Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 16362 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 2 Num. 16362 Anno 2025
Presidente: IMPERIALI NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 07/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nata a Napoli il 14/09/1995
avverso la sentenza del 11/11/2024 della Corte d’appello di Messina visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia accolto limitatamente al trattamento sanzionatorio e che la sentenza impugnata sia annullata con rinvio;
udito l’Avv. NOME COGNOME in difesa di COGNOME NOMECOGNOME il quale, dopo una breve discussione, ha chiesto l’accoglimento del ricorso e l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 11/11/2024, la Corte d’appello di Messina, in parziale riforma della sentenza del 21/09/2023 del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, emessa in esito a giudizio ordinario, esclusa la circostanza aggravante di cui al combinato disposto degli artt. 640, secondo comma, n. 2-bis), e 61, n. 5), cod. pen., rideterminava in nove mesi di reclusione ed C 300,00 di multa la pena irrogata a NOME COGNOME per il reato di truffa in concorso (con persona rimasta
ignota) ai danni di NOME COGNOME confermando la condanna della COGNOME per tale reato.
Secondo il capo d’imputazione, lo stesso reato era stato contestato all’imputata «poiché, in concorso con persona di sesso maschile allo stato ignota, presentandosi con il nome di “NOME“, con artifizi e raggiri consistiti: nell’intercettare, sulla rete internet, le richieste di preventivo di poli assicurativa di NOME per il proprio ciclomotore ; – nell’instaurare condurre mediante l’utenza n. 379/NUMERO_DOCUMENTO (intestata al cittadino straniero NOME COGNOME) e tramite “whatsapp” una trattativa telefonica, avvalendosi di un ignoto interlocutore di sesso maschile falsamente qualificatosi come “NOME“, assicuratore della Generali; – nel proporre ed inviare al NOME una polizza assicurativa, richiedendo ed ottenendo il pagamento della somma pattuita di 291,20 tramite accredito mediante “Sisal Pay” in favore di beneficiario avente codice fiscale CODICE_FISCALE sulla nr. Carta 5295930058469363 ID carta 3090212553071, intestata a NOME NOME; – nell’inviare al NOME dapprima una copia del contratto su “whatsapp”, in cui vi era un errore sul modello del ciclomotore, e dopo la nuova polizza nr. 653923892 con scadenza 4.12.2021,– traendo così in errore la predetta persona offesa circa la propria buona fede e la genuinità della polizza assicurativa, rivelatasi poi fittizia a seguito di controllo su strada dei carabinieri di Milazzo in data 13.12.2020, rendendosi, successivamente a tale controllo, irreperibili ai tentativi di contatto telefonico d NOME, si procuravano l’ingiusto profitto di C 291,20, con danno alla persona offesa pari a C 293,20».
Avverso tale sentenza del 11/11/2024 della Corte d’appello di Messina, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore avv. NOME COGNOME NOME COGNOME affidato a due motivi.
2.1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. e) , cod. proc. pen., l’omessa motivazione in ordine alle censure che aveva avanzato nel proprio atto di appello con riguardo all’affermazione della sua responsabilità.
La COGNOME lamenta che la Corte d’appello di Messina non si sarebbe confrontata con l’argomento logico decisivo – che era stato appunto evidenziato nel suo atto di appello – che «sarebbe fuori di ogni previsione razionale la circostanza secondo la quale l’imputata avesse scelto di utilizzare terzi soggetti per sfuggire alla sua identificazione, decidendo viceversa di figurare in prima persona nella fase finale maggiormente indiziante quale, appunto, quella della apprensione ‘documentale’ del profitto del reato, versato su una carta a lei intestata».
Secondo la ricorrente, l’utilizzo delle indicate accortezze sarebbe indic della sua «sostanziale estraneità ai fatti in contestazione e dunque d coinvolgimento soltanto formale» e dimostrerebbe «che i soggetti rimasti ignot veri autori del reato, abbiano utilizzato la sua persona quale ulterio volto ad impedire la loro identificazione».
