis in idem sollevata; la violazione dell’art. 597 cod. proc. pen. per aver la Corte territoriale “riformato”, in violazione del divieto di reformatio i peius, la sentenza di primo grado nel punto relativo all’epoca di consumazione del reato. Osserva la difesa che il Tribunale aveva individuato l’epoca di consumazione del reato nell’aprile del 2012, facendola discendere da una perquisizione che l’imputato aveva subito nel gennaio 2012 e che il Tribunale aveva erroneamente collocato tre mesi più tardi, e che il dato assumeva indubbia rilevanza in quanto confermava che il reato in valutazione coincideva con quello contestato al capo E.1 della rubrica del proc. 9797/12 R.G.N.R., definito con la sentenza della Corte d’appello di Brescia del 12/9/2023, relativo all’occultamento o alla sottrazione delle scritture contabili della RAGIONE_SOCIALE accertati dalla Guardia di Finanza di Cremona il 24/1/2012. Assume il difensore che l’identità dei reati oggetto dei due procedimenti era stata portata all’attenzione della Corte territoriale con uno specifico motivo di gravame, volto a ottenere la declaratoria d’improcedibilità ai sensi dell’art. 649 cod. proc. pen., che però non aveva trovato esaudiente risposta nella sentenza impugnata essendo stata l’eccezione elusa rettificando “la retrodatazione del reato” operata dal Tribunale e individuando, in palese violazione del divieto di refornnatio in peius, una data di consumazione più recente. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile stante la palese infondatezza. Va in primo luogo sgombrato il campo dalle doglianze prospettante la violazione del divieto di reformatio in peius, avendo il giudice di appello contraddetto la valutazione del Tribunale, che aveva retrodatato la consumazione del reato
all’aprile del 2012, rilevando che l’unico dato certo cui ancorare la prescrizione era il 30 marzo 2016, giorno in cui all’imputato era stata richiesta l’esibizione delle scritture contabili obbligatorie, per cui ogni differente datazione risultava “aleatoria”, anche in considerazione del fatto che COGNOME aveva dichiarato, in sede di indagini, di aver distrutto i documenti nell’estate del 2015 e, in dibattimento, di non aver mai avuto la disponibilità della documentazione contabile della società.
La differente valutazione espressa dalla Corte territoriale in ordine alla data di consumazione del reato non integra l’ipotesi di nullità prospettata dalla difesa.
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente precisato che il comma 3 dell’art. 597 cod. proc. pen. “preclude al giudice di appello di compiere le seguenti attività: applicare una pena più grave per specie o quantità o una misura di sicurezza nuova, o più grave, revocare benefici, ovvero prosciogliere per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata” (Sez. 2, n. 23410 dell’ 1/7/2020, COGNOME, Rv. 279772 – 01). La norma, inoltre, fa salva la facoltà del giudice di appello di dare al fatto la corretta qualificazion giuridica, anche più grave di quella ritenuta dal giudice di primo grado, con ogni connessa conseguenza in tema di determinazione del tempo necessario alla prescrizione del reato, trattandosi di effetti sfavorevoli estranei al divieto riforma peggiorativa (Sez. 2, n. 23410 dell’ 1/7/2020, COGNOME, Rv. 279772 – 01; Sez. 2 , n. 46712 del 30/10/2019, COGNOME, Rv. 277599 – 01; Sez. 1, n. 6116 dell’ 11/12/2013 (dep. 2014 ), COGNOME, Rv. 259466 – 01; Sez. 2, n. 41142 del 19/9/2013, COGNOME, Rv. 257338 – 01). Altre sentenze, ancora, hanno precisato che il divieto di reformatio in peius non si estende ai criteri di valutazione delle prov (Sez. 1, n. 2552 del 23/01/1990, COGNOME, Rv. 183459 – 01; Sez. 4, n. 22217 del 16/4/2019, COGNOME) o, comunque, del materiale raccolto o degli atti del processo (v. in questo senso: Sez. 5, n. 13307 del 17/10/1980 (dep. 12/12/1980), Rv. 147059 – 01, secondo cui il fatto che il giudice di primo grado abbia concesso le attenuanti, ritenendole equivalenti alle aggravanti, sul presupposto di una incensuratezza inesistente perché desunta da un certificato non aggiornato, se impedisce al giudice di appello, per il divieto della reformatio in peius, di revocare la concessione, non impedisce invece di tener conto delle nuove risultanze al fine di negare il maggior vantaggio della prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti, sollecitato dall’imputato; Sez. 4, n. 22217 del 16/4/2019, COGNOME, Rv. 276267 – 01). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Poiché la violazione dell’art. 597 comma 3 cod. proc. pen. per effetto della differente data di consumazione del reato costituisce l’unica censura mossa dal ricorrente al processo inferenziale che l’aveva determinata, risulta validato anche l’argomento con cui la Corte territoriale ha negato che vi fosse “una corrispondenza storico naturalistica della condotta e delle circostanze di tempo,
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di luogo e di persona” fra il reato in valutazione e quello contestato nel processo definito dalla sentenza della Corte d’appello di Brescia del 28/3/2023. La Corte territoriale, infatti, ha ritenuto che il processo pendente presentasse “una contestazione più ampia, sia dal punto di vista dell’oggetto (tutte le scritture contabili della RAGIONE_SOCIALE dalla costituzione alla data di accertamento fiscale), sia dal punto di vista temporale, e afferente a fatture diverse ed emesse in epoca successiva a quelle contemplate nel reato già giudicato”, che, giova precisarlo, era relativo, secondo quanto si legge nella sentenza impugnata, all’occultamento, da parte di COGNOME, “delle scritture contabili relative agli ann 2007, 2008 e 2009 e, segnatamente, una serie di fatture numericamente elencate emesse in quegli anni dalla “RAGIONE_SOCIALE nei confronti del RAGIONE_SOCIALE“.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi, per quanto sopra argomentato, profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in euro tremila.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 25/9/2024