2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. comma 3, cod. proc. pen., e il vizio della motivazione con riguardo al trattam sanzionatorio.
La COGNOME espone che: 1) con la sentenza di primo grado, la pen detentiva era stata determinata sulla base della ritenuta equivalenza concesse circostanze attenuanti generiche e la circostanza aggravante di cu combinato disposto degli artt. 640, secondo comma, n. 2-bis), e 61, n. 5), cod. pen., nonché con un discostamento dal minimo edittale (un anno di reclusione fronte di sei mesi di reclusione); 2) la Corte d’appello di Messina esclude menzionata circostanza aggravante e rideterminava la pena in nove mesi d reclusione.
Ciò esposto, la ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d’appello di Mess abbia determinato la misura della pena base discostandosi anch’essa dal minim edittale «senza offrire alcuna motivazione in ordine a tale discostamento, sep fosse anch’esso oggetto di impugnazione» a mezzo di uno specifico motivo di appello «in relazione al quale non vi è alcuna pronuncia da parte della di appello».
In secondo luogo, la COGNOME contesta il diniego, da parte della Co d’appello di Messina, delle circostanze attenuanti generiche che le erano s applicate dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con la conseguente violazio dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen.
La ricorrente deduce in proposito che, «robabilmente, proprio per effe di tale erroneo diniego, la pena finale veniva rimodulata in considerazione d sola esclusione della richiamata aggravante, laddove invece sarebbe stato le attendersi che la Corte rioperasse il calcolo della pena dapprima esclude l’aggravante, che avrebbe riportato l’ipotesi delittuosa ad assestars fattispecie base di cui al primo comma – con considere diminuzione del minimo edittale da un anno a sei mesi – e sulla stessa poi ope la riduzione per le già riconosciute in primo grado circostanze ex art 62 bis c.p.».
L’imputata aggiunge che, «quand’anche la Corte, condividendo il discostamento dal minimo edittale avesse effettuato il calcolo sanzionatori conseguenza, avrebbe dovuto motivare sul punto», mentre, poiché i «passaggi dell’iter logico seguito dalla Corte non espressi in motivazione», dalla stes non è possibile «comprendere quali ne siano stati i segmenti».
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è manifestamente infondato.
Posto che la sussistenza della truffa è, nel caso in esame, pacifica, quanto al concorso dell’imputata in tale reato, il Collegio ritiene insussistente il denunciato vizio motivazionale, atteso che, in assenza di attendibili elementi di segno contrario, non si può ritenere né contraddittorio né manifestamente illogico reputare, come ha fatto la Corte d’appello di Messina, che l’intestataria di una carta Postepay (appunto, l’imputata) sulla quale venga chiesto di accreditare e venga effettivamente accreditato il prezzo del negozio truffaldino sia anche la beneficiaria di tale pagamento e sia quindi, in quanto tale, responsabile, quanto meno a titolo di concorso, della truffa.
Del resto, come è stato ragionevolmente argomentato dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, risponde a criteri di logica che l’autore della truffa individui una modalità esecutiva del reato che gli consenta di appropriarsi del relativo profitto, ciò che conferma la responsabilità, a titolo di concorso, dell’imputata, che una tale modalità ha, appunto, evidentemente concorso a individuare.
Diversamente da quanto è sostenuto dalla ricorrente, il fatto che la modalità individuata era tale da consentire la sua identificazione non implica affatto, logicamente, di per sé, la sua «sostanziale estraneità ai fatti» e che i «veri autori del reato» abbiano «utilizzato la sua persona quale ulteriore filtro volto a impedire la loro identificazione».
Si deve infatti in proposito osservare che, posto che la carta PostePay era risultata essere stata attivata personalmente dalla COGNOME e che per prelevare da una tale carta occorre il PIN, che è nella disponibilità del suo titolare, cioè dell stessa COGNOME, l’imputata – che non ha ritenuto di partecipare a nessuno dei due gradi di giudizio di merito -, non ha in effetti mai riferito né di avere ceduto terzi la propria carta né, tantomeno, a chi l’avrebbe ceduta.
La tesi sostenuta nel ricorso si ferma pertanto al livello della mera asserzione difensiva, sprovvista di qualsiasi riscontro probatorio.
Il secondo motivo è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato.
2.1. La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nell’affermare che la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso in cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simi nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (tra le tante: S 4, n. 46412 del 05/11/2015, COGNOME, Rv. 265283-01).
Anche successivamente, è stato ribadito che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obblig di motivazione, è sufficiente che dia conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 13 cod. pen. con espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243-01).
Nel caso in esame, è vero che la pena di nove mesi di reclusione che è stata irrogata dalla Corte d’appello di Messina è notevolmente al di sotto della media edittale della pena per il delitto di truffa semplice (media edittale che è pari a u anno e nove mesi di reclusione), ma è altrettanto vero che, a fronte, peraltro, di uno specifico motivo di appello con il quale la COGNOME aveva chiesto che le fosse applicato il minimo della pena (pag. 12 dell’atto di appello dell’imputata), la Corte d’appello di Messina, col limitarsi ad affermare che «a pena può pertanto essere rideterminata in questa sede in mesi nove di reclusione ed euro 300 di multa», non ha dato in alcun modo conto, neppure con le espressioni che si sono sopra menzionate o con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, di avere impiegato, nel determinare la pena detentiva nella suddetta misura di nove mesi di reclusione, i criteri di cui all’art. 133 cod. pen., con la conseguenza che l’obbligo di motivazione della graduazione della pena non si può ritenere essere stato in alcun modo assolto dalla stessa Corte d’appello.
2.2. Il motivo è fondato anche sotto l’ulteriore profilo della violazione del divieto di reformatio in peius.
Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto aveva applicato alla COGNOME le circostanze attenuanti generiche, ritenendole equivalenti rispetto alla circostanza aggravante della cosiddetta minorata difesa.
La Corte di appello di Messina, a seguito di appello della sola imputata, ha ridotto la pena finale a essa irrogata (da un anno di reclusione ed € 400,00 di multa a nove mesi di reclusione ed € 300,00 di multa) ma ha escluso l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche (con la motivazione che: «on si ravvisano elementi positivamente apprezzabili ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto della condotta posta in essere»).
In proposito, si deve rammentare che le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza NOME COGNOME hanno chiarito che, nel giudizio di appello, il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall’imputato non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi
che concorrono alla sua determinazione (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, NOME
COGNOME, Rv. 232066-01).
Da tale principio deriva che, come è stato successivamente affermato dalla
Corte di cassazione con riferimento a una fattispecie che appare sovrapponibile a quella in esame, nel caso di impugnazione proposta dal solo imputato, viola il
divieto di reformatio in peius
la decisione del giudice di appello che, pur riducendo l’entità della pena complessiva irrogata, escluda le circostanze
attenuanti generiche, già applicate in primo grado (Sez. 5, n. 11730 del
27/01/2020, COGNOME Rv. 278928-01, relativa a una fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza del giudice di appello che, in sede di rinvio a seguito di
precedente annullamento, aveva ritenuto non configurabile l’aggravante dei futili motivi, già ritenuta equivalente alle circostanze attenuanti generiche, e
rideterminato in melius
la pena complessiva, non concedendo, però, le attenuanti generiche applicate fin dal primo grado).
2.3. Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad un’altra sezione della Corte d’appello di Messina perché provveda a motivare la
determinazione della misura della pena base e ad applicare a tale pena la diminuzione per le circostanze attenuanti generiche.
In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio a un’altra sezione della Corte d’appello di Messina per un nuovo giudizio sul punto. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile nel resto e deve essere dichiarata l’irrevocabilità dell’affermazione di responsabilità.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Messina per nuovo giudizio sul punto. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso ed irrevocabile l’affermazione di responsabilità.
Così deciso il 07/03/2025